è passata la befana

Una fredda mattina di gennaio, nei giorni che precedevano la Santa Epifania, Don Peppe diventò molesto, oltre che volgare, e Susetta fu trasformata nella sua preda. Don Peppe, conosciuto da tutti per il suo mestiere di falegname, s’era sempre distinto nel quartiere per il garbo e la riservatezza, e aveva raccolto attorno a sé una modesta brigata di brava gente. Aveva preso in moglie un’assennata ragazza dei vicoli, presto trasformatasi nella rispettata Signora Rita. Con lei, la vita era scivolata grigia e tranquilla in un piccolo appartamento all’ultimo piano di un palazzo che aveva visto entrambe le guerre. Di figli ne erano arrivati sette, due dei quali morti di febbre ancora in fasce. Gli altri cinque, chi più e chi meno, si erano dimostrati all’altezza dell’affetto dei genitori; i quattro maschi, appreso il mestiere, si erano messi in proprio; la femmina, invece, un uggioso giorno di settembre, era fuggita a Brescia con un elettricista mezzo sciancato ma dalle sacre intenzioni. Don Peppe e la signora Rita erano rimasti presto da soli, con l’unica consolazione di avere un bel gruzzoletto di nipotini sconosciuti da qualche parte nel mondo. Purtroppo, una sera a cena, la signora Rita lo aveva lasciato, strozzata da una mollica di pane, nel momento esatto in cui si scopriva troppo vecchio per piacere e ancora giovane per appendere con serenità l’attrezzo al muro. E tuttavia, lo aveva appeso, con rassegnazione, insieme a pialla, sega e martello. Lasciato l’appartamento coniugale, venutogli a noia, grazie a un po’ di denaro messo insieme negli anni, era riuscito a comprarsi un piccolo basso nel vicolo appena dietro la piazza del mercato. Qui aveva lasciato crescere la pancia, i peli nelle orecchie e la malinconia. L’unica sua occupazione fu quella di trascinare ogni mattina, all’esterno del basso, una sfilacciata sedia di legno alla quale spettava il gravoso compito di sostenere il monumentale culo di Don Peppe, e sedutosi, ammirare il lento scorrere della vita degli altri. Silenzioso, ossequioso, e modestamente curato, aspettava la sera rispondendo: Buongiorno a voi, che la Madonna vi accompagni, a qualsiasi individuo di passaggio gli rivolgesse un sincero cenno di rispetto.

“Buongiorno a voi, che la Madonna vi accompagni… e che culo che tenete!”.
Era cominciata così, la sua trasformazione. Susetta, una quarantenne grossa, vissuta e alla mano, non s’era scandalizzata. Ma qualcosa l’aveva turbata. Di apprezzamenti al culo, che davvero era una meraviglia, ne riceveva a bizzeffe ogni giorno, corredati da pizzicotti e schiaffetti. Ma da Don Peppe non se lo sarebbe mai aspettato.
Lo aveva visto ogni mattina, da una decina d’anni, sonnecchiare sulla sua sedia, accarezzare le teste degli scugnizzi e augurare buone cose a faticatori, suore di passaggio, ladri e criminali. Mai un commento fuori posto. E poi quello strano saluto che l’aveva presa alla sprovvista.
“Buongiorno, Don Peppe”, aveva risposto, e se n’era rientrata nel basso stranita, ma presto dimentica dell’anomalia.
Due giorni dopo, il sesto giorno di gennaio, le cose precipitarono.

