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LA RAGAZZA DEL TRAM B

Questo racconto è tratto da L’Ampoule, rivista letteraria francese che esce in formato cartaceo a cadenza semestrale. L’Ampoule ospita racconti brevi illustrati, dando spazio al bizzarro, al fantastico e al misterioso. La ragazza del tram B è stato pubblicato nel quinto numero della rivista accompagnato da una fotografia di Olivia HB.

Sono la ragazza del tram B. Mi hai incrociata un sabato mattina. Hai sicuramento notato le mie scarpe da tennis bianche, macchiate di terra. Ma sono soprattutto i miei occhi vuoti e cerchiati, come se tornassi da molto lontano, che ti hanno scosso. Mi hai giudicato severamente, ne sono sicura. Forse hai provato pietà di me. Ma c’è qualcosa di più inconfessabile: una parte di te mi ha invidiato. Ti sarebbe piaciuto essere come me, distaccata dalle cose, dagli esseri, dai luoghi e dal tempo. Quella mattina non avevo più punti di riferimento. Con entrambi i piedi sul sedile, circondavo le ginocchia storte con le mie braccia magre. Cercavo di poggiarvi la testa, che scivolava senza tregua. Il mio nido improvvisato non era dei più comodi ma almeno, qui, era pulito, caldo ed ero al sicuro.

Quando il tram si è fermato, ho cercato di scendere premendo il pulsante. Una volta. Due volte. Invano. Non capivo perché la porta rifiutasse di aprirsi. Non eravamo ancora arrivati alla fermata. Tu mi hai guardata e hai sorriso. Forse è per questo che mi sono appoggiata contro di te. Oppure è perché non ho avuto scelta: non riuscivo a tornare al mio posto. Non hai detto niente. Non mi hai respinta. Né aiutata a sedermi. Sei rimasto lì, impassibile, solido, come un albero ben radicato, impedendomi di accasciarmi su me stessa. I nostri cammini si sono separati alla fermata seguente. Guardandomi andarmene in direzione dei binari, so cosa ti stavi chiedendo: ero una giovane donna che aveva festeggiato troppo la sera prima, un’alcolizzata, una drogata? Voglio credere che mi hai dato il beneficio del dubbio. Vorrei poterlo concedere a me stessa.

Sono la ragazza del tram B. Soffio nelle tue orecchie come il vento. Ti riporto alla mente un timbro di voce e delle parole che preferiresti scordare: quelle di tua madre. “Chi sei per giudicarmi?” ti diceva. È quello che ti dico io oggi. Perché neanche tu stai bene. Disillude anche te, la città. La città ti ubriaca e poi ti lascia KO con dei bei postumi. La festa è finita. La guerra è dichiarata. Questa città ormai ti fa paura. Ti terrorizza. Non osi più uscire da casa tua. La strada è minacciosa. Troppo rumore. Troppi manifesti. A volte dei semplici fogli A4 che citano Bourdieu o Marcuse incollati sui pali, sui muri sporchi, sulle vetrine di negozi sfitti. Troppi adesivi. Troppe parole. Troppe frasi. Troppe immagini. Troppi messaggi in codice che non si rivolgono che a te. La guerra si prepara, lo sai, lo senti ogni giorno un po’ di più. Il peggio deve venire. Sarai tu la sola a capirlo?

alice mirano

Incentivi a uccidere scritti con lo stampino, a vernice arancione, sul marciapiede sotto casa tua. REDRUM. Hai visto il film di Kubrick ma la citazione cinefila non addolcisce il proposito. Uno di quei film visti durante l’adolescenza che ti hanno traumatizzato in modo permanente. Perché non sei cambiata. Resti quella povera bambina a cui fa paura tutto. Un film dell’orrore, la copertina di Nouveau Detective sulla vetrina della tabaccheria accanto alla scuola elementare, l’ombra degli alberi piegati dal vento una volta calata la notte sulla lunga strada che conduce a casa tua, un cassonetto lontano che prendi per la sagoma di un assassino in agguato. Sarai sempre una fifona, una codarda!
Che pensare di queste invettive multiple, di questi messaggi che pullulano, di questi appelli alla rivolta che fioriscono dall’autunno scorso nelle strade della tua città, queste strade che percorri tutti i giorni, a piedi, in bicicletta, in tram, in bus da anni? Accanto alle citazioni di sociologi e pensatori, di versi misteriosi di Baudelaire.  Ti vengono poste delle domande fastidiose, come questa che si rivolge solo a te e ti mette a disagio: sei davvero lì dove vorresti essere?
Slogan caricaturali che non fanno ridere. Il ritratto di Pétain in bianco e nero che ha come motto: “Travail. Famine. Pâtes riz.”1 Eppure basterebbe poco per farti ridere. Ma non ridi: tremi. Le tue mani sono umide. Il tuo cuore accelera. Hai solo una voglia, tornare a casa tua. Ti affretti. Presa dal panico, urti i numerosi passanti di un’arteria mercantile. Una strada di cui non vedi la fine, tunnel interminabile dove la prospettiva della piazza dell’opera sembra allontanarsi, si sottrae al tuo sguardo ogni volta che ti è sembrata vicina.
Non capisci che la città è un grande Escape Game dal quale non uscirai? La città ti trattiene, tu sei la sua prigioniera. Non riuscirai a scappartene via. Enigmi da risolvere. Chiavi da ritrovare. Collegamenti da stabilire tra elementi diversi di questo scenario falso. Perché l’hai capito, spero: qui non c’è niente di vero, tutto è un’illusione ottica, costruita su misura in Russia, tutto è falso, tutto non è che un’illusione. Ha l’aria così vera che quasi ci potremmo credere. Piani e mappe a bizzeffe. Ci fai gli incubi la notte. Piani e mappe su cui ti orienti con difficoltà. La semplice vista di uno schema ti angoscia. Hai l’impressione che ti diano informazioni contraddittorie per farti perdere meglio. O che mappino diversi livelli di realtà, come se la città avesse più strati di sedimentazione, più livelli d’accesso le cui entrate ti sfuggono – passando per il museo durante la notte, magari?

