storia sul perdono

Da qualche tempo rifletto su un fatto curioso, di essere completamente passato di moda. Intendiamoci: non che sia mai andato di moda, questo è noto. Sono sempre stato uno scrittore relativamente insignificante, dalle vendite risibili, che non ha mai vinto premi letterari e, per giunta, per pagare l’affitto e sopravvivere ho collaborato e collaboro tuttora al quotidiano “Libero”, che è come essere stati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella repubblica democratica delle lettere italiane. Ma dicevo: ecco, mi sono accorto che tutto quel magro ma non inconsistente capitale sociale che avevo costruito scrivendo e pubblicando i miei primi due o tre libri, si è andato via via dissipando, e ora sono tornato al punto di partenza, come prima degli esordi, e quando gli editori ricevono un mio nuovo romanzo si grattano i coglioni.

“Vaffanculo Tedoldi, deve morire.”
“Ma ancora gira?”
“Ancora scrive, ancora parla, ancora respira?”
“Sai che Tedoldi non sa cosa sia un chip?”
“È sempre stato un ottocentesco. Lui e il suo lessico arcaico, scrive come un rapporto dei carabinieri. In un suo racconto, una volta, ho trovato il verbo estollere.”
“Questo è quello che ti accade quando non sai cosa sia un chip.”

Inoltre, man mano che passano i giorni, ho allontanato tutti i miei amici, ora ex amici, e ho scelto di diventare pazzo. Forse non si sceglie di diventare pazzi, ma a me sembra che io l’abbia scelto. In un certo senso ho voluto stringere amicizia con la mia pazzia, e la pazzia è un’amica gelosissima. Non posso dire di averci guadagnato granché nello scambio tra i miei ex amici e la pazzia, sono entrambi abbastanza insoddisfacenti, ma il destino di un uomo nessuno lo può cambiare.

Il pomeriggio, quando esco, la pazzia esce con me. Avete presente quelle simpatiche ragazze che hanno il barboncino con il cappottino rosa? O il bassottino che fa capolino dalle loro borse di merda? Io porto in giro la mia pazzia allo stesso modo. E, sia chiaro, ho sempre voglia di sterminare il genere femminile.
Vedete, quest’ultima affermazione? Che posso farci? Mi prendo delle libertà. Ma non è colpa mia, non sono licenze poetiche, sono compulsioni. Non posso fare a meno di immaginare un mondo dove il cazzo di sesso femminile non è stato nemmeno previsto nel progetto iniziale. E non posso fare a meno di immaginare che, in quel caso, Ah.

Del resto non vogliamo mica seriamente dire che il genere femminile sia superiore al maschile? No, perché, se lo vogliamo sostenere, io non so più che farci, se non uscire di casa anche oggi, che non ne ho nessuna voglia, tenendo la mia pazzia al guinzaglio, e passeggiare lungo il Tevere che ha i suoi colori invernali, e pronunciare dentro di me pensieri di morte, di sterminio, perché questo è quello che ti succede quando nel 2023 ti ostini a fare lo scrittore ma, dettaglio non insignificante, non sei di sinistra, non te ne importa niente delle minoranze e dei deboli, e non sai cosa sia un chip.

Le minoranze, i deboli. Porca puttana: guardate in questa direzione, grandissimi…

Adesso bisogna farli ridere. Adesso bisogna riderne. Io non riesco. Non rido più alle battute. Non c’è più nulla che mi faccia ridere. Può darsi che sia il marchio della corruzione definitiva, questa completa incapacità di ridere di qualunque cosa. Invece, sono molto felice quando qualcuno ha un danno o muore. Passo molto del mio tempo a leggere dei malati gravi, e in fondo, in una parte che la società non può accettare, mi auguro che muoiano. Tifo morte. Ho sempre tifato morte.

“Ma morisse lui, sto Tedoldi, sto mostro.”
“Hai letto l’ultimo articolo sui chip?”

bernardo anichini 1

Le donne, che grande invenzione. Quelle di una certa età mi sono sempre piaciute. E anche le giovanissime. Le cosiddette minorenni. Quando andavo al liceo, ero minorenne, e c’era una minorenne che aveva un maglione sotto cui immaginavo le sue tette. Mi sono fatto non so quante seghe viaggiando sotto il maglione di quella minorenne e fantasticando attorno al modo in cui le sue tette creavano le giuste protuberanze sul maglione. Alla fine il maglione è diventato un assorbente del mio sperma. Solo che il maglione era nella mia fantasia, e ad assorbire il mio sperma è stata la vestaglia a disegno scozzese un po’ ottocentesca (come i miei romanzi) che indossavo la sera. Una sera, appunto, mi suona una mia compagna di classe, non ricordo bene per quale ragione, forse doveva restituirmi qualcosa. Vado alla porta del salone (non della cucina, avevamo due ingressi in quella casa all’Aurelio) trattandosi di una visita di riguardo, la apro, lei mi appare, sorridente com’era sempre, col suo viso roseo come se fosse appena rientrata da un’escursione in un mondo gelato, i suoi grandi occhi castani un po’ da gatto, i capelli mossi castani e quasi paglierini, il suo aroma di tabacco (fumava con una certa regolarità) misto a profumo e, dopo avermi restituito la cosa, mi dice: “Complimenti per la vestaglia”.
Quella vestaglia, evidentemente, non l’avevo ancora coperta di chiazze di sperma per le mie masturbazioni fantasticando sul maglione fioccoso, sinuoso di quell’altra alunna del nostro liceo. Oppure, lei, la mia compagna di classe, aveva proprio visto gli arcipelaghi, i banchi di sperma sul fondo verde della mia vestaglia che io non so per quale ragione non mi curavo di rimuovere, e dunque aveva fatto una simpatica battuta. Non so se ho riso o no, comunque mi è dispiaciuto quando, alcuni anni fa, ho saputo che questa mia compagna di classe è morta per un male incurabile. Di un mucchio di morti non me n’è importato assolutamente nulla. Della sua sì.