“Mammà, ‘sta bambola non funziona, mi sembra la fessa con ‘sta faccia”, disse Lauretta, una bambina di sette anni che ne dimostrava quarantacinque.
“E Laurè a mammà, la befana questo teneva, vedi di accontentarti sennò ti sfracello”, Susetta era alle prese con pezze, secchi d’acqua e bomboniere, persuasa a farla finita con la polvere dell’anno precedente.
“Mammà, ma la befana s’è scordata gli ovetti al cioccolato, però”, protestò Ciro, un quattordicenne grassoccio e brufoloso.
“Ciro, a mammà, tu perché non pensi a trovarti una pucchiacchella, al posto di abbuffarti di cioccolata.”
“Mammà, ma questa la televisione fa vedere che dice – Ciao, vuoi giocare con me? – ma ‘sta cessa non parla”.
Lauretta, schiantandolo sul pavimento, ammaccò il faccino di plastica di una bamboletta parecchio allusiva a dispetto dell’età che era tenuta a rappresentare.
“E ci vogliono le pile, vedi”, suggerì Susetta, spolverando una colomba di porcellana che dava da mangiare ai propri piccioncini.
“Dove, dietro al culo?”, Lauretta scoprì l’ingresso delle pile proprio fra le cosce della Lolita in fasce. Vuoto.
“Ciro, mi vuoi andare a comprare le pile?”
“Stai fresca, Laurè” Ciro, rassegnatosi all’assenza degli ovetti, stava cavando dall’enorme calza una merendina all’albicocca. “Ma cos’è ‘sto schifo? È a frutta? Io volevo tutta roba di cioccolata.
“Se non la finite, vi prendo a mazzate – Susetta, intrappolata nel disordine della personale guerra alla polvere, afferrò la bambola dalle mani della figlia in lacrime e le controllò le parti basse – ci vogliono le mini-stilo. Mica che quello scornacchiato me l’ha detto, ieri pomeriggio”.
“Quale scornacchiato, mammà?”, chiese Lauretta, immediatamente ripresasi dal pianto per fare spazio ad una curiosità indagatrice.
“Adesso te le vado a prende dal tabaccaio, le pile.”
“Susè, ma latte non ne abbiamo?”
Gennaro, il marito di Susetta, stava ispezionando il frigorifero ancora mezzo addormentato.
“Mammà, ma la befana sembra la fessa però, diglielo appena la vedi. Le caramelle a fragola, ma che devo fare?!”, si lamentò Ciro, squadrando la madre con un’espressione furbetta.
“E io adesso dove ce lo metto il caffè?”
Gennaro richiuse con violenza la porta del frigorifero.
“Gennà, m’è passato di testa. Abbi pazienza. Ieri sei andato tu a parlare con la befana? No. E allora vedi di chiudere il cesso, che pure stamattina tengo un milione di cose da fare.”
Susetta, su un foglietto, segnò Latte e Mini-stilo appena sotto a una lunga lista di cose da comprare.
“E non te la prendere e vieni a darmi un bacio.”
Gennaro, facendosi spazio fra le trincee della guerra messa in atto dalla moglie, si diresse da lei, con una camminata serpentina, e la strinse con passione passandole la lingua sulle orecchie.
“Oh, che schifo, Gennà, scansati”, disse la donna, ridacchiando e infilandosi il portafogli in mezzo ai seni giganteschi.
“Tocca qua, è di ferro”, Gennaro afferrò la mano della moglie e se la piazzò sul cavallo dei pantaloni del pigiama.
“Gennà, i bambini…”
“Quali bambini? Tengono cent’anni ciascuno.”
“Sei un’animale, sei”, gli soffiò Susetta sul naso, e tutta rianimata e divertita si scansò per afferrare il cappotto nel quale si infilò, coprendo la sottoveste bianca che usava per pigiama.
“Io vado a prendere ‘sta roba, non fate bordello che vi apro la testa a tutti quanti”, minacciò, formando un anello con il pollice e l’indice.
“Comprami gli ovetti”, le urlò dietro Ciro, mentre quella abbandonava il basso.

