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“E insomma vedrai: la faccia è da topo e il corpo da pornostar. Vestita come uno dei Ramones: la maglietta e i jeans ultrattillati e le Converse mezze marce. Una roba che non l’avevo più vista da non so quanto, dalle fattone che si portava a casa mio fratello forse. Ah. Tra l’altro, la quarta band a suonare erano gli Housebreakers: una pena. Il cantante sembra Blackie Lawless, ma mica com’era dieci anni fa, giovane e bello, com’è adesso: un ciccione”
Quell’estate non avevo niente da fare e passavo le giornate con Marco. Ci rinchiudevamo nel suo seminterrato a bere birra, stilare classifiche di figaggine delle ragazze del paese e commentare come la scena metal si fosse avvelenata con tutto quel trash, quel death e quel black.

“Vedi – diceva indicando la batteria in un angolo – io ci sudo delle mezze giornate lì sopra. Ma niente. Vogliono gente ultratecnica per poi vestirsi di nero e mettersi a grugnire di suicidi o preti sgozzati. Andava bene finché era una cosa scherzosa, tipo Ozzy o cose così, ma adesso si prendono sul serio. Si è perso lo spirito”.
A me del metal non importava granché, ascoltavo i Pixies o i Pavement, però Marco mi divertiva; eravamo amici fin dai tempi in cui l’acne non gli aveva ancora sbrindellato le guance, pisciava nei lavandini dei cessi della scuola e guardavamo insieme i vecchi film Disney del venerdì sera.
“Eccolo lo spirito” e con un cenno indicava i poster che soffocavano le pareti del seminterrato: vecchie stampe sgualcite, paginoni centrali di “Playboy” o “Metal Hammer” che ritraevano modelle dalle tette enormi o rockstar dalle chiome vaporose, muscoli e abbronzatura.
“E qualcuno mi venga a dire se non era meglio.”

Quando finivano le birre allora prendevamo il suo Ciao smarmittante e scendevamo al fiume. Percorrevamo le spiaggette in lungo e in largo cercando il coraggio per abbordare le ragazze senza compagnia. Marco aveva una teoria: “Dovremmo puntare su quelle sui quaranta. Sono molto più porche. Hai visto che sguardi che fanno quando le incrociamo?”
Ma io non notavo proprio nulla, mi tuffavo in acqua, poi mi stendevo sulla spiaggia e fumavo una sigaretta dietro l’altra, delimitando il territorio con lunghe file di mozziconi piantati nella sabbia.
“Non combinerai mai niente”, sospirava Marco.
Il giorno prima m’ero addormentato sotto il sole e la sera sulla mia schiena fiammeggiavano fiori di pelle viva. Marco era andato a un raduno di band esordienti stipate in qualche oscura polisportiva della provincia; io ero rimasto a letto, febbricitante, a fantasticare sullo striminzito bikini di Claudia Boschi.
“Allora, era proprio sotto il palco. Cinque minuti prima l’avevo vista limonare col chitarrista degli Speed Demons: quello nano che si crede Joe Satriani. La punto. Lei pure. Subito penso: questa me la faccio. Attaccano gli Antichrist, una roba tutta caproni e pentacoli e cazzate così. La musica non aiuta ma il momento lo impone: mi struscio un po’. Lei si struscia, forte, decisa. Si muove come un serpente. Stavo per scoppiare nei jeans, ti giuro. Comincio a palparla qua e là. Lei lascia fare. Mi sembra anche che faccia dei gemiti ma ammetto, non ci posso giurare, troppo casino. Del nano manco l’ombra. Insomma, me la trascino via. Fuori dal locale. Il resto te lo puoi immaginare oppure vieni qui e te lo racconto. Comunque, ti volevo dire, con una così non è che proprio ci si fidanzi no? Un attimo prima era col nano, bisogna tenerlo presente. E, insomma, capisci, ce n’è un po’ per tutti credo.”

