The Loneliest Whale in the World

1. Matariki

La balena era andata via da tre giorni ed eravamo ancora accalcati sul molo con la macchina fotografica pronta. I giornali continuavano a metterla in prima pagina. Aveva un profilo su qualsiasi social network, un susseguirsi di foto tutte uguali e disegni fatti dai bambini. Il disegno migliore avrebbe vinto un premio in dollari e a giudicarlo sarebbe stata la balena stessa che ogni giorno dava indicazioni esatte sul punto in cui si trovava. Scriveva in prima persona: “Kia Ora, oggi sono a Oriental Bay”.
Oppure: “Kia Ora, oggi voglio giocare a nascondino!”
Apparteneva a una specie in via d’estinzione che era più facile avvistare dalle parti di Auckland. Da Wellington non passava da almeno otto anni. Per tutelarla avevano rimandato i fuochi d’artificio di metà inverno, tratti del porto erano stati chiusi e norme di buona condotta erano state distribuite a tutti i cittadini: le barche e i kayak, per esempio, dovevano tenersi a una distanza di almeno cinquanta metri. La balena lo chiedeva con gentilezza: “Per favore, amici, sono un essere delicato, i rumori forti potrebbero danneggiarmi.”
Ma in realtà se non rispettavi le norme rischiavi di pagare fino a 250.000 dollari di multa, o addirittura di andare in prigione.

Nella settimana in cui era venuta a visitarci – lei stessa si definiva “la turista più famosa di Wellington” – si era cercato di trovarle un nome. Tra i più belli c’era Mirumuru, che significa “bollicine”, e Whaleington. Tra i più brutti Yeah e Swim.com. Nessuno convinceva del tutto. La balena pubblicava faccine tristi: aveva paura che senza un nome ci saremmo dimenticati di lei.
Era una coincidenza da non sottovalutare il fatto che la balena fosse comparsa proprio all’inizio di un nuovo ciclo. In quel periodo si poteva vedere l’ammasso stellare delle Pleiadi e i Maori festeggiavano il loro Capodanno: il Matariki. I capi Maori vedevano in lei un segno di prosperità e di cambiamenti positivi. L’unico nome sensato da darle, secondo loro, era Matariki. Tutti, finalmente, si erano trovati d’accordo.

Le balene a Wellington erano ovunque, sulle insegne, sui graffiti, sui marciapiedi di Courteney Square, sui vestiti. Vendevano pantofole a forma di balena, orecchini, astucci, accendini, vasi, divani. Era come un santo protettore. Dopo un’ora dal primo avvistamento di Matariki il molo era già affollato, tanto che erano dovuti venire i vigili. Sentivo dire a un gruppo di turisti che non c’era più motivo di spendere centocinquanta dollari a Kaikoura, nell’isola del sud, quando potevano vedere la balena gratis. Certo, a Kaikoura sarebbero stati in barca, ma le foto probabilmente sarebbero venute altrettanto nitide.
Arrivavo verso le undici di mattina, dopo aver fatto colazione al bar di fianco casa, che si chiamava per l’appunto Sleepy Whale e come insegna aveva una balena formata dai chicchi di caffè. Prendevo due flat white, uno da bere sul posto e un altro da portare via. Era una sorta di cappuccino senza spolverata di cacao sopra. Con la schiuma disegnavano sempre un cuore o una foglia di felce; nella settimana in cui era apparsa la balena, una balena.
Il “Dominion Post” mi aggiornava sui suoi spostamenti. Ovunque si trovasse c’era la calca e io finivo per appartarmi nelle terrazze dei bar, sulle collinette o sul ponte pedonale che un artista maori aveva decorato con sculture di legno. Mi sedevo accanto a un cuore arrugginito trafitto da una freccia e fino alle nove di sera guardavo imbambolata la pinna di Matariki muoversi a un ritmo a me sconosciuto. Anche lo spruzzo andava a ritmo, cercavo di scorgerci dei segni, dei simboli rivelatori. Ogni tanto Matariki spariva e riappariva all’improvviso facendo delle piroette. Tutti applaudivano e anch’io, sebbene, così a distanza, non si capisse a chi stavo applaudendo.