chiara troisi 1

Nel vicolo regnava il gelo, Susetta si avvolse meglio nel cappotto e scansando con la mano il vapore prodotto dal proprio alito aguzzò la vista, sei o sette bassi più avanti Don Peppe era già bello sveglio e imperioso nella propria postazione di guardiano. Per il resto, il vicolo era ancora deserto, fatta eccezione per qualche sporadico motorino che la befana s’era incaricata di consegnare a mani spericolate di piloti dodicenni. Si avviò a passo lento.
“Buongiorno Don Peppe”, gli rivolse per prima il saluto.
“Buongiorno, femminona”.
Femminona. Disse proprio così. Don Peppe non s’era mai rivolto a nessuna signora, in quel modo. Poteva dire piccolina, figliola, commarella mia.
Femminona non l’aveva mai detto a nessuna. A Susetta tornò alla mente il commento di qualche giorno prima, sorrise tra sé e sé.
“Vi vedo arzillo stamattina”, gli disse divertita, fermandosi accanto al vecchio.
Lo squadrò incuriosita dalla testa ai piedi. Aveva il pantalone sbottonato sul quale pendeva una pancetta dura e tonda. Il viso rosso in modo anomalo. Susetta, con il pugno chiuso e portandosi il pollice alla bocca mimò una bevuta.
“Volete un poco di vino? E qual è il problema, entrate e bevete”, la invitò Don Peppe. Gli occhi fissi sulle caviglie scoperte della donna.
“No, io no. Ma voi mi parete un poco bevuto”, disse Susetta, guardandosi le caviglie che avevano risucchiato l’attenzione del vecchio.
Gli sventolò una mano davanti agli occhi.
“State bene Don Peppe?”, e si abbassò su di lui.
Il cappotto che non era abbottonato si aprì e gli enormi seni di Susetta pendettero dalla leggera sottoveste, il vecchio li fissò stringendosi il labbro inferiore fra i denti gialli. Lei se ne accorse e ridendo si riavvolse nel cappotto.
“Sta tutto bevuto, il nonno” si disse fra sé.
Il vecchio, scrollando il capo, parve risalire alla realtà.
“Signora mia, me lo fate un piacere?”
“Dite”, Susetta lo fissava incuriosita, con un angolo della bocca malignamente alzato da un lato.
“Dentro, tengo una bottiglia di Marsala sulla mensola sopra il cucinino. Me la regalò la buonanima della Signora Rita, ma non l’ho mai più aperta per ricordo. Stamattina m’è venuto genio, ci voglio fare una succhiata. Sapete, la befana… – e ridacchiò, guardando il cielo – se non vi disturbo assai, me la prendete voi, che io non ci arrivo e a salire sopra la sedia mi metto paura. Voi lo sapete, all’età nostra una caduta è…”, e a pugno chiuso unì l’indice al medio e li fece roteare nell’aria, a intendere la morte.
“Me lo vedo io”, Susetta entrò spedita nel basso del vecchio, afferrò una sedia dalla piccola tavola ingombra di piatti sporchi e mozziconi e piazzatola davanti al cucinino, vi salì sopra, rovistando sulla mensola impolverata.
Il vecchio, rialzatosi a fatica dalla sedia, raggiunse la sua aiutante all’interno. Le fissò i piedi mentre quella era intenta a rovistare e a borbottare circa la polvere accumulata. Erano piedi bianchi e grassocci, dalle unghie smaltate di rosso. Negli zoccoli di legno che aveva lasciato a terra si intravedeva la sagoma della pianta, rimasta impressa grazie a un sudore antico.
Il vecchio, abbassandosi lentamente e con affanno, afferrò uno degli zoccoli e se lo portò al naso. Sniffò e si toccò le parti basse.
“Don Peppe, qua sopra c’è una polvere che farebbe sacramentare Gesù Cristo. Tiè, tiè. Pure uno scarrafone morto. Che schifo. Di bottiglie ce ne stanno cinque, e tutte senza etichetta. Qual è quella che andate cercando?”
Don Peppe non le rispose, a occhi chiusi sniffava lo zoccolo e si massaggiava il cavallo dei pantaloni. Quando Susetta se ne accorse, il vecchio, dimentico dell’ambiente circostante, si lasciò andare a un gemito di piacere. La donna storse la bocca in una smorfia schifata. Scese dalla sedia e afferrò lo zoccolo dalle mani del vecchio.
“Ho capito, dai. Buttatevi un poco d’acqua fresca in faccia, Don Peppe mio”, e indossate le calzature fece per andarsene, ma Don Peppe la afferrò, stringendole un braccio alla vita.
“Susetta mia, non me ve ne andate. Per piacere, prendetemi almeno il Marsala”, e le annusò i folti capelli neri e scarmigliati.
“Tenete la monnezza là sopra, fatevelo prendere da Giggino il cantiniere, oggi quando passa”, e tentò di liberarsi, respingendo il vecchio che non lasciava andare la corda.
“Che si fottesse Giggino. Lo voglio da voi, Susè, poco poco. Solo una succhiata”, e le schioccò un bacio umido sul collo.
La donna riuscì a liberarsi e si precipitò fuori dal basso.
“Ma andate affanculo. Fatevi una pelle!”, gli gridò e a passo spedito proseguì nella sua missione.

