nato al freddo

 

I – Gelatino

Sono nato al freddo, sotto il cuore pulsante della terra, in un angolo di mondo con le pareti grigio acciaio.
Di quel periodo, oltre al gelo, ricordo: l’avvolgente sensazione di comunità; il peso dei miei genitori sopra di me; l’incrollabile certezza della realtà che vivevamo.

Così, il famoso poeta-gelatino-killer Citronov, descrive la propria infanzia nel suo primo romanzo autobiografico. E davvero al freddo Citronov era nato, in un’anonima gelateria d’immigrati calabresi a Neuchâtel, Svizzera.
Il signor Masannò, il capofamiglia, aveva insegnato ai suoi tre figli a preparare il gelato, mentre questi si barcamenavano cercando di imparare una nuova lingua e di capire come vivere in un paese che non li voleva. Durante la settimana, il più grande dei tre, che si chiamava Giuseppe e andava in terza media, radunava i fratelli subito dopo la scuola e ne dirigeva il lavoro; così alle tredici in punto erano tutti schierati nel retrobottega e pronti a cominciare.
Citronov era venuto al mondo in un pomeriggio di fine estate, dall’unione tra limoni d’importazione e zucchero raffinato.

Francesco, il più piccolo dei fratelli Masannò, era anche il più pigro e non aveva alcuna vocazione per la bottega di famiglia. L’unica cosa che sembrava interessargli era andarsene in giro con la sua piccola banda composta da altri figli d’immigrati e feccia di vario genere.
“Bisogna ca t’impari”, gli aveva detto Giuseppe quel pomeriggio, guardandolo lavorare svogliatamente.
Lo sguardo di educato disappunto, e le parole di rimprovero quasi garbate che il fratello gli aveva rivolto, lo facevano infuriare molto più degli schiaffoni del padre. Era già abbastanza seccante stare al chiuso in un pomeriggio di sole, che cosa mai poteva migliorare nel modo in cui tagliava i limoni?
“Ma vò ma stà attentu?”, dall’altro lato del tavolo, Pasquale, il mediano, gli stava guardando con tanto d’occhi la mano sinistra che, senza accorgersene, si era ferito con il coltello.
Mica aveva urlato, quell’altro verme; aveva sussurrato. Non voleva scatenare una scenata ma nemmeno togliersi il gusto di rimproverarlo esercitando il debole potere che gli davano i suoi tre anni in più.
“A mia on mi nda futta nenta, on mi dola”, aveva sibilato Francesco tra i denti. 
E anziché tamponarsi il sangue, aveva infilato tutta la mano dentro uno dei mezzi limoni che stavano sul tavolo, mescolando il suo sangue alla polpa.

Il gelato, una volta pronto, veniva stipato nel retrobottega e poi caricato nelle vaschette del bancone in negozio. Gli affari, in quel periodo, cominciavano ad andare proprio bene per la gelateria Bella Italia e il sapore asprigno dei limoni messinesi aveva riscosso molto successo. Forse per questa ragione, sin da subito, Citronov crebbe con la convinzione assoluta di appartenere a una razza in qualche modo superiore. E tale convinzione s’ingigantì probabilmente anche grazie all’inusuale circostanza per cui, la sera prima dell’ingresso suo e dei suoi nel privilegiato mondo del bancone, apparve un segno nel cielo buio della sua vaschetta. Il sereno e gelido nero che lo sovrastava, mentre normalmente riposava con tutti gli altri in uno dei frigoriferi sul retro, si era improvvisamente squarciato, e all’orizzonte, per pochi istanti, era comparso un cerchio dorato che circondava un cuore nero.
“Domani u pijjamu”, aveva detto una voce lontana e potente come da un altro mondo. Poi subito era ripiombata l’oscurità.