ludovica sodano 1

Mi spostavo soltanto per fare pipì o prendere altro caffè. Se avessi portato la tazza da casa sarebbe costato meno. Al supermercato ero tentata di comprarla, quella apposita col coperchio, ma poi lasciavo perdere perché tanto a pagare era Manlio. A casa non avevamo la caffettiera. Mi ero offerta di comprare almeno il caffè solubile per risparmiare sul bar, ma lui insisteva che quattro dollari per un caffè non erano niente, e neppure se ne spendevo otto aggiungendo un muffin alla banana o uno scone al formaggio. Col nuovo lavoro guadagnava quasi diecimila dollari al mese. Ero convinta che fosse stata la vista di quella cifra sul conto a farlo impazzire. Voleva sempre comprare qualcosa: un monociclo solo per giocarci a casa, un kindle anche se non leggeva, una macchina per fare la pasta, anche se non aveva le pentole. Andava al ristorante sia a pranzo che a cena. In più, manteneva me. Il lunedì mi faceva trovare le banconote sul tavolo.
Ogni mattina, quando andavo allo Sleepy Whale, le guardavo, allungavo la mano e la ritiravo. Fino ad allora avevamo gestito le spese, dividendo le quote a seconda dei rispettivi salari. Le coppie in genere fanno così. Solo che noi non eravamo più una coppia. Ripetevo la tiritera dell’allungare la mano e ritirarla per cinque giorni buoni, poi afferravo le banconote e le ficcavo nella parte del portafoglio riservata alle monete, dove per farle entrare dovevo appallottolarle come scontrini.
Intanto a casa spuntavano accessori per il monociclo che Manlio ancora non aveva, attrezzature da sci, casomai un giorno avesse voluto imparare a sciare, giradischi vintage per ascoltare i vinili che un suo collega svendeva: perlopiù musica da camera di cui nessuno dei due era un estimatore. Fossimo stati ancora una coppia gli avrei fatto notare che se continuava a spendere senza controllo non sarebbe mai riuscito a comprare la casa con giardino dove avrebbe scorrazzato il futuro cane, un bulldog francese che avremmo chiamato Jean-Paul, che sognavamo da tempo e da cui era partita l’idea della Nuova Zelanda. Ma tanto, dato che non ci avrebbe più abitato con me,  speravo che non riuscisse a comprarsela.

Avevo raggiunto Manlio a Wellington dopo quattro mesi, una volta finito il mio contratto di lavoro. L’idea era di sposarci in Ambasciata, in modo da farmi ottenere il visto. In una delle mie tre valigie avevo il certificato di nascita tradotto che serviva per il matrimonio. Avevo salutato i miei genitori e i miei amici con la promessa di tornare a trovarli almeno una volta all’anno. Ero spaventata, ma non così tanto. Più che altro mi sentivo coraggiosa. Quando ero arrivata in aeroporto, due giorni dopo e col fuso di dieci ore, Manlio mi aveva salutato con un bacio sulla guancia e aveva detto che “dovevamo parlare”.

In Italia mi svegliavo ogni mattina alle sei per fargli compagnia, su Skype, mentre cenava coi cibi da asporto, thai, malesi, cinesi, tutti dolciastri. Diceva che era stanco di lavorare dieci ore al giorno e non mollava grazie al pensiero che un giorno io, lui e Jean-Paul saremmo stati insieme in una casa in cui per piantare i chiodi non avremmo dovuto chiedere il permesso a nessuno (a ridosso della mia partenza menzionava solo Jean-Paul e i chiodi, ma sono dettagli a cui ho fatto caso più avanti). Ora che ero lì con lui lavorava dodici ore al giorno e la cena la consumava in ufficio. Rientravamo più o meno allo stesso orario. Mi chiedeva se avessi fatto delle foto a Matariki, rispondevo di no, che le avrebbe potute trovare su internet.
“Ma cosa fai tutto il giorno?”
“Guardo la balena.”
“E basta?”
“E basta.”
“Ma cosa fai tutto il giorno?”, mi chiedeva anche mia madre.
Da quando aveva imparato a usare Whatsapp mi chiamava più di quanto non facesse in Italia. Il fusorario non la coglieva mai impreparata.
“Guardo la balena.”
“E basta?”
“E basta.”
“Non ti fa bene passare le giornate a deprimerti così.”
“Non mi sto deprimendo. Incontro un sacco di gente; con alcuni ormai ci salutiamo.”
Cinque o sei recidivi li incrociavo nel tragitto. Anche loro con i bicchieri di caffè formato large. Ci scambiavamo i Kia Ora e speravo che non si fermassero a chiacchierare.
“Non ti congeli al freddo? Qui ci sono quaranta gradi.”
“Ho i guanti.”