chiara troisi 2

L’aria fredda del vicolo rinfrancò Susetta, che spazzolandosi i capelli con le dita, scosse il capo accennando a un sorriso strano tra l’agitazione e la sorpresa.
“Ma tu vedi un po’ questi vecchi!”, disse a sé stessa.
Proseguì lungo tutto il vicolo, poi ne imboccò un altro e a metà di questo entrò dal tabaccaio e fece le sue compere; le mini-stilo per la bamboletta; un pacchetto di Chesterfield per Gennaro; il chewing gum di Barbie per Lauretta; gli ovetti al cioccolato per Ciro.
Quando il tutto le venne consegnato raccolto in un sacchetto di carta, passò al bancolotto e diede i numeri; 4 (il porco); 14 (l’ubriaco); 53 (il vecchio).
Raggiunta la piazza, popolata solo da un vecchio che prendeva a parole un enorme giornale che non si decideva a ripiegarsi, entrò nella salumeria e fece le sue richieste: due litri di latte, intero per il marito e scremato per i ragazzi; una vaschetta di cicoli e un panino croccante per il pranzo di Gennaro; 400g di prosciutto crudo; due mozzarelle di bufala; un pacco di merendine al cioccolato.
Di ritorno nel vicolo, si accorse da lontano che Don Peppe era ritornato alla consueta postazione. Proseguì lenta, con la pesante busta che le pendeva da una mano e avanzò a testa alta, ignorando il vecchio e sorpassandolo indifferente.
“Chiedo scusa, signora. Non so cosa m’è preso.”
Susetta arrestò il suo passo. Si girò verso il vecchio e lo scrutò con la perizia di un investigatore. Don Peppe era un brav’uomo. Nelle trame avvelenate delle malelingue, che lei fomentava con partecipe entusiasmo, il nome rispettato del vecchio non era mai comparso se non per prendersi, e comunque raramente, burla di qualche sua innocente mancanza; s’è messo una scarpa marrone e un’altra nera; stamattina teneva un alito che saliva da viscere putrefatte; tiene i peli delle orecchie che sembrano quelli della fessa mia. Anzi, talvolta se n’era parlato come un monumento irrinunciabile del vicolo; Don Peppe lo si deve lasciar stare sulla sedia sua, non gli rompete il cazzo; la mattina, quando mi affaccio al balcone, Don Peppe mi mette allegria; quando lo guardo mi fa venire in mente di andare a trovare mammà e papà. Spesso, dalle chiacchiere distratte degli scugnizzi del vicolo, comprese quelle di Lauretta e Ciro, era venuta fuori un’immagine quasi santa di Don Peppe; m’ha regalato tre euro e cinquanta; mi ha risistemato lo spara fagioli; ha curato l’ala di un piccione; m’ha dato uno schiaffo sulla testa quando ho picchiato il cane di Totore.
Liquidarlo in quel modo, come un rattuso consumato, sarebbe stato ingiusto da parte di Susetta, la quale conosceva bene le molestie dei vecchi veramente inopportuni.
“Niente, Don Peppe. Ma che non ricapiti più, ci siamo capiti? Voi sapete Gennaro mio com’è fatto. Quello se si impressiona, fa scorrere il morto.”
“Scusate ancora, signora mia. Vi chiedo umilmente perdono. Io, alla fine, davvero volevo solo un sorso di Marsala.”
Susetta sorrise affabile e tornatasi a girare, proseguì in direzione del proprio basso. Ci era quasi arrivata quando si sentì strappare dalle mani la busta della spesa. Era Don Peppe.
“Lasciate che vi aiuti a portare la busta.”
“Non c’è bisogno, grazie.”
Susetta tornò a guardarlo con sospetto e tentò di riappropriarsi della busta. Don Peppe gliela allontanò da sotto il naso e vi trasse una delle due bottiglie di latte. Poi gliela riconsegnò, tenendosi la bottiglia stretta tra le mani.
“Il latte”, Susetta cercò di prendergli di mano la bottiglia con la furia di una gatta affamata a cui viene messa sotto al naso una lisca di pesce.
Don Peppe, però, divincolandosi con l’anomala energia di un giovanotto, lasciando Susetta di sasso, aprì la bottiglia e vi ci immerse il naso. Annusò a fondo e poi bevve. Susetta, che avrebbe voluto intervenire, se ne restò ferma e ammutolita, sorpresa della voracità con la quale il vecchio si scolava la bottiglia; bevve l’intero litro di latte senza pause, veloce e a occhi chiusi, mandando su e giù il rinsecchito pomo d’Adamo. Il latte gli scorreva dagli angoli della bocca lungo tutto il collo fino a macchiargli la maglia nera a strisce rosse.