Parcheggiammo il motorino sul marciapiede ed entrammo nel bar. Il ronzare ubriaco dei vecchi s’interruppe per un’occhiata e poi tornò alle carte e al vino; dalla stanza sul retro grida eccitate di ragazzini inseguivano il cigolio delle stecche di un calcio balilla. Mi tolsi lo zaino di spalle e lo passai a Marco.
“Riempi questo di birre va.”
Il barista ci guardò di traverso.
“Nello zaino. Finchè ce ne stanno. In bottiglia.”
“Non saranno troppe?”, chiesi.
“Mah, quante vuoi che ce ne stanno? Sei, sette? A male non le facciamo andare.”
“Ho solo Moretti in bottiglia.”
“Sisi butta dentro. Oh, un po’ di sconto. Clienti da generazioni.”
Marco alludeva a suo padre, che era stato uno degli ubriaconi leggendari di Fruttuaria, uno di quelli che quando passava per strada la gente era tutta un bisbiglio: occhi bassi, parole sottili come spine.
Il barista infilò la settima bottiglia nello zaino e disse ventimila.
“Cazzo, oggi ne lasciamo tanti a morire di sete eh?”, ridacchiò Marco.
Io tirai fuori quindicimila e lui cinque perché metteva già il motorino e la miscela. Sollevai lo zaino pieno e uscendo dissi che con i soldi che mi restavano, per quella settimana potevo anche chiudermi in casa.
“Perché? Tanto dove volevi andare?”, disse Marco.

Alice ci accolse tutta sorrisi e bacetti e “Che bello rivederti così presto” e “Uh e hai portato anche il tuo amico” e “Dai entrate, non state lì impalati”. Nonostante il naso adunco, il mento affilato e quegli spaghetti di capelli secchi e un poco sporchi, io non la trovavo male nemmeno di viso: sarà stato che s’accendeva di risate a ogni nostra idiozia, saranno stati gli occhi grandi e lucidi come specchi. Fece strada e noi diligenti la seguimmo. Marco mi pungolò col gomito e disse sottovoce:“Cazzo che casa! Cazzo che casa!!”
Mi guardai intorno per la prima volta da quando ero entrato: da fuori c’era sembrata la classica villetta sbocciata tra uno svincolo dell’autostrada e i campi d’erba secca, una delle tante in quelle zone di confine tra un paese e l’altro, ma dentro… Non esistevano stanze, il pianterreno era un unico spazio grande quanto la navata di una cattedrale e ovunque guardassi m’abbagliava un luccicare d’acciaio e vetro.

“Hey! Oh! Let’s go!”, canticchiò Marco.
“Volete qualcosa da bere?”, chiese Alice.
“Ah, ti abbiamo portato una scorta”
Marco indicò lo zaino sulla mia schiena; cominciava a pesarmi e avevo l’impressione che le gocce di sudore sfrigolassero sulle spellature. Ci spostammo sul retro della villa, Alice lasciò aperta l’enorme porta finestra, un refolo d’aria gonfiò le tende alle nostre spalle. Feci qualche passo sul pavimento in cotto, Alice saltò sul dondolo sistemato a bordo piscina e ci invitò accanto a lei. Marco era immobile.
“Hollywood”, lo sentii dire.
Alice ci prestò due costumi di suo padre: a me toccò un vecchio paio di boxer beige, di quelli senza neanche il cordino da stringere in vita, ma Marco fu più sfortunato con una mutanda in lycra bianca che evidenziava tutto.
“Cazzo dovrei essere John Holmes per fare bella figura!”
Cercò lo scambio e il mio rifiuto fu irrevocabile: “E poi sono troppo larghi, si vede che il papà è ingrassato”, mi giustificai.
Lei si presentò con un bikini verde fluo che ci fece deglutire fino all’ultima goccia di saliva.
“Andiamo, andiamo!”, urlò facendo schioccare gli elastici dei nostri costumi.

Ci tuffammo in piscina e Marco non fece una bracciata, restò con la schiena appoggiata alla parete, nell’estremità in cui si toccava, vicino alla scaletta. Un mezzobusto ossuto e rosso, gobbo come un condor. In una mano la birra, nell’altra la sigaretta, schiuma di cenere a pelo d’acqua.
Trattenni il respiro e andai sotto, mi avvicinai alle gambe di Alice e la tirai giù trascinandola per una caviglia: il suo strillo mi attraversò come un sospiro; tornai a galla strusciandomi contro il suo corpo, la strinsi per i fianchi, con le labbra le sfiorai il petto.
“Scusa – dissi – Attenta a non affogare”.
“Stupido”, disse con un sorriso.
“Nikki, stai lì impalato tutto il giorno?”, urlai a Marco.
“Ti sembro uno che si vuole stancare?”
“Te la fai una gara d’apnea?”
“Ho i polmoni a puttane da quanto fumo.”
Mi staccai da Alice e nuotai verso Marco.
“Tutto ok?”
“Cazzo! Mi bevo la mia birra. Mi godo ‘sto posto. Quando mi ricapita.”
“La lasci da sola.”
“Ci sei tu.”
Alice ci raggiunse.
“Ragazzi! Gara! Faccio io da giudice.”
Marco fece una smorfia, appoggiò la birra sul primo piolo della scala, diede un ultimo tiro di sigaretta e la spense sul bordo della vasca.
“Non può essere una cosa alla pari.”
“Fumo anch’io come un disperato.”
“Ho nei polmoni almeno due anni di catrame più di te.”
“Su ragazzi, qui davanti a me. Stiamo dove si tocca. Mettetevi uno di fianco all’altro. Oh che bei costumini! Al mio via andate giù. Un bacio per chi vince. Un bel respiro….Pronti??? Via!!”

