EX-TRA presenta:

STANZA

Questo racconto è tratto da “Fu Review“, rivista letteraria indipendente anglofona con base a Berlino. Fu Review pubblica due numeri l’anno proponendo poesia e prosa da tutto il mondo. 

Stai cercando disperatamente di non deglutire. La tua faccia è schiacciata nell’incavo del divano, il punto in cui il bracciolo di pelle nera si congiunge con lo schienale. Se riuscissi a vedere attraverso l’alluminio e la pelle e la gomma piuma magari sapresti dire di che colore la luce del mattino ha iniziato a tingere il legno laccato del pavimento. Concentrati su questo piuttosto.
Se deglutirai, farai un rumore raccapricciante e Micah e Lee sapranno che sei vigile e che puoi sentire tutto quel che si dicono. Resterai immobile e aspetterai e ascolterai. Fuori, realizzi che la pioggia ha preso a scrosciare sulla costa. Il colpo percussivo delle gocce produce in qualche modo l’effetto opposto, una profonda inspirazione, un suono così basso e vasto che lo noti solo quando è cambiato o scomparso. Come l’unico modo per non deglutire è non pensarci, lasciarsi andare.

C’è il bollire e lo scatto del bollitore elettrico, un movimento dal tuo letto quando Micah si alza, magari mettendo una mano sul braccio di Lee.
“Lascia stare, faccio io.”
Dei passi ti superano, vanno verso l’angolo cottura nel punto più lontano della stanza, ci sono pause nel ritmo del rumore dei passi quando Micah devia per evitare le varie cose sparse sul pavimento.
“Cristo, questo posto è un macello. Lee, da quant’è che manco?’
La voce di Lee è un po’ rauca.
“Un mese?”
“Tre settimane. Me ne vado per tre settimane e quando torno questo posto sembra Katmandu.”
“Beh…”
Micah sta guardando nella credenza sopra alla mensola con su il bollitore fumante. Non è possibile comprendere i pesi o le consistenze specifiche dal rumore corale di tutte le cose che vengono spostate, così cerchi di raffigurarti mentalmente il contenuto della dispensa. Confezioni di tè in cartone e alluminio, caffè solubile, un tupperware di miele locale, a quanto pare le api vengono allevate tra alberi di pino. E qualcos’altro, qualsiasi cosa sia.
“Tè o caffè?”
“Mmh…Caffè.”
“Ok. Spero vada bene quello solubile.”
“Ah. Allora magari il tè. C’è del tè nero?”
“Abbiamo ancora del Ceylon.”
“Il Ceylon va benissimo, grazie.”
“Ok. E… Lee?”
“Sì?”
“Hai visto la mia zuccheriera?”
La zuccheriera, ecco cos’era. La nonna di Micah aveva portato una zuccheriera dall’appartamento di Bucarest. Porcellana, superficie bianca liscia, con la raffigurazione di una battuta di caccia sul lato. Cavalieri e segugi che corrono giù da una collina, la chiazza ocra di una volpe tra gli alberi e i boschi. Tu trovi l’immagine insopportabile per qualche motivo, crudele da mettere su una zuccheriera; quella piccola macchia solitaria non ha praticamente alcuna possibilità di farcela.
“Una zuccheriera?”
“La zuccheriera di baba. Lascia stare, sarà probabilmente di sotto.”
“Quella con il paesaggio dipinto sul lato?”
“Proprio quella.”
“L’ho vista da qualche parte qui di sopra. Una caccia alla volpe, vero?” “Sembra una caccia alla volpe.”
Cristo. La zuccheriera è sotto al tuo divano. Hai spento una sigaretta nello zucchero e l’hai messa proprio sotto al bordo del divano, prima di girarti e schiacciare la faccia nell’incavo di pelle nera del bracciolo.
“Però baba è convinta che la partita di caccia stia invece inseguendo una lepre, o qualcosa di simile. Non la volpe. Ha quella zuccheriera da quando era bambina, e ha sempre creduto che la volpe stesse semplicemente lì seduta nei boschi a guardare i cacciatori mentre passavano. Non ha nessun senso. Ma con baba non ci puoi discutere su quest’argomento.”
Se deglutirai, Micah sarà immediatamente consapevole del fatto che sei vigile, e che stai ascoltando attentamente, e che stai mettendo tutto l’impegno possibile nel non muoverti. La possibilità di fingere di spostarti nel sonno per coprire il suono del tuo deglutire o anche solo quella di chiudere minimamente la gola è del tutto fuori questione. Nello sforzo di mantenere una posizione che sembri improvvisata o disinvolta il tuo corpo è diventato talmente teso e rigido che un movimento qualsiasi potrebbe rendere evidente il fatto che non stavi dormendo.
La tua consapevolezza del bisogno di non deglutire o girarti sembra esistere in proporzione esattamente inversa alla tua abilità di controllare l’impulso di farlo. Forse sarebbe più giusto dire che la consapevolezza del bisogno crea l’urgenza di non muoversi o deglutire, ed è l’urgenza che erode il controllo, o che l’urgenza e la consapevolezza e il controllo combattano l’uno contro l’altro, e si alimentano reciprocamente – ma in ogni caso, non c’è modo di combattere il bisogno di deglutire, combatterlo lo rende solo più forte, come le sabbie mobili, o le trappole cinesi per le dita.