“Susè, ma che c’è? Problemi?”, era la voce di Gennaro, che s’era appena affacciato alla finestrella del basso. “Buongiorno, Don Peppe”, disse subito dopo.
“No, niente, niente. Don Peppe stamattina teneva sete”, Susetta informò frettolosa il marito e raggiunse il basso, lasciando il vecchio a ispezionare la bottiglia vuota in cerca di qualche restante goccia di latte.
“Ma perché Don Peppe sta facendo colazione in mezzo al vico?”
“Ma che ne so, Gennà. Vai a capire i vecchi. Vieni qua, t’ho portato il latte”, Susetta distrasse il marito con una montagna di chiacchiere sul freddo; sulle puteche ancora irrispettosamente chiuse alle otto e mezza di mattina; sul prezzo eccessivo delle mozzarelle.
Gennaro finse di ascoltarla e versato il latte in un tazzone già ricolmo di caffè, consumò la sua colazione, schioccando soddisfatto le labbra.
Lauretta, maldestra, infilò le pile tra le cosce della bamboletta che immediatamente cominciò a sbattere le palpebre e a emettere suoni oscuri.
Ciro, invece, ignorando la calza ricevuta dalla befana incompetente, si lanciò sugli ovetti di cioccolata che Susetta gli fece scivolare in grembo.
Ciao, vuoi giocare con me? Perfino la voce era allusiva.
“Uh, mammà, s’è messa a parlare!” esclamò entusiasta Lauretta.
“Susè, m’hai preso i cicoli? Ti sei ricordata. Sei la migliore, vieni qua”, e Gennaro afferrò la moglie e se la baciò tutta.
“Uà, mammà, ‘sti ovetti al ciccolato sono al latte” disse Ciro a bocca piena, soddisfatto come un maiale nel fango.
Du Du Du Du. Il telefono squillò, ma il suono si disperse fra gli inviti ambigui della bamboletta, le risposte sguaiate di Lauretta, lo stropiccio di stagnola nella quale Gennaro avvolgeva il panino, gli insulti che la bocca piena di Ciro rivolgeva all’amica di plastica della sorella.
Susetta, l’unica che sembrava essersi accorta del telefono, lo raggiunse correndo, facendosi spazio tra il disordine da lei stesso creato per dare guerra alla polvere.
“Pronto… Ue, Carmè… Veramente? Ma tu che dici?!… Uh, Madonna mia che bellezza! … Sì, sì, non ti muovere, adesso arrivo”.
Susetta si precipitò fuori dal basso, stavolta senza cappotto. In corsa liquidò la tumultuosa famiglia gridando: “Nancy sta sgravando”.