Il signor Masannò era sceso in negozio dopo colazione come tutte le mattine. Poiché era sabato e non c’era scuola, Giuseppe gli era subito andato dietro, mentre Pasquale si era palesato dopo un po’. Infilandosi il grembiule ricamato, il signor Masannò se l’era guardato in silenzio per qualche secondo, indeciso se cogliere l’occasione per fargli notare ancora una volta quanto la sua sciatteria fosse tanto più evidente misurata in relazione al fratello.   Alla fine aveva deciso di lasciar perdere e aveva sentenziato:
“Pijjia limuna e fragola.”
Srotolandosi, la saracinesca all’ingresso lasciava entrare la luce riflessa dalle Alpi attorno al lago.

anna marzuttini

Quell’anno l’estate era stata mite, e moltissimi dei ricchi turisti che villeggiavano in paese avevano l’abitudine di prendere il gelato a metà mattinata. Già a mezzogiorno Citronov poteva vedere, dalla sua posizione in fondo alla vaschetta, il viavai delle mani dei Masannò sulla propria testa che gli facevano caldo spostando l’aria. I suoi genitori erano ormai scomparsi, come pure quelli dei suoi amici – chi in graziose coppette colorate, chi sovrastando cialde di forma conica. Che vergogna avrebbe provato il nostro eroe, nel rivedersi alla soglia dell’età adulta tutto impettito e obbediente ad aspettare il proprio turno. Oppure, viceversa, si sarebbe intenerito per quella versione di sé così innocente, che ancora nulla conosceva di efferati omicidi e lotte per l’indipendenza. Ma la sua vita si sarebbe compiuta e non avrebbe lasciato traccia, se non fosse accaduto che, all’improvviso, un enorme clamore aveva interrotto l’atmosfera di festa della gelateria.

Sulla porta si era accalcata una piccola folla e al centro stava il figlio piccolo dei Masannò, trascinato per il polso da un maschio dell’est Europa. Francesco strillava insulti in dialetto, si dimenava, scalciando in tutte le direzioni come un cane rabbioso.
“C’ha cumminatu, malanova?”, il signor Masannò si era fatto avanti e aveva colpito con violenza il figlio, il quale allora aveva cominciato a piagnucolare frasi sconnesse.
Quesqu’il passe?”, aveva poi chiesto Giuseppe, facendosi avanti lui pure per sopperire al francese elementare del padre.
L’uomo che trascinava Francesco, insensibile alle lacrime del bambino, lo aveva strattonato ancora, come per consegnarlo ai suoi. Con un accento che nessuno di loro avevano mai sentito prima, aveva detto:
Il a esseyé de voler mon argent
Senza aspettare la giusta traduzione, la mano ruvida del Signor Masannò era di nuovo calata sul figlio minore.

II – Poeta

Su una terrazza esposta a sud, fuori dalla città, un gruppo di ragazzi e ragazze sta ballando. Quasi tutti hanno in mano un bicchiere: a turno fanno una pausa per fumare, versarsi ancora da bere, o scambiare due chiacchiere. A un certo punto una di loro, allunga il braccio verso la strada, dove avanza un’automobile.
È stata Tati a proporre di trascorrere qualche giorno nella casa di campagna dove la portavano i suoi da bambina. Mentre gli altri si sporgono dalla ringhiera seguendo l’indicazione di quell’altra, le gira la testa ricordando l’eccitazione ribelle provata la sera prima, quando per la prima volta ha dormito sotto lo stesso tetto con degli uomoni che non sono suoi parenti.
Alle parole che le si sono sempre bloccate in gola, alla timidezza, e alla certezza annodata da qualche parte di essere inadeguata rispetto a un mondo di persone che sanno ridere e parlare e scherzare senza dover desiderare di farlo, ha improvvisamente sopperito la bellezza che le è esplosa sottopelle, e che da lì le è strisciata seulla bocca, tra i capelli e nei fianchi.
Tuttavia ancora – ancora! – non è sicura di dove appoggia i piedi; ancora non ha imparato a bucare il muro della sua ansia. Per questa ragione fuma e beve appena può: è in qualche modo convinta che fino a quando avrà un bicchiere in mano e una sigaretta tra le dita a nessuno verrà in mente di farle domande alle quali non saprebbe rispondere.
Da quando ha capito che bevendo è più facile distendere i muscoli della pancia e delle gambe, non ha più esitato a usare questo metodo per affrontare una varietà di situazioni, e così è andata pure la notte precedente.
Jean e il russo che si è portato dietro da Parigi scendono dall’automobile tutti sporchi di polvere.