Ora i passi ti superano di nuovo e tornano verso il letto che scricchiola quando Micah ci si siede. Lee sarà probabilmente ancora sdraiato sull’altro lato del letto, o si starà sollevando su un braccio per prendere la tazza di tè, o se ne starà rimanendo disteso sulla schiena, mettendosi la tazza sullo stomaco per poi sollevarla fino al bordo del mento.
“Che buono. Sembra fresco.”
“È di quelli che vendono in confezioni singole. Ogni busta di tè è foderata nella plastica. Uno spreco di plastica, ma…”
“Ma mantiene il Ceylon fresco.”
“Esatto.”
“Allora forse non è poi uno spreco di plastica.”
“Mmh…”
Respiro e silenzio. La pioggia fuori continua con una sicurezza delicata che rende chiaro il fatto che il sole mattutino non ce la farà mai.
“Dunque. Com’è andato il volo?”
“Bene. Ho preso un Rivotril a Baltimora, un altro quando ho fatto scalo a Francoforte. Gin nel mezzo.”
Lee ride: “Sembra la mia di nottata.”
“Immagino.”
“Ci siamo svegliati sulla spiaggia a Vama Veche. La sabbia era gelata. All’inizio pensavo fosse bagnata, era così fredda.”
“Ma se era buio, come fai a esserne sicuro?”
“Dopo un po’ lo sapevo e basta.”
“E lì sul divano?”
“Era di fianco a me quando mi sono svegliato, guardava l’acqua. Credo che nessuno di noi due abbia dormito stanotte. Abbiamo preso entrambi delle pasticche.”
Micah sospira.
Adesso non ci sono dubbi sul fatto che Micah e Lee ti stanno guardando sul divano mentre parlano di te. Anche se nessuno dei due sta esaminando attentamente i contorni delle tue scapole o l’angolo del tuo braccio disteso per assicurarsi che appaiano naturali e disinvolti, il tuo corpo adesso è comunque un soggetto nel loro orizzonte visivo, qualsiasi movimento o suono produrrai verrà riconosciuto, capito. Lee continua.
“Non capisco cosa sperassimo di vedere là fuori. Magari volevamo solo ascoltare il suono delle onde.”
“Non è giusto uscire così. Non intendo per te.”
“Giusto.”
“Ma quando hai un figlio è diverso. Non puoi prendere pasticche tutta la notte e poi entrare barcollando e svenire sul divano quando c’è tuo figlio che dorme in casa.”
“Beh, chiaramente puoi.”

