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In casa ho sempre dato una mano. Se c’era da rifare i letti, preparare da mangiare, passare la scopa, pulire la cucina o sparecchiare, ero più affidabile di Cenerentola.
Per quel che mi riguarda non esistono compiti maschili e femminili: ci si può dare delle regole e, in una coppia, stabilire chi fa cosa. Ma non ho mai pensato che apparecchiare la tavola fosse un dovere della donna e all’uomo spettasse esclusivamente un sontuoso rutto a fine pasto. Sono felice di aver superato con successo l’Età della pietra e mi fa piacere sapere che tanta gente, al mondo, mi abbia seguito nell’evoluzione della specie.

A consolidare però in maniera granitica la mia opinione su quanto la mente umana possa essere ancora imprigionata nel Paleozoico, fu un episodio che risale al 1998.
In quel periodo le mie nonne erano entrambe ricoverate per problemi gravi e diversi. I miei genitori erano delle presenze saltuarie in casa, impegnati com’erano a girare per ospedali. Il perno della casa ero io: cucinavo, lavavo, tentavo di tenere le cose in ordine perché è così che si fa in famiglia, ci si dà una mano.

Una mattina, intorno alle dodici, mentre preparavo la mia deliziosa frittata di patate, nel bel mezzo di un risciacquo si ruppe il tubo di scarico della lavatrice che avevamo sul piccolo terrazzo. Mi aggrappai a tutte le madonne che riuscii a visualizzare in cielo e le costrinsi a scendere, una per una. Mi sarei fatto operare volentieri con una fresatrice a nastro pur di evitare una chiamata all’idraulico ma mi vidi costretto a comporre il numero. L’eventualità di dovermi mettere a rattoppare un tubo – oltre a rifare i letti, cucinare, lavare e passare il Folletto – era fuori dalla mia portata.
Quando si rompe un tubo non puoi fare spallucce e dire “Che mangino brioche”.
Non funzionerebbe.

L’idraulico arrivò in pochi minuti. Portava un baschetto calato sui capelli unti, salopette blu d’ordinanza a coprire una t-shirt d’un bianco immacolato sulla quale cascava una catenina d’oro, non vistosa, spessa il giusto per risaltare su un cappotto di pelo che con spinta virile spuntava a mazzetti dal girocollo della maglietta da lavoro.
Lo accolsi con uno strofinaccio tra le mani. Stavo pulendo il piano della cucina e l’acciaio, si sa, dopo una lavata va asciugato per evitare che siano le macchie d’acqua a ricordartelo.
Quell’immagine gli si stampò negli occhi con orrore, come se, invece di un canovaccio, stessi torcendo tra le mani il collo di un bambino.
“Mi hai chiamato tu?”, chiese con parole gonfie di sospetto.
“Sì, l’ho chiamata io. Credo si sia rotto il tubo di scarico nel bagno.”
Che le sue arterie intasate non gli rendessero un buon servizio mi fu chiaro sin da quando il suo sguardo arrivò a posarsi sulla frittata di patate e salsiccia che stavo preparando per i miei.
“La cucina è roba da donne”, disse questo stuntman del maschilismo, regalandomi un’espressione piena di disgusto.
Non ebbi la prontezza di riflessi che avrei adesso, colmo come sono fino all’orlo di sarcasmo, per rispondergli. Mi limitai a indicargli la strada per il terrazzino. L’idraulico non perse tempo e in nemmeno trenta secondi era già steso in terra a svitare il tubo come fosse il semiasse di un autotreno.  Ero esterrefatto.
Quell’uomo poteva avere poco meno di cinquant’anni, ma mentalmente ne mostrava poco più di sette. Non correva, insomma, il rischio di camminare sbilanciato di quaranta gradi in avanti per l’incombente capacità cerebrale. Probabilmente la sua conoscenza del mondo si fermava alla scoperta del fuoco, su cui la sua donna di sicuro arrostiva il bue che il nostro eroe aveva steso con un pugno durante la seduta mattutina di caccia.
Ciò che più mi indispettì non fu tanto la sua battuta sulle donne, devo ammetterlo, ma la ricaduta che quella frase ebbe su di me.
La cucina è roba da donne.