“Je crois que vous buvez trop.”
Le ha detto così la notte prima, il russo, guardandola dritta negli occhi. Era la prima volta che parlavano da soli, seduti sul dondolo in veranda. Qualcuno si era addormentato, qualcuno si era messo a giocare a carte poco più in là. Lei mandava giù vino dall’ora di cena e stava pensando che era bellissimo stordirsi e sentire il profumo dei fiori. Ma proprio quando le era balenata in mente l’idea di riuscire a impressionare perfino quello straniero taciturno che si diceva fosse un rifugiato politico, lui le aveva detto una cosa che in bocca a chiunque altro sarebbe suonata terribilmente fuori moda.

La voce di Jean risuona chiara mentre salgono le scale dall’ingresso e annuncia l’arrivo del gelato, risarcimento per un tentativo di furto che racconta con dovizia di particolari. Tati ascolta insieme agli altri mentre si adopera a servire. i suoi ospiti.
Quando il russo le capita davanti e deve scegliere che gusto prendere, dice una sola parola con il suo orribile accento: “Citron”.

È risaputo che Citronov si sia più volte espresso con molto risentimento riguardo a quella che definiva “la mania per l’illuminazione degli esseri umani”. E la sua attività intera, i pamphlet diffusi dopo le azioni di guerriglia, come pure la sua abbondante produzione letteraria, sembrano essere perfettamente coerenti con tale posizione. Tuttavia è difficile credere che egli non abbia cercato, almeno in un primo momento, di incanalarsi sui più ovvi binari dell’entusiasmo per il proprio destino. Viceversa, secondo alcuni studiosi, l’iniziale innamoramento per il percorso che credeva gli fosse stato assegnato, e la conseguente delusione che lo ha condotto a diventare famoso, sono condizioni necessarie a decifrare la sua complessa, ambigua, e affascinante personalità.
Di più: prima della fortunatissima uscita di Il poeta messinese lo fa con i cucchiaini di plastica, nella corrispondenza di Citronov si trovano brani che guardano alla sua vita nell’espositore con non meno nostalgia di quanta ne venga destinata all’età d’oro del buio freezer nel retrobottega.
Spiaccicato e mezzo sciolto su un logoro tovagliolino di carta, Citronov ripensava con rabbia al fastidio che gli avevano procurato le loro mani quando gli passavano sopra: pezzi di pelle olivastri e ammaccati che sorvolavano il perimetro rettangolare in cui viveva. Ogni tanto vi planavano, e allora arnesi lunghi e lucidi atterravano di schianto e scavavano buchi sulla loro pelle.
Si erano portati via la madre, prima, poi il padre. Bizzarramente, il nonno lo avevano portato via a pezzi. La coscienza collettiva lo aveva in qualche modo abituato ad accogliere quelle partenze come avvenimenti felici. Era dovuto finire nell’immondizia per ammettere che in realtà non sopportava la sensazione di calore che si agitava sulle loro vite a ogni contatto. Il suo momento era arrivato d’un colpo, nessuno si era preoccupato di chiedergli se si sentisse pronto, se per caso non preferisse aspettare ancora un minuto. Lo avevano preso insieme a una dozzina di compagni e lo avevano ficcato in un contenitore così sottile che lasciava filtrare una luce insopportabile. Non stava in cima a una cialda, come aveva desiderato senza sapere perché, né in una piccola coppa di vetro dove aveva visto finire altri. Per 15 minuti il mondo non era stato altro che pareti luminose, calore e tremolio. Era arrivato a destinazione quasi sciolto.
Adesso era un rifiuto in mezzo ad altri rifiuti. Gli era stato negato tutto, perfino la vista del cielo enorme sulle alpi o il dolce suono dell’acqua che si intorbidisce nel lago: aveva davvero toccato fondo. Ma mentre la sera scendeva, e con essa la temperatura, si era era fatto forza, pensando che da quel punto poteva solo risalire.