Hai bisogno di tempo per sapere dove sei. Di tempo per decidere la tua destinazione. Di tempo ancora, troppo tempo, per scegliere un itinerario. E quando ti decidi a muoverti, è troppo tardi, tutto è cambiato. Nuovi edifici di lusso sono sorti dalla terra, una nuova linea del tram attraversa la città, nuove boutique molto chic, nuovi concetti falsamente innovativi (in realtà per acchiappa-citrulli). Tutto è nuovo. E tu, tu sei così vecchia adesso. Come sei potuta invecchiare così veloce? Il tempo avrà accelerato?
Non sai più quali strade imboccare. Ti perdi così tanto in congetture che dimentichi la tua destinazione. Tutti questi bus, questi tram, queste macchine, queste biciclette, queste moto, questi scooter, questi monopattini ti fanno girare la testa. Non ce la fai più, sei esaurita. La città è troppo viva, a volte la vorresti morta, ammirare il suo grande corpo inerte stendersi per chilometri, come un delfino agonizzante arenato su una spiaggia.

Il peggio, sono i tre punti rossi. Ti terrorizzano. Ti bloccano sul posto. Ti ghiacciano le ossa non appena li vedi. Ti s’impongono con violenza. Tre punti rossi sulla lastra all’entrata del giardino pubblico. Tre punti rossi sulle sfere dell’arredo urbano. Tre punti rossi sulla vetrina di un negozio. Tre punti rossi come gli angoli di un triangolo immaginario. In attesa che una mano lo tracci. Indicando un quarto punto, là dove le bisettrici s’intersecano. Designando un obiettivo da raggiungere. A meno che questo punto non sia il centro che permette di tracciare i cerchi circoscritti al triangolo, la rappresentazione schematica di una zona da difendere.

Tutta la giornata, rivedi questi tre punti rossi. Persistenza retinica prolungata fino all’ossessione. Naso di clown. Pomodoro. Biglia. Ciliegia. Palla. Papavero. Pallottoliere. Macchia di sangue.
Hai troppo caldo. E poi di colpo molto freddo. Perle di sudore colano lungo la tua colonna vertebrale. La tua gola è secca. Respiri troppo forte e a scatti. Il tuo foulard è troppo stretto intorno al collo.  Soffochi. Ti senti oppressa. Dovresti togliere questo maglione che ti aderisce in modo insopportabile. I pantaloni non sono della tua taglia, come hai fatto a non rendertene conto prima? Ti stringono tremendamente: ti ci vorrebbe una taglia in più. E poi slacciare quel maledetto reggiseno che t’impedisce di respirare. Hai male allo stomaco. Ignori se è fame o, al contrario, voglia di vomitare.

È una mattina di primavera, sul tram B. Vorresti che qualcuno ti aiutasse. I nostri sguardi s’incrociano. Ti chiedo se ti senti bene. Mi rispondi di no con la testa. I tuoi occhi spaventati vagano sulla mia camicia. È bianca a pois rossi. Mi sembra di capire che cerchi di contarli. Se dividi il totale per tre, forse coglierai finalmente il senso nascosto delle cose?

Testo: Marianne Desroziers
Illustrazione: Alice Mirano
Traduzione: Alessia Del Freo

 

1 “Travail, Famille, Patrie“, ovvero “lavoro, famiglia, patria”, era il motto dello Stato Francese (Repubblica di Vichy) durante la seconda guerra mondiale. Durante le proteste contro la riforma del lavoro del 2016 lo slogan è stato deformato in “Travail. Famine. Pâtes riz”, “lavoro, carestia, pasta riso”.

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