Ci inabissammo sollevando schizzi d’acqua che sfumarono sopra le nostre teste in sassate di cerchi concentrici.
“Uno…”
Guardai Marco: le guance gonfie da rospaccio, convinto di poterci trattenere una scorta d’ossigeno.
“Due…Tre…”
Guardai Alice: le gambe e il ventre, quell’ombra sotto il costume e poco più in basso le grinze del tessuto sul piccolo solco.
“Quattro…”
Del resto del suo corpo fuori dall’acqua mi suggeriva l’esistenza solo il riverbero della voce.
“Cinque…Sei…”
Marco richiamò la mia attenzione sfiorandomi una spalla, allungò una mano verso le gambe di Alice, sollevò il medio e finse d’infilarglielo. Potevo resistere ancora per un pezzo. Avrei potuto nuotare fino all’altro capo della piscina e tornare indietro senza sforzo.
“Nove…”
Marco invece sembrava un rospo con un petardo infilato nel culo.
“Dieci…”
Una colonna di bollicine spumeggiò verso la superficie e Marco saltò fuori dall’acqua come se il petardo fosse improvvisamente esploso. Attesi qualche secondo prima di riemergere, giusto per marcare la mia superiorità.
“Vinto!!”, Alice mi abbracciò e alzò il mio braccio al cielo.
“Il premio”, le ricordai.
Lei non disse nulla, spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli bagnati che le ricadeva sul viso e la faceva più carina, mi saltò al collo e mi appiccicò un bacio sulle labbra; una punta di lingua si affacciò tra i suoi denti e si spinse oltre i miei, provai a ricambiare ma il serpentello si ritrasse prima che potessi accarezzarlo.
“Contento?”
“Mai di più”, dissi io, e rimasi mezzo stordito a fissare le gocce d’acqua che scivolavano sulla sua pelle.

Marco s’era seduto sulla scaletta: le braccia incrociate sulle ginocchia, il capo chino, i lunghi capelli stretti in una coda lasciata a sgocciolare.
“Non è che te la sei presa?”
“Vince chi vince. Non eravamo pari. Ma poi chi cazzo se ne frega.”
Aveva rialzato il capo e agli angoli degli occhi e della bocca risaltavano quelle crosticine gialle che, nel periodo che andò all’incirca dalla seconda elementare alla seconda media, gli erano valse il soprannome di “caccolone”.
“Alice, mi vai a prendere un’altra birra? Una di quelle che hai messo al fresco”, chiese.
Alice si avvicinò alla scaletta, Marco si alzò per farla passare e quando gli fu vicina le diede una gran pacca sul sedere.
“Ehi!”, protestò lei, ma seguì una risata che avrebbe convinto chiunque a inseguirla e strapparle il costume di dosso. Marco tornò a sedersi.Appoggiai le mani sul bordo della piscina, mi issai fuori dall’acqua e rimasi supino, gli occhi chiusi i piedi ancora a mollo, a godermi l’ultimo tepore pomeridiano.
“Sarà meglio uscire di qui prima di marcire”, disse Marco. Usciti dall’acqua Alice ci diede il permesso di fare una doccia.
“Solo se ci tieni compagnia”, disse Marco, ma lei esibì il suo solito sorrisetto e, raccolto un asciugamano da una pila immacolata, uscì dal bagno. Io e Marco facemmo la doccia a turno e poi ci rinfilammo jeans e t-shirt impregnate di sudore.