*

Anatema

Se la mia assenza non ti fa tremare, e non ti strazia il pensiero di me

se puoi sopportare di sapermi libero

andare dove voglio, e vivere lontano, e forse lontano morire,

senza che tu diventi vedova,

allora ti punirò con la mia presenza costante e ottusa;

e ti regalerò sorrisi perfetti e mi caverò gli occhi,

e per guardarti, li sostituirò con occhi di vetro.

E se alla fine ti abituerai alla mia nuova assenza,

il secondo anatema che ti lancerò sarà la perdita

del senso, di tutti quei ricordi, di tutti quei giorni,

di come la luce calava sulle cose.

E ti rovinerò il passato e ti spezzerò le radici

e tu pure andrai per il mondo

orfana e vuota e mutilata.

Se Citronov non avesse fatto parlare di sé con la guerriglia, se non avesse formato un esercito di disadattati armati e violenti, se la sua fine non avesse avuto una risonanza mediatica tanto grande, oggi forse lo conosceremmo solo come poeta.

Ma è ormai parere di tutta la critica che la poesia del nostro eroe sia diventata caposaldo della letteratura del secolo scorso proprio per la violenza sanguinaria di cui i suoi versi sono pervasi. L’unica eccezione riguarda forse alcuni passaggi sul tema dell’incontro con l’amata, sul quale il poeta torna quasi ossessivamente, identificandolo come momento nel quale l’esistenza si conchiude. A dispetto delle glorie e delle sconfitte politiche, non esiste un capitolo della storia letteraria del famoso poeta-gelatino-killer in cui gli elementi di quell’esperienza più profondamente incisi nella sua percezione, non si ripresentino almeno sullo sfondo. In Memorie di un gelatino in cella, l’ultimo atto della sua produzione, al testamento spirituale che Citronov fa ai suoi seguaci, si mescolano sullo sfondo l’ondeggiare lento dei pini, le foglie gialle e rosse e morte che formano un tappeto sul cemento, il bianco del cielo invernale. E quando, alla disperata nostalgia per l’amor perduto, egli alterna la poesia delle maledizioni, i suoi versi straziati manifestano soprattutto una paura quasi psicotica che la fine dell’amore contamini la perfezione dei pochi istanti di quel primo incontro.

Di quella prima notte da rifiuto della società ma anche da essere libero, Citronov non ha mai scritto né parlato molto, probabilmente per non aggiungere altro carico alle pesanti accuse che gli sono state mosse. In una famosa intervista di quasi quaranta anni fa, tuttavia, a un giornalista che insisteva sul tema dell’omicidio – ancora irrisolto – che si consumò poco lontano da dove si suppone si trovasse il nostro eroe, Citronov diede una celebre risposta, riportata in seguito da tutti i principali quotidiani:

Si dice che ho ammazzato un uomo in aperta campagna, giusto? Beh si dicono molte cose sul mio conto. Non non ricordo di aver fatto niente del genere, però voglio dirvi una cosa: ci gettate per strada come spazzatura, lasciate che ci squagliamo a temperature per noi impensabili, ci negate il diritto fondamentale di vivere secondo la nostra natura e cioè al buio. Ci spogliate di qualunque libertà per nutrirvi di noi come fosse un’attività innocente, anzi un diritto. Cosa volete che faccia un gelatino solo e disperato con una bottiglia di vetro a portata di mano e un coglione che vaga da solo nella notte? Ve lo dico io cosa fa: comincia la sua ribalta!

III – Killer!

Vincent era nato e cresciuto ad Annecy, ma viveva a Neuchatel da tre anni. Suo padre aveva voluto che studiasse, così era finito a fare il farmacista in Svizzera, dove pagavano meglio. Il lavoro rendeva bene e la sua vita era tranquilla.

Vincent non era bello, né interessante né intelligente. Non aveva senso dell’umorismo, né era particolarmente affascinante. Il più grande problema di Vincent però, era che ignorava tutte queste cose, e vagava insoddisfatto per il creato, ponendosi domande stupide quali, per esempio, come mai non avesse ancora incontrato una donna o perché non potesse vivere facendo, per esempio, il pittore invece del farmacista.

