malattia

Era arrivato dicembre con il vento freddo, le giornate cortissime, le vacanze di Natale. Quando l’università aveva chiuso, la biblioteca aveva appeso il cartello con la data di riapertura all’ingresso e i docenti avevano mandato una mail, “auguri, buone feste, sarò disponibile di nuovo dal 6 gennaio”.
Così aveva riempito il borsone delle prime cose che le erano capitate sotto mano ed era tornata a casa. Quando era arrivata, sua madre l’aveva abbracciata. Stanca morta aveva dormito undici ore di fila, tesa come una corda di violino, recettiva a tutto quello che le passava attorno, sempre con le orecchie attente e ogni parte del suo corpo pronta a scappare. Da cosa, questo non lo sapeva.
Le luci dell’albero di Natale in corridoio si accendevano e si spegnevano, intermittenti come lei, luminose e calde fin dal mattino, quando sentiva sua madre attaccare la spina alla presa e poi andare in cucina e aprire il frigo.
Erano i rumori di casa, le luci di casa, i passi sul pavimento freddo, il profumo della scatola di latta piena di biscotti. Sedeva lì come una convalescente, sentiva che certe cose si erano staccate da lei.
L’immagine di sé che ricordava le sembrava già un mucchio di stracci vecchi. Aveva lo stomaco contratto, il sangue andava verso il cuore che accelerava senza motivo e le mani fredde di chi ha paura eppure sa di essere al sicuro.

La città in cui aveva vissuto per ventisei anni si era sbriciolata insieme a piccole particelle del suo corpo e lei non aveva più potuto tenersi insieme. Rimaneva a letto come una conchiglia adagiata sul fondo del mare. Il tempo non passava. Si accendevano le luci di Natale, rosse, gialle, blu, fili di perle luminose sospesi sulle vie della città quando si faceva sera.
Sognava, sprofondata nella febbre e nel sudore, di aspettare sul ciglio del marciapiede, sollevandosi sulla punta dei piedi. Si accendevano le luci attraverso i finestrini, nella grande piazza, quando si lasciava trasportare via, verso casa, a fine giornata. Era dicembre. I pellegrinaggi del cuore e della mente la portavano a perdersi fra stradine tutte uguali, a ripetere lo stesso tragitto ogni giorno, a cercare qualcosa di invisibile. Aspettava. Luci intermittenti, fiocchi luminosi, caselle dell’avvento da aprire, giorno dopo giorno, in un interminabile conto alla rovescia, nella confusione, nelle allucinazioni, tra i tremori nervosi.
Quando la febbre saliva troppo e niente sembrava poterle dare sollievo, veniva inghiottita da un vortice nero e sotterraneo di incubi. Muscoli, nervi, intestini, vasi sanguigni, tutto ciò che formava il suo essere, il ronzio nelle orecchie.

Riviveva ancora, e ancora, senza sosta, il momento in cui l’infermiera le aveva inserito la cannula sotto pelle, sotto quella pelle troppo sottile del braccio destro, e il dolore era stato così forte che aveva pensato che si sarebbe strappata, lacerata, come pellicola o carta trasparente, e avrebbero dovuto ricucirla o ripararla, come una bambola di porcellana in pezzi. I suoi cocci sarebbero stati bianchi, come le pareti, come i camici, come le lenzuola, come la luce del soffitto, come le voci che le dicevano di stare seduta e respirare profondamente.
Il suo sangue era pieno delle pastiglie date il giorno prima, l’ora prima, i minuti prima, mentre l’ascensore scendeva lentamente e lei non poteva voltarsi. Dentro di lei scorreva la pesantezza degli anestetici in vena, il freddo ghiacciato iniettato nel suo corpo. Era scivolata in un sonno pieno di sogni che avevano modificato lo scorrere del tempo, dove aveva fissato il bianco delle sue stesse palpebre e aveva lasciato che qualcuno le martellasse sul ginocchio.
Era scivolata giù, giù, sempre più giù, e si era svegliata di soprassalto quando una voce l’aveva chiamata per nome. Era rimasta in quel limbo pieno di nebbia per quattro ore senza rendersene conto, un limbo popolato dai fantasmi del passato e del presente.

Aveva pensato che qualcosa in lei si fosse rotto per sempre, che i dottori avessero perso un coccio, che non l’avrebbero mai più aggiustata, che non sarebbe più stata la stessa.
Quel frammento che era rimasto lì, perso sotto la tavola operatoria, fino a quando non avevano raccolto le salviette zuppe del suo sangue rosso vivo e passato la scopa sul pavimento.
Quel frammento che nessuno le aveva mai più restituito.

Testo: Elena Ramella
Immagine: Federica Crispo

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