Micah non dice nulla a proposito. Il tuo palato molle sta facendo ciò che fa la spina dorsale di un gatto quando il gatto è molto spaventato, si sta arcuando o comunque sta spingendo all’indietro, è tutto tensione e sforzo, lo spazio vuoto sotto l’arco definito come una luna crescente, o una grotta. Se muovi anche soltanto la frazione di un centimetro o esali o dio non voglia lasci che il tuo palato ceda e ingoi, non sarai mai più in grado di affrontare Micah o Lee. Magari, se accadrà, te ne starai con la faccia schiacciata nel divano e ti rifiuterai di girarti o muoverti o rispondere a qualsiasi cosa e loro ti dovranno strappare dal divano con la forza o altrimenti dovranno lasciare te e la stanza e tu poi scapperai di nascosto.
Lee di nuovo: “Senti, non so bene come metterla. Ma… magari è difficile per le persone sapere come gestire il fatto che sei di nuovo qui”.
“Cosa intendi?”
“Solo questo.”
“Non capisco cosa tu voglia dire, Lee.”
“Sinceramente nemmeno io. Non intendo per me, sto solo facendo congetture. Magari la gente non si aspettava che avresti fatto ritorno.”
“La gente.”
“Non sto dicendo che non l’avresti fatto.”
“Mio figlio è qui, Lee.”
“Lo so.”
“Vado in America per un mese, per vedere la mia famiglia, a Pasqua. Come potrei non tornare?”
“Non sto dicendo questo. È solo un consiglio. O non un consiglio, solo un pensiero che dovresti tenere a mente. Credo che non averti qui possa essere stato fonte di confusione.”
“Beh…, non mi pare che questa sia una scusa.”

Quando Lee era arrivato sulla spiaggia a Vama Veche, tu eri di fianco a lui, i tuoi gomiti affondati nella sabbia, fissavi il Mar Nero. Non stavi guardando né ascoltando niente, eri solo lì. L’unica fonte di luce erano la luna e i lontani bagliori fosforescenti del grande cantiere navale lungo la costa, e non era certo grazie alla luce che sapevi che Lee era sveglio. Era stato qualcos’altro, forse un cambio nel suo respiro o una carica nuova nell’aria intorno a te, non c’era nessuno e poi improvvisamente qualcuno c’era.
Avvertivi la sabbia fredda sui talloni, il sapore metallico nel retro della bocca, e sentivi il rapido ritirarsi delle onde – sembravano aerei da guerra, lassù, in alto. Non hai pensato al risveglio dei tuoi sensi come a una controparte o un’eco del risvegliarsi di Lee, ma in ogni caso ti ha colpito la portata estetica delle due azioni riflesse. Forse quell’impatto e la forma dell’energia che ha provocato l’impatto hanno acceso qualcos’altro, il salire e scendere di una marea interna. O forse ti ha colto alla sprovvista l’empatia del tuo corpo per un altro, e questa sorpresa si è riverberata in attesa; ma i meccanismi di qualunque cosa l’abbiano generato contano meno del pensiero effettivo, un pensiero che era stato presto nitidissimo nella tua mente: che tu e Lee vi stavate sollevando per incontrarvi.
Lo strano nucleo oscuro di quel momento stava nell’impossibilità di distinguere ciò che stava accadendo da ciò che credevi stesse per accadere. Era come se il circuito che regola lo scorrere del presente nel futuro si fosse ingarbugliato, e con esso la tua capacità di orientare causa ed effetto, sia che tu stessi scegliendo di muoverti in avanti o che invece non ci fosse qualcosa che ti stesse piuttosto tirando. Il grande poeta Reiner Maria Rilke scrisse una volta una lettera in cui suggeriva che Dio non esiste ancora, ma piuttosto è colui che sta arrivando da tutta l’eternità, colui che un giorno arriverà, il frutto ultimo dell’albero di cui noi siamo le foglie. Che non possiamo allontanarci da Dio perché ci muoviamo sempre verso di Lui. Quasi come se non avessimo scelta.
Ma tutto ciò è ingiusto nei confronti di Rilke, non ha senso dire che non abbiamo scelta. Il punto è che il futuro emerge dalle scelte che facciamo, da dentro di noi, dalla nostra immaginazione. O piuttosto, da qualcosa di più profondo di una scelta, una marea, un sistema meteorologico, un fatto che non ha niente a che vedere con ciò che accetti di te stesso. Ed è ciò che può rendere questi momenti così spaventosi, se non ti piace l’idea di ciò che credi stia per accadere; perché l’unica cosa che puoi fare è combattere te stesso. Come cercare di non deglutire, o le sabbie mobili.

Sollevandoti, hai fatto affondare i palmi ancora più a fondo nelle venature della spiaggia. Hai girato la testa verso Lee e detto il suo nome. Sapevi che ti stava guardando, anche se non diceva niente. Niente era diverso nelle onde o nell’aria tranne il fatto che tu eri molto più consapevole della presenza del tuo corpo tra loro, e anche del corpo di Lee. Sapevi esattamente dove si trovava, l’angolo della sua mascella, il lobo dell’orecchio, le labbra. E quando ci hai provato non c’era niente lì, la tua supposizione si era rivelata inesatta, c’era solo uno spazio vuoto; ma poi una mano è uscita dall’oscurità e ti ha guidato verso il basso. Vi siete baciati. Quindi hai appoggiato la testa sul petto di Lee. Era fermo, e caldo. Hai pensato a tuo figlio che riposa sulla spalla di Micah.
“Non so cosa fare”, hai detto.