Vincent non aveva la benché minima idea di cosa fosse la pittura, né tantomeno l’arte, la poesia, la musica o qualunque altra espressione di bellezza. Non sapeva niente del mondo perché il suo animo era piccolo, e improvvisava interessi che non aveva e che non coltivava. Di più: poiché aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, era convinto di avere un bell’aspetto.
Cosa vede allo specchio un idiota? Un’immagine diversa da quella che rimanda agli altri, oppure vede realmente, senza riconoscerla, la sua faccia grossolana?
Vincent passava i giorni nella bottega e il fine settimana passeggiava per il corso. La sera giocava a carte e quando rientrava nel bilocale che aveva affittato, talvolta si fermava a chiacchierare con i padroni di casa che erano anziani e vivevano al primo piano. Per via di quelle chiacchierate, immaginava di essere un grande filantropo, inorgogliendosi al pensiero di avere un animo tanto sensibile.

Era la stessa patetica, presuntuosa immaginazione a farlo innamorare di tanto in tanto: la commessa del ferramenta gli sorrideva, ed egli subito cominciava a sognare che lei gli avrebbe preparato da mangiare la sera, aspettando magari il suo rientro affacciata alla finestra; una cliente abituale lo chiamava per nome, e lui già si figurava di vederla rientrare in negozio a pochi minuti dalla chiusura per confessargli il suo amore.
Quando poi le sue fantasie si scontravano con la realtà e andavano in frantumi, ne creava di nuove per proseguire il film che aveva inventato. Se l’oggetto dei suoi desideri lo ignorava, prendeva a guardare malinconicamente l’orizzonte e a sospirare forte, raccontando di come fosse caduto preda di un cuore crudele. Se riusciva ad approcciare la donna che lo interessava e veniva rifiutato, si credeva vittima di una grave ingiustizia e passava a progettare assurde imprese di riconquista.

Quella notte, stava trascinando verso i campi intorno al lago la sua insensatezza e il suo romanticismo da due soldi. Stavolta, si diceva, stavolta davvero faccio una pazzia.
Marie aveva qualche anno meno di lui, ed era arrivata in farmacia da poco. Faceva delle medicazioni a pazienti per lo più anziani, era simpatica e le piaceva raccontare delle storie. Con lui era stata gentile, come si conviene, ma l’ingiustizia del sesso debole è inesorabile.
Non le faceva niente, fisicamente, il povero Vincent. Se lo avete immaginato capace di uscire per un momento dalla sua mediocrità non avete capito chi realmente fosse quest’uomo. Ma la bestialità dell’ignoranza è non di meno un peccato mortale.
L’aspetto che più aveva gettato Marie nello sconforto, giorno dopo giorno, riguardava l’ottusa insistenza di lui e l’assoluto egoismo del sentimento che le manifestava. Continuava a rivolgerle attenzioni che lei – era sicura di averlo reso chiaro ormai – non desiderava, e lo faceva in un contesto dal quale non poteva scappare. Di più: si era anche accorta che tutto quello che lui faceva per tentare goffamente di corteggiarla, era in realtà completamente autoriferito. Vincent non sapeva niente di lei e non si era sforzato di conoscerla nonostante le lunghe ore che erano costretti a passare insieme.

“Pensavo che avresti pianto”, le aveva detto una volta che era arrivata la notizia della morte di vecchio cliente abituale. Lo aveva detto quasi stizzito, come un rimprovero: Come, non piangi? Desiderando di vederla debole.
Marie intuiva che Vincent non era una persona cattiva, ma quando la obbligava a trattenersi oltre l’orario di lavoro a chiacchierare e lei non trovava la forza di mandarlo al diavolo, le si riempiva il cuore di rabbia. Era arrivata a odiarlo, ma poiché nei fatti non c’era nulla di cui potesse accusarlo, era rimasta per mesi in silenzio a rodersi i denti.
Quando quel pomeriggio Vincent era entrato in farmacia, il titolare lo aveva chiamato nello studio sul retro. Aveva ascoltato quello che gli veniva detto senza capire, che lei se ne fosse andata significava solo che lo aveva lasciato per qualche misterioso motivo. Come aveva potuto farlo senza preavviso e perché sembrava che gli stessero sottilmente dicendo che la colpa era sua?