2. Che vuoi che succeda a Wellington

“Al telegiornale hanno appena fatto vedere la tua balena. Spruzzava l’acqua come le fontanelle scenografiche. Ti ho cercato in mezzo alla folla ma non ho fatto in tempo perché il servizio è durato meno di un minuto. La prossima volta appena ti accorgi di una telecamera saluta. Non si sa mai.”
“È quasi l’una di notte, mamma.”
“Dormivi?”
“No.”
“Non mangi, non dormi. Guardi la balena e basta.”
“Non mi sono ancora ripresa dal jet-lag.”
“È tutto il caffè che ti bevi. Non puoi portarti la camomilla? Ce l’avranno anche lì, immagino. O la frutta. Cos’hanno oltre ai kiwi?”
“Ci sono dei kiwi gialli che si chiamano Golden Kiwi, che sono più dolci e più cari. Manlio li mangia in continuazione. Quando sono arrivata in frigo c’erano solo quelli.”
Quando ero arrivata c’era un solo piatto, un solo set di posate, una sola tazza, un solo bicchiere, un solo asciugamano.
“Io stamattina ho raccolto le albicocche dal nostro albero. Ma sai che sono buone… Ho detto a tuo padre che potremmo venderle per strada, fare la bancarella nel bagagliaio della macchina, perché tanto io e lui non ce le mangiamo tutte. Come al solito si è arrabbiato perché dice che non ne capisco niente di commercio, ma se tu torni qua potresti farlo tu. Ci sono pure i gelsi, i limoni, i fichi d’india. Visto che l’affitto da noi non lo paghi potresti vivere di questo. Non ti arricchisci ma d’altronde non sei una che si vuole arricchire.”
“Non ci torno a vivere con voi, mamma.”
“Era un’idea…”
“Da quello che sono riuscita a vedere al telegiornale, Wellington sembra graziosa.”
“È bellissima.”
“Menomale. La bellezza almeno attenua le angosce.”

Ogni mattina, sul “Dominion Post”, cercavo avidamente notizie di cronaca nera, e il massimo dell’allarmismo riguardava le nuove linee dell’autobus che non arrivavano mai all’orario previsto. O la luce blu anti-riflesso che secondo i cittadini provocava mal di testa.
“Che problemi vuoi che ci siano a Wellington?”, ripeteva Manlio, come a rimarcare i vantaggi della sua nuova vita.
E io mi ostinavo a cercare notizie di omicidi, rapine, scippi, in modo da convincermi che quella calma che provavo anche quando mi perdevo in strade deserte, senza illuminazione, fosse ingiustificata. Ogni tanto leggevo di sparatorie tra gang ma erano trafiletti di poche righe a cui nessuno dava importanza: facce minacciose non se ne vedevano. Eppure si era passati da una media di uno o due omicidi all’anno, negli anni ‘60 a una media di 80, con un picco di 176. La colpa, secondo gli opinionisti del giornale, era della famiglia non tradizionale. Gli autisti degli autobus (per altro autobus eleganti, con la stoffa dei sedili che riproduceva grandi foglie di felce) ti facevano scendere il più vicino possibile all’indirizzo a cui dovevi andare anche se non c’era la fermata, e se quando scendevi dimenticavi qualcosa, chessò, una sciarpa, mettevano il freno a mano e ti rincorrevano per ridartela. Nei negozi, o al bar, ti chiedevano come stavi perché volevano davvero saperlo. Ti chiamavano My dear. Cercavo un commesso che fosse almeno distratto.
“Hai visto? – dicevo a volte a Manlio in tono compiaciuto – Ho chiesto un caffè in tazza grande e me l’hanno messo in una tazza piccola.”
Oppure, avevo notato che vicino casa nostra qualcuno aveva esposto alla finestra due bambole impiccate.
“Hai visto? Sotto sotto anche qui c’è qualcosa di oscuro.”
Lui faceva finta di non sentirmi e io ero arrivata ad augurarmi che ci facessero un fermo. I sorrisi spontanei di chi incrociava il mio sguardo mi mettevano di malumore. Guardavo a terra piuttosto. Cercavo cacche di cani, bucce di banana; neppure le cicche trovavo. Le buttavo io, apposta, quando nessuno era nei paraggi. A Manlio faceva schifo l’odore delle sigarette. Avevo smesso per fare piacere a lui. Adesso avevo ricominciato.
A volte sulla strada per il lungomare mi fermavo in biblioteca. I bagni erano puliti e facevano uno dei migliori caffè della città. All’entrata c’era una scultura di cartapesta che poi si sarebbe portata in processione e bruciata, per rigenerare le energie. Rappresentava un demone, per metà donna e per metà uccello, con in mano un uovo grande quanto una testa a cui potevi affidare i desideri per il nuovo anno. Ciò di cui ti volevi sbarazzare glielo mettevi in bocca, piazzato al posto del cuore. Subito, tra i desideri, avevo scritto che rivolevo l’amore di Manlio, ma invece di mettere il messaggio nell’uovo, con un gesto istintivo gliel’avevo messo in bocca.