Tu e Lee siete rimasti sdraiati per un po’. Poi, una volta in piedi, hai spazzato via la sabbia dalla giacca e hai iniziato a camminare verso la passerella che porta alla strada. Lee era dietro di te da qualche parte. Hai preso il telefono e hai scritto un messaggio a Cosmin chiedendogli di venirti a prendere. Cosmin è un veterano della scena artistica di Bucarest che ora vive a Vama Veche. Tutte le domeniche guida fino a casa tua prima dell’alba e si installa al timone di un microfono radio che hai trovato nel seminterrato. Cosmin ha escogitato un modo per ricollegare il microfono a un’antenna e all’ethernet, e conduce un programma radiofonico nel seminterrato della villa dall’alba fino a che non tramonta il sole.
Alla fine è arrivato anche Lee sulla strada e siete rimasti lì, senza parlare, finché Cosmin non è arrivato con la macchina. Siete saliti entrambi, gli avete detto buongiorno e avete trascorso il resto del viaggio in silenzio. Dopo essere entrato nel tuo viale d’ingresso e aver spento le luci, Cosmin ti ha guardato, aspettandosi qualcosa. Giusto. Comincia il suo programma radiofonico con un testo di poesia o prosa che hai scritto tu, gli piace usarlo per creare atmosfera – o per distruggerla – di modo che la trasmissione inizi da uno spazio alterato. Il pezzo funziona come un atrio, o una stanza d’ingresso, aiuta gli ascoltatori ad ambientarsi ai nuovi luoghi a cui stanno per accedere. Hai tirato fuori dalla tasca un fascio di fogli e l’hai passato a Cosmin, qualcosa che avevi scritto prima, quella sera stessa, non riuscivi a ricordare di preciso ma in ogni caso avrebbe dovuto farselo andare bene. Cosmin aveva preso il pezzo di carta e aveva detto, a bassa voce: “Micah torna stamattina dall’America, giusto?”
Tu hai annuito. Sì.

La pioggia si è fatta più forte, lo capisci dal suono delle gocce spesse che colpiscono l’annaffiatoio di rame proprio fuori dalla tua finestra, sul portico. I gatti saranno rientrati, o magari si saranno rannicchiati sotto al cornicione, attendendo un topo o forse annusando qualsiasi cosa portino con sé le correnti d’aria. Lungo tutta la costa, erba bruna e rami secchi e foglie sempreverdi si staranno piegando verso l’interno, nascondendo il volto al mare.
L’acqua dev’essere ferma, non riesci a sentire il suono delle onde.
Né Lee né Micah hanno detto niente per un bel po’. Può essere che entrambi abbiano notato qualcosa che hai fatto senza rendertene conto mentre stavi pensando e ascoltando, che tu abbia strofinato l’arco del piede sinistro con la punta del piede destro, o che il salire e scendere della tua schiena abbia svelato il fatto che sei decisamente distante dalle profondità del sonno. Che sei completamente vigile e che quello che stai facendo è la cosa più simile al nascondersi da qualche parte e spiarli, e che questo è il motivo per cui non stanno più parlando, perché lo sanno, e ora sono in agguato e silenziosi e attendono solo che tu ti esponga. Ma non deve nemmeno essere tutto così esplicito affinché il loro silenzio dica la stessa, semplice cosa: che la tua presenza è fonte di vergogna e diffidenza. Lee e Micah si vergognano di te, e non si fidano di te, ed è per questo che nessuno dei due sta parlando. Se tu fossi distante da qui o se non esistessi allora starebbero ridendo e si starebbero divertendo, come amici, e invece questa gioia è sventrata e fottuta e completamente finita, perché tu sei qui, in questa stanza.