chiara troisi 3

Don Peppe era al solito posto, con la testa china sul petto che dormiva. Susetta gli passò davanti quasi correndo, spiandolo di sottecchi e contenta di trovarlo a sonnecchiare. Ma il ticchettio degli zoccoli sui sampietrini risvegliò il vecchio e spalancò la bocca quando si trovò davanti Susetta in sottoveste, discinta e bellissima, con le carni che spuntavano fuori da ogni dove.
“Signora mia, vi posso chiedere un favore?”, le chiese mezzo rintronato dal sonno.
“Andate affanculo, Don Peppino mio”, gli gridò lei, proseguendo rapida verso la sua meta.
“Venite qua, vi prego, ve lo chiedo umilmente”, il vecchio si alzò dalla sua sedia e andò in direzione della donna.
“Ma ‘sto vecchio stamattina che sfaccimma va trovando?!”, disse fra sé e sé Susetta, quando si accorse che quello le si era messo alle calcagna e avanzava pure nella corsa, tossendo affannato.
Decisa a mettere un punto, si girò di scatto guardando in faccia il vecchio.
“Adesso o la finite o chiamo Gennaro, vi faccio schiattare la testa se vi azzardate a fare un altro passo.”
E il vecchio si fermò, dritto in mezzo al vicolo deserto. Non badò alla minaccia di lei, si limitò a scrutarla con gli occhi lucidi, a distanza, percorrendole bramoso il corpo intero; le spalle piccole e tonde; le clavicole in evidenza; i seni giganteschi che modellavano la sottoveste; le gambe bianche e nude dai grossi polpacci sodi; i piedi grassi, con le unghie rosse che spiccavano agli occhi. E Susetta fissò lui; un rudere malandato che si mordeva il labbro inferiore; le gambe storte e la mano destra infilata nei pantaloni. Il vecchio cominciò a rovistarsi nelle mutande, facendo su e giù con la mano e mugolando.
“Si sta facendo il pesce in mano, ‘sto porco”, sussurrò Susetta a sé stessa.
Si voltò e corse via, inseguita dal vecchio che interruppe il godimento per mettersi a inseguirla.
“Zoccola, vieni qua. Fatti acchiappare. Ti voglio succhiare le zizze. Non te ne scappare. Dove vai? Non ti faccio niente, vieni qua, t’ho detto”, urlava Don Peppe in direzione di Susetta che guadagnò nella corsa fino a raggiungere il palazzo dove abitava Carmela, due vicoli più in là, per poi sparire nel buio dell’androne, lasciandosi dietro il vecchio.