3. La balena più sola del mondo

In due settimane non avevo ancora disfatto le valigie.
“Vuoi che parta?”, chiedevo a Manlio, soprattutto di notte, dopo aver spento la luce sul comodino.
“No.”
“Che bisogno c’era di farmi venire all’altro capo del mondo per lasciarmi?”
“Volevo che vedessi la Nuova Zelanda.”
“Ora l’ho vista. Vuoi che parta?”
“No. Col visto turistico puoi restare tre mesi.”

Sapevamo entrambi che una volta partita non ci saremmo più rivisti. Tre mesi sarebbero serviti a prepararci. Negli anni che eravamo stati insieme l’avevo seguito perfino nei paesini in cui il centro si limitava a una piazza, dove le scuole superiori erano ad almeno cento chilometri di distanza e a quattordici anni i ragazzini vivevano già fuori casa. L’avevo seguito nelle grandi metropoli dove potevamo permetterci appartamenti nell’estrema periferia e per arrivare in centro dovevi cambiare mezzi così tante volte che alla fine, per stanchezza, ti accontentavi di quello che offriva il quartiere; e tanto valeva stare nel paesino. L’avevo seguito perché per me la carriera non era mai stata importante. Un lavoro riuscivo a trovarlo sempre. Lasciandoci non sapevo dove andare. Escludendo la mia città d’origine, non ero mai stata così a lungo in un posto da considerarlo casa. Casa era Manlio.

In attesa che Matariki riapparisse, il “Dominion Post” stava dedicando un articolo al giorno agli eroi del regno animale che avevano “portato in alto il nome della Nuova Zelanda”. Il più famoso era il delfino Pelorus Jack che a cavallo tra l’800 e il ‘900 scortava le imbarcazioni attraverso lo stretto di Cook, dove le correnti e le rocce a pelo d’acqua avevano già fatto affondare due navi. Divenne il primo delfino a essere protetto dalla legge e un secolo dopo gli avevano dedicato una statua di bronzo. Avevo visto altre statue di animali a Wellington, soprattutto di cani – in tutta la Nuova Zelanda ce n’erano almeno una trentina. Uno era Paddy il vagabondo, che negli anni ‘30 vagava per il molo dopo aver perso la sua padroncina. Era diventato una specie di guardiano; riusciva anche a prevedere il meteo. Al suo funerale il corteo era guidato da dodici taxi. Poi c’era Shrek, la pecora Merino che per non farsi tosare si era nascosta in una grotta e quando venne ritrovata, sei anni dopo, era un ammasso informe di lana che da sola pensava 27 kg; “una creatura biblica” venne definita. La tosatura fu eseguita in diretta tv.
Chissà se anche a Matariki avrebbero dedicato una statua. Sembrava non avesse alcuna intenzione di tornare. Perfino il suo profilo non veniva più aggiornato. Sempre meno gente l’aspettava al molo e anch’io con l’avanzare di quell’inverno per me innaturale, a luglio, passavo la maggior parte del tempo in biblioteca – quando non c’era il barbone che russava forte – o dentro una delle mille caffetterie. Cuba Street era tappezzata dalle locandine di uno spettacolo intitolato The loneliest whale in the world con la foto di una ragazza di spalle, vestita di blu, che guardava il mare tenendo in mano un palloncino a forma di cuore. Ci avevo fatto caso da quando Matariki era partita. Manlio, stranamente, aveva deciso di accompagnarmi, anche se lo spettacolo veniva presentato come un musical e lui i musical non li sopportava.