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Per come la vedevo io, la mia frittata di patate era anche piuttosto maschia. Da sempre uso gli stessi ingredienti e devo ammettere che per il 90% è composta da colesterolo. Prodotta su una scala più vasta potrebbe dare lavoro a diversi reparti di cardiochirurgia. Non è cibo adatto per un party organizzato da un nutrizionista, per intenderci.
A pensarci meglio, mi resi conto che il concetto espresso da Neanderthal, La cucina è roba da donne, era, se possibile, anche peggiore rispetto al suo livello di comprensione superficiale. Ciò che contestava, in linea generale, era che un ragazzo potesse passare del tempo tra strofinacci e fornelli. Che cucinassi non gli importava. Il suo giudizio era rivolto alla mia trasformazione in casalingo, lavoro che nella sua mente non si addiceva a un uomo vero. Ero dunque un mezzo uomo.

Mia madre e mio padre erano palline da flipper tra i policlinici di tutta la regione e io stavo lentamente diventando un esponente dell’altro sesso per colpa di una frittata. Sembrava di assistere a uno di quei programmi serali in cui intervistano la gente comune per chiedere un’opinione sulla disoccupazione giovanile e la risposta grosso modo è uccidiamo gli stranieri. Mi sembrava tutto così fuori luogo.
In quegli anni frequentavo l’università: al di là dell’emergenza nonne, la mia normalità era vivere a Bari condividendo casa con altri tre ragazzi. A turno ogni mese pulivamo gli spazi comuni dell’appartamento. Non c’erano le mamme a farlo per noi: indossati i guanti Vileda, dalle tonalità felicemente fucsia, arancioni o lilla, si ficcava il braccio nell’acqua del cesso per strofinare via lo sporco con la spugnetta. Ognuno era geloso delle proprie pentole e a nessuno di noi è mai venuto in mente di uscire sul balcone e urlare a una donna per strada Tu che sei femmina, sali su e preparaci da mangiare.
Gran parte del corpo docente della facoltà di lingue era costituito da donne. Il Bradbury, su cui perdevo le nottate per studiare letteratura inglese, era zeppo di scrittrici, poetesse. C’era un tempo in cui le donne non potevano recitare, ma dall’epoca di Shakespeare era passato giusto qualche anno. Le cose nel frattempo erano nettamente migliorate ma il mio amico idraulico non sembrava essere d’accordo.
Ho sempre pensato che in certe teste si soffra di claustrofobia.

Qualche anno più in là avrei rivisto i comportamenti dell’idraulico in un coinquilino con cui condivisi casa a Milano. A quarant’anni era così dipende da sua madre da non riuscire ad avvitare nemmeno una moka.
“Io di solito la mattina non mi alzo se mia madre non mi porta la colazione a letto”, diceva, chiedendomi forse tra le righe di prendere il posto di sua madre.
Per come la vedevo io, poteva restare a letto fino alla fine dei suoi giorni.
I suoi pasti erano composti prevalentemente da cibi da ficcare nel microonde e il significato della parola candeggio gli sfuggiva del tutto. In quella figura c’erano due problemi: da una parte, di certo, una mamma incapace di insegnare l’indipendenza al proprio figlio. Dall’altra, un uomo svogliato senza la minima curiosità per il mondo. Una forma di vita venuta dalla polvere e che, dal mio punto di vista, avrebbe dovuto tornarci il prima possibile.

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Girata la mia frittata e spento il gas, raggiunsi l’idraulico per capire come stessero procedendo le cose. Il problema a quanto pare era in un manicotto, talmente intasato da non permettere all’acqua di filtrare.
Gli idraulici, così come gli elettricisti, possono raccontarmi ciò che vogliono e io non posso far altro che crederci.
Se mi dicono che nelle tubature c’è una comunità di extracomunitari, ci credo. Se mi dicono che l’acqua è piena di ginseng, ci credo.

Il lavoro fu svolto velocemente e senza troppi altri colpi di martello. Quando si rialzò, asciugò le mani sporche di grasso e sudore contro il tutone blu che la sua donna, in serata, avrebbe lavato a mano sugli scogli in riva a un fiume. Raccolse i suoi attrezzi, li ripose nella cassetta, che richiuse e portò in cucina, pronto a incassare e tornarsene nella sua roulotte nella discarica del mondo.
Decisi allora di fare un gesto da uomo tutto d’un pezzo: chiesi la ricevuta.
L’agnellino, sommessamente, mi fece notare che in nero mi avrebbe fatto un prezzo migliore. Ma non c’era verso: pur di fargliela pagare, io ero disposto a pagare. E così feci. Fu costretto a rilasciarmi la ricevuta e uscì di casa, sconfitto e a testa bassa. È vero, mi costò quaranta euro in più. Ma che soddisfazione.

Testo Francesco Muzzopappa
Illustrazioni Bernardo Anichini

 

 

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