Carmela, una vecchia rinsecchita e verdognola dai capelli sfilacciati tutti imbrogliati e il passo claudicante, tirò Susetta, ancora affannata dalla corsa, per un braccio e la trascinò nella cucina in penombra, dove un raggio di sole metteva in evidenza il tappeto su cui una cagnolina chihuahua stava partorendo. Il cucciolo, sospeso tra il mondo terreno e il corpo della madre, pendeva dalla vagina che Nancy allargava negli sforzi.
“Susè, vita mia. Guarda, guarda là!”
Carmela, esaltata e in lacrime, indicava Nancy che stringeva gli occhietti nel dolore, mentre Susetta, confusa dagli ultimi avvenimenti e dal miracolo imminente di una nuova vita, cercava di ritrovare una padronanza di sé via via più labile, persa chissà dove in un intricato nodo di pensieri. La cagnolina, intanto, stirava decisa le zampe nel tentativo di affrettare la venuta al mondo del cucciolo.
“Fosti tu a potarmela”, disse Carmela con la voce tremula dell’emozione e strinse Susetta tra le braccia, schioccandole un bacio sulla guancia.
“Me la vedo ancora, così piccola nelle tue mani. Dicesti: Carmè, prendila in mano tu, e quando lo feci era calda calda e mi leccò le dita, ti ricordi?”
Carmela si stropicciò gli occhi nel pianto e Susetta, gli occhi fissi nel vuoto, ebbe la sensazione di essersi scordata di fare qualcosa d’importante.
Entrambe le donne restarono in piedi l’una accanto all’altra a osservare Nancy che accompagnava il suo primo cucciolo al mondo; in un ultimo sforzo lo lasciò cadere a terra; vi si avventò sopra e lacerò la placenta, divorandosela con ardore, per poi leccare il corpicino tremante del nuovo venuto.
“È nato, Susè,” sussurrò Carmela, nell’infantile stupore dei bambini. Susetta, invece, alla nascita del cucciolo, provò un inspiegabile desiderio di tornare indietro sui propri passi.
“Tu me la portasti e dicesti: Così non te ne stai sola sola. Io prima ero così triste, mezza morta sopra quella sedia, ti ricordi Susè? E ora sono felice, vita mia, sì mi sento una creatura, e tengo pure a lui, adesso”, ed indicò il cucciolo che s’era rannicchiato accanto alla madre che ricominciava coi dolori.
Susetta, ripresasi dalle stato di smarrimento nel quale l’avevano intrappolata le proprie ultime sensazioni e un andirivieni confuso di pensieri, strinse l’amica in un veloce abbraccio e le disse che sarebbe tornata fra poco, che adesso aveva una cosa importante da sbrigare e prima di andarsene le chiese se per caso le avanzava una bottiglia di Marsala.

Susetta, a un passo dal vicolo che condivideva con Don Peppe, avanzava dondolando sui propri zoccoli di legno, coi capezzoli resi turgidi dal freddo di gennaio e il vapore del fiato che le annebbiava la vista, in una mano sorreggeva una bottiglia mezza piena di Marsala.
Si accorse del corpo già da lontano, una macchia nera riposava distesa nel bel mezzo del vicolo deserto. Quando gli corse incontro si rese conto che si trattava del suo persecutore.
Don Peppe a occhi chiusi e alle prese con un chiassoso affanno, si dibatteva come nel tentativo di rialzarsi, agitando le braccia intorno a sé e rosso in viso. Susetta, all’improvviso allarmata dall’inevitabile, si passò la bottiglia sotto un’ascella e mordendosi il labbro inferiore fece affidamento su tutte le sue forze per trascinare via Don Peppe e accostarlo con la schiena al muro di tufo del vicolo.
“Don Peppe, che vi piglia adesso?”, gli chiese, inginocchiandoglisi accanto e mettendosi in grembo la bottiglia.
Il vecchio, il cui forsennato tentativo di inspirare ed espirare ricordava il fischio di una locomotiva a vapore, aprì gli occhi e fissò la sua soccorritrice.
“È passata la befana?” le chiese flebilmente.
“Cosa avete detto?”
“E a me, a me che m’ha portato?”, domandò in un soffio di voce volgendo gli occhi al lembo di cielo che sovrastava il vicolo.
Susetta, incapace di afferrare le parole del vecchio che si perdevano negli affanni, confusa fissò lo sguardo sulla bottiglia di Marsala e porgendogliela disse che era per lui, che gliela regalava. Ma il vecchio non le rispose e solo qualche istante dopo lei si accorse che se n’era andato per sempre, ancor prima di un’ultima, meritata sbornia.

Testo Gennaro Musella
Illustrazioni Chiara Troisi

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