Vediamo se riesco a trovare la forza di rievocare uno spiacevole episodio, che ha al centro proprio questa mia ex compagna di classe. Lei era una fan di David Bowie, aveva un fidanzato che somigliava al cantante degli Spandau Ballet salvo per il fatto di essere biondo anziché moro, e ballava, faceva danza. E, un giorno, nella palestra della scuola, durante un momento di buco, davanti a noi maschi seduti su un cavallo da ginnastica senza maniglie, si è esibita in una sua scatenata coreografia. Era evidente che ce la mettesse tutta: correva, saltava, piroettava, slanciava le gambe, si accovacciava, e via così. A un certo punto io cerco degli spicci nella tasca destra della mia tuta sotto la quale si poteva indovinare il mio grosso cazzo (1), e tiro per terra, davanti a lei, cinquanta centesimi di lire o forse cento, chi se lo ricorda. Lei appena vede gli spicci volare a terra sulla sua pista da ballo (che era ovviamente il pavimento in pvc della palestra) e appena ne ascolta il tintinnio abbozza un sorriso, anzi riesce con una lotta interiore a ridere, fingendosi divertita e, senza smettere di ballare, prosegue per una manciata di secondi nella sua coreografia finché, di colpo, si ferma e scoppia a piangere. Io sono preso alla sprovvista, è evidente che non mi aspettavo una reazione del genere, non credevo di ferirla; cioè, volevo ferirla, o comunque di certo fare il buffone e prenderla in giro, ma non credevo effettivamente di ferirla. Mi alzo e vado da lei che piange con le mani sugli occhi (se non ricordo male, ma che importanza ha questo dettaglio) per dirle che non volevo offenderla, che è bravissima, che stavo solo scherzando e io di danza non capisco nulla. Credo di averla anche un po’ consolata quando siamo ritornati in classe, dove ancora aveva continuato a sfogare il dolore per quell’umiliazione, ma ho l’impressione di non esserci riuscito. Lei, in seguito, mostrò di non serbarmi rancore, ma non so davvero cosa sia accaduto nella sua anima. Brucia questo ricordo? No, non molto. Mi sono massacrato per molti, moltissimi altri sensi di colpa. Dopotutto penso che lei, questa cosa, l’abbia superata in fretta. Non ricordo se poi ho raccolto gli spicci, o li ha raccolti lei stando al gioco. Non ricordo nemmeno cosa mi abbiano detto i miei compagni, ma alcuni di loro, mi pare, hanno riso quando ho lanciato le monete. E siamo ancora tutti liberi. Dovremmo? Dovrebbe esserci consentito? Siamo ancora tutti qui che lavoriamo, scriviamo e parliamo e ascoltiamo i Verdena su Spotify – tutti tranne lei che è morta.

E questo sapete perché? Perché – non parlo per loro, parlo solo per me – perché per vivere, anzi, per sopravvivere, bisogna perdonarsi.

Io che non perdono più niente a nessuno, devo imparare, sto lentamente imparando a perdonarmi. Nessuno può farlo al posto mio, come si suol dire. È una cosa che posso fare solo io. Volersi bene o volere bene è importante, ma più importante è perdonare e perdonarsi. Non credo nella morale, nella virtù, nella generosità e, ovviamente – ma l’avrete capito a questo punto – il valore più sopravvalutato della nostra ipocrita società ritengo che sia l’amicizia. Essere amici vuol dire mettere in mano a un estraneo, a un altro che in fondo nemmeno esiste (è solo una tua costruzione mentale) una pistola con la quale ti eliminerà dal gioco. Essere amici vuol dire entrare in gara con qualcuno che ti butterà fuori dalla pista, a meno che, intelligentemente, ed essendo dotato della sufficiente perfidia, non lo uccidi prima tu. Perdonate e perdonatevi, insistete, lavorate solo su questo, e andate liberamente a passeggiare con la vostra pazzia.

(1) Qualche tempo prima, la migliore amica della ragazza al centro di questo episodio, mi rivolse la parola in cortile, fuori dalla palestra; era abbastanza raro che questa ragazza, molto carina, piuttosto disdegnosa e schiva, mi parlasse, come del resto che mi parlasse una femmina in generale. Mi disse, con la sua faccia dalla pelle bianca come zucchero, le labbra rosa pallido e gli occhi verdi: “Complimenti”.
“Complimenti per cosa?” E passò a rivelarmi che, durante l’ora di ginnastica, lei e le altre femmine della classe osservavano e valutavano le forme dei cazzi sotto il cavallo delle tute. Non ricordo cosa risposi, credo che potrei dire, come in un racconto di Cechov, che “mi confusi”

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Testo Giordano Tedoldi
Illustrazioni Bernardo Anichini

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