Il silenzio e il bisogno di deglutire e i muscoli della tua gola si espandono tutti non simultaneamente ma più come se fossero uno parte dell’altro. Da un lato è impossibile immaginare quanta umiliazione e rimorso proverai quando deglutirai, dall’altro, in qualche modo, è palese come la tua idea della portata di questa umiliazione e di questo rimorso è il suo confine stesso. In altre parole, in questo momento ti senti esattamente nel modo in cui temi che ti sentirai; quella parte è già avvenuta. Movimento sul letto, Lee si alza.
“Dimenticavo – dice – devo aiutare Cosmin ad accendere l’antenna. Saranno venti minuti che mi aspetta di sotto. Vi lascio soli”.
“Va bene. Stammi bene, Lee. È bello rivederti.”
“Sono contento che tu sia di nuovo qui. Non dimenticare di accendere la radio.”
“Certo.”
Lee si mette le grosse ciabatte e fa dei passetti intorno al letto.
“Vuoi che ti accenda io la radio?”, chiede.
“No, no.”
“Sono già in piedi.”
“No, non ti preoccupare.”
“Ok. Potrebbero esserci dei problemi col meteo, ma saremo in onda presto.”
“Dai un abbraccio a Cosmin da parte mia.”
“Lo farò.”

La porta si chiude dietro a Lee. Tutto nella stanza è silenzio, spazio. Micah si alza dal letto, torna verso l’angolo cottura. Rovescia l’acqua dal bollitore elettrico, lo riempie dal rubinetto nel lavandino, riaccende il bollitore, clic. C’è un secondo clic, un poco più forte, e il flusso bianco dell’elettricità statica penetra nella stanza. Micah resta nell’angolo cottura finché l’acqua non inizia a gorgogliare, si fa un’altra tazza di tè, poi torna indietro, fermandosi alla finestra di fianco al divano dove giaci, immobile. L’elettricità statica della radio s’interrompe e viene sostituita dalle note morbide e smussate di dita che fanno piccoli aggiustamenti, inclinando il microfono, mescolando fogli di carta. Micah beve un sorso di tè. O Cosmin si schiarisce la gola o l’antenna prende un’interferenza, c’è una pausa, poi inizia.
“Sta arrivando una tempesta.”
Ciò che provi in questo momento può venire al meglio descritto come se qualcosa di simile a un piano orizzontale di luce stesse iniziando a passare attraverso tutto ciò che provi. Non è una luce calma o gentile, e non allevia o cancella le altre cose che stai provando, ci passa solo attraverso.
“Sta arrivando una tempesta, e un innalzamento ampio, e una grossa lama.”

Il piano di luce è duro come è duro un diamante, duro nel senso che può solo ferirsi o rompersi da solo. Qualsiasi cosa tu possa immaginare, non accadrà mai come immagini che accadrà. Quando pensi a una cosa, fai sì che questa esista e poi in qualche modo ti prepari a distruggerla.
“Guardati intorno. Guarda le case e le strade e le vite delle persone che si muovono per le strade e vagano tra le stanze nelle loro case. Quando la tempesta arriverà, solleverà ogni goccia d’acqua nel mondo e la svuoterà sulle strade e sulle case e sulle persone fino a che le montagne non si scioglieranno e cominceranno a scricchiolare.”
Cosmin fa un altro respiro.
“Quando la tempesta arriverà, entrerà dalle finestre e dalle piastrelle del pavimento e dai tetti, i tetti delle vostre case piangeranno e si frantumeranno e i pavimenti respireranno fino a che tutto ciò che li circonda verrà inghiottito. Ciò che unisce una cosa all’altra sparirà, verrà lavato via e si spaccherà, e la sedia su cui dormivi da bambino si ridurrà a bastoni e schegge, e le schegge stesse si divideranno e si differenzieranno e precipiteranno sulle onde insieme ai bastoni a galla sulla superficie delle acque che si innalzano sopra alla stanza dove dormivi da bambino. Allora, mentre ti terrai la testa tra le mani e ti chiederai cosa ne sarà dei blocchi colorati e dei santuari e dei piccoli errori che stanno in fila tra i solchi delle colline e le loro grotte, e i tuoi pollici riposeranno sul retro della tua mascella e la tua lingua si curverà all’indietro, sappi che avrai già toccato la corrente di questa tempesta, sappi che l’avrai conosciuta. Sappi che un giorno mi troverai, ragazzo. Sappi che verrai perdonato.”

Testo: Moses Allan Hubbard
Illustrazione: Daniel Valsesia
Traduzione: Linda Farata

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