Che cosa si prova a uccidere un uomo? Il vetro appuntito di una bottiglia, spesso quasi mezzo centimetro, che affonda nella pelle candida del collo. E poi?
Non è così. Uccidere è una faccenda che c’entra molto poco con il bianco. I cadaveri diventano viola e blu e verdi e putridi e gonfi. Anche chi sa di non avere più speranza si dimena come un animale imbizzarrito e muggisce per tentare di scappare. Tutti i muscoli s’ingrossano, e insieme si alza la temperatura, come in presenza di una febbre altissima. Il sangue è torbido e raggrumato, ma anche sorprendentemente abbondante e fluido per stare tutto dentro un solo corpo. S’insinua ovunque e si mescola a tutto, e poi quando si secca diventa marrone, e quando è secco da tanti giorni vira al grigio ed è pazzesco, in quelle condizioni, sapere che si tratta di un elemento vitale. La carne viva che c’è sotto la pelle è rosa e luminosa come un neon, ma le budella sono per lo più beige con un sottotono grigio.

Per tutta la vita, dalla celebrità in poi, la camminata di Citronov è stata riconoscibile: un’andatura sbilenca e zoppicante, dovuta ai sostegni artificiali cui ha dovuto fare ricorso per via della sua natura. Una pallina di gelato al limone, che c’è di meno spaventoso? Eppure chi lo ha conosciuto non manca di usare l’aggettivo feroce per descrivere il suo passo, il suo sguardo, il tono della voce. I giornali internazionali hanno cominciato a parlare di lui poco prima della fondazione ufficiale del suo giornale rivoluzionario – Citron’ka – ma è possibile che, senza saperlo, sia stato un piccolo periodico di provincia a dare al nostro eroe la gloria della prima apparizione sulla stampa.

Non ci sono prove, né questa breve ricostruzione dei primi anni della vita di un personaggio tanto controverso, vuole in nessun modo lanciare accuse. Tuttavia, pare che l’alba del giorno che ha visto Citronov lasciare il suo paese d’origine, coincida con quello in cui alla sua periferia, veniva ritrovato il corpo senza vita del farmacista locale.
Ciò che stupì la cronaca fu la ferocia con cui erano state inferte le ferite sul cadavere. L’aggressore aveva usato il collo di una bottiglia rotta, era partito a colpire le caviglie per poi salire lungo i polpacci, le ginocchia, le cosce, l’inguine (la vena femorale era completamente lacera) e infine accanirsi su ventre, costato, petto e collo. Anche molto dopo che l’uomo era morto, l’aggressore aveva infierito sulla sua bocca, ragione per la quale il pastore che lo trovò il mattino seguente lo descrisse alla stampa come “una bambola con una voragine in mezzo alla faccia”. Altro fatto strano, il cadavere era stato derubato, ma l’importo della rapina non giustificava un comportamento tanto efferato.

E se quella furia fosse servita a far germogliare qualcosa? Un piano, un disegno, una promessa. Se davvero Citronov non ha nulla a che vedere con questo primo omicidio di fatto senza scopo, come ha sempre dichiarato, la coincidenza è comunque simbolica nella battaglia politica condotta per tutta la vita dal nostro protagonista.
Ci rallegriamo della vista di un gelatino divorato in un giorno di festa e rabbrividiamo di fronte al corpo esangue di un uomo nel bosco; al pazzo sanguinario che ci domanda quale sia la differenza, che cosa possiamo onestamente rispondere? Ciascuno mira al raggiungimento della propria realizzazione personale, eppure l’aspirazione di un altro la chiamiamo ferocia, follia, lo chiamiamo terrorismo. Sapete davvero come reagireste se le vostre istanze fossero ignorate, respinte, o perfino derise? E vi sentite più fieri al pensiero che accettereste la vostra condizione di minoranza subendo a testa bassa, o immaginandovi come intrepidi pirati che reagiscono e mettono a ferro e fuoco il mondo?
Eccovi: adesso siete Citronov anche voi.

Testo Francesca Del Mar
Illustrazione Anna Marzuttini

 

 

 

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