Il titolo si riferiva alla balena 52hertz che emetteva suoni a una frequenza molto più alta del normale e che nessuno poteva comprendere. Nei suoi canti d’amore rimaneva inascoltata, e sola. Anche la protagonista era sola, sul palco e nella vita, così raccontava. Rivangava episodi dall’infanzia all’età adulta – 23 anni circa – in cui si era sentita incompresa. Leggeva i giudizi della maestra (“bambina dolce che non riesce a integrarsi”), i consigli/maledizioni delle amiche (“nessuno è alla tua altezza”). A volte cercava l’appoggio dei genitori che erano seduti in prima fila. “Chiedete a loro se non ci credete” diceva. Oppure afferrava la chitarra e cantava canzoncine di poche note che facevano ridere. Si rideva per la metà del tempo, il resto era solo un ripetere quanto si sentisse sola dopo che la fidanzata l’aveva lasciata. Mi infastidiva che alla fin fine la sua vita e il suo umore dipendessero da un’altra persona. Mi infastidiva che il bisogno di essere accoppiati dovesse essere al centro di tutto. In fin dei conti, 52Hertz era riuscita a sopravvivere.

Durante l’ultima canzone era richiesta la partecipazione del pubblico. Nel ritornello dovevamo cantare: All alone together, we’ll never be alone. All alone together, we’ll never be alone. La voce di Manlio sovrastava quella di tutti gli altri. Così ho dato fiato anch’io fino ad avere la gola raschiata, ma non importava. Non ci eravamo mai divertiti così tanto insieme. Mai andati a ballare, o a una festa, parlato con sconosciuti, mai rincorsi per strada o baciati per strada. Sulla via del ritorno continuavamo a canticchiare il ritornello: all alone together, we’ll never be alone; all alone together, we’ll never be alone. E facevamo piccoli saltelli, allargavamo le braccia. Veniva spontaneo prendersi per mano. Abbiamo intrecciato le dita e mi sono sentita in imbarazzo perché eravamo poco più di un ricordo, uno strascico. Nel momento in cui anche lui ha avuto la stessa sensazione ci siamo stretti le dita fortissimo e poi, lentamente, ci siamo rimessi le mani in tasca.

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“Kia ora, sono di nuovo qui – ha scritto Matariki – Vi sono mancata?”
Era nella penisola di Miramar, dietro l’aeroporto. Per arrivarci avrei dovuto prendere un autobus. Stavo fumando in balcone, la valigia ancora al centro della stanza. C’era il sole e, dall’albero di fronte, un gruppo di tui cinguettava in un modo così melodioso e forte che sembrava un suono registrato, di quelli che a volte mettono in sottofondo nei vivai. Piuttosto sarei andata allo zoo, o al giardino botanico, o a Matiu island. O avrei passeggiato a caso. Quando sono uscita dal portone ha iniziato a soffiare il vento.
Il famoso vento di Wellington che spazza via tutto, come un ciclone, e costringe la gente per strada ad aggrapparsi ai pali. Avrei potuto rientrare e aspettare che passasse, invece mi sono buttata, baldanzosa, perdendo subito il cappello di lana e l’equilibrio. Volevo arrivare fino alla fine della strada senza aggrapparmi a niente e senza cadere, scansando gli oggetti volanti e le persone. Un passo avanti e due indietro, un passo avanti e due indietro.

Testo Mari Accardi
Illustrazioni Ludovica Sodano

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