Marco sarebbe voluto tornare in paese, ma Alice ricomparve sulla soglia: indossava un corto vestitino azzurro e avrei giurato fosse senza reggiseno.
“Rimanete ancora un po’? Guardiamo un film?”
Ci svaccammo sul divano di fronte alla tv. Mi intimoriva quella casa senza muri, dai soffitti altissimi, ero abituato a cascine, ad alloggi popolari, al loro mobilio laccato di muffa. Alice sedeva al centro tra me e Marco, teneva le ginocchia piegate di lato e i suoi piedi premevano contro le mie cosce. Staccai gli occhi dal film e sbirciai: l’orlo del vestito si sollevava sulle natiche scoprendone la curva bianchissima. Le accarezzai le caviglie scendendo lentamente verso i piedi. Prima di allora mai avevo considerato eccitanti parti del corpo femminile sulle quali non si concentrassero gli sguardi storti di noi ragazzi: “Che tette, che culo”. Ora mi eccitavo per quel tendersi e distendersi di ossa e tendini, la pelle calda nella mia stretta.
È in questo che c’è la scena dello zombie col carrello della spesa?”, domandò Marco.
“Fra un po’ si barricano in un supermercato”, risposi io.
“Quella scena lì mi piace un casino. Però li confondo tutti ‘sti film di zombie. Vai a sapere quanti ne ho visti.”

Lasciai la presa sul piede e risalii lungo i polpacci, senza farsi notare Alice accompagnò la mia mano tra le sue cosce: appena sotto il confine del perizoma, così vicino a qualcosa a cui mai ero arrivato prima. Per quanto fossi eccitato avevo paura d’ingelosire Marco. Lo conoscevo così bene da riconoscere il tono acido, le parole cattive sputate da un angolo della bocca.
“Ahhh!”, sfilai la mano dalle cosce, neanche mi stessero mordendo, e mi levai la t-shirt lanciandola contro la tv.
“Che c’è, che succede?”, chiese Alice quasi spaventata.
“Si starà trasformando”, disse Marco.
“La schiena, la schiena!”, riuscii a smozzicare mentre mi raschiavo contro la pelle del divano. Le scottature sulla mia schiena gridavano come l’avessero irrorate di sale.
“Cazzo quanto bruciano!”
Alice s’alzò dal divano, si chinò su di me e raccolse le mia mani tra le sue.
“Su girati e fammi vedere. E smettila di grattarti che è peggio.”

Obbedii. Lei mi posò una mano sulle spalle e con l’altra attraversò la schiena soffermandosi sulle zone lessate; le dita sollevate un nulla dalle ferite più minaccia che sollievo. Nonostante il prurito riuscii a rimanere fermo.
“Ma quand’è che ti sei combinato così?”, chiese.
“Ieri pomeriggio s’è addormentato al fiume”, rispose Marco.
“Davvero? – Alice trattenne il sorrisetto – Vado a vedere se ho qualcosa per le ustioni”, disse, e corse su per le scale.
“Devo aver peggiorato la situazione in piscina.”
Raccattai la t-shirt da terra e la strinsi al petto. Marco non distoglieva lo sguardo dal massacro degli zombie. Il velo sui suoi occhi era lo stesso che ricordavo nel padre quando, tornato a casa dal giro dei bar, ci sorprendeva in cortile, tra la ghiaia, a far rombare trattori di plastica.
“Che hai?”
“Io niente, tu?”
Non risposi. Stropicciavo la t-shirt tra le mani senza decidermi a infilarla.
“Sei saltato su come se ti avesse morso uno di ‘sti zombie.”
“Ho dimenticato la protezione. Va a sapere: il sole, il cloro, cazzo ne so.”
“Eh già.”
“Trovatoooo. Vieniiii!”
È il segnale. Ti tocca”, disse Marco. Sollevò dal pavimento l’ennesima Moretti e diede un lungo sorso.
“Sicuro?”
“Finisco il film.”
Aspettai ancora, il cuore mi rimbombava tra le gambe.
“Ce n’è per tutti no?”, azzardai.
“Oggi non sembra.”

Alice aveva scovato mezzo flacone di crema doposole in uno scomparto del bagno del secondo piano, mi aveva accompagnato nella sua stanza e fatto sdraiare sul letto. Le sue mani impiastrate di crema non erano più una minaccia ma una benedizione scesa a graziare la mia schiena.
“Ecco, così. Non ti senti già meglio?”
“Molto meglio”, dissi.
Aspettavo il momento giusto per passare a qualcosa di più concreto, ma il pensiero di Marco libero e alcolico al piano di sotto mi impediva di rovesciarla sul letto e saltarle sopra come immaginavo si dovesse fare. Attesi che finisse il massaggio, dalla mia posizione a pancia in giù scrutavo la camera: appesi alle pareti un poster di Axl Rose, uno di Tommy Lee, uno degli Iron Maiden al completo e uno con Eddie, lo zombie dei Maiden, che si sporgeva verso l’osservatore brandendo una bandiera sudista. C’era anche una specie di bacheca dentro la quale erano appuntate foto e ritagli di giornale. Riconobbi occultate tra le solite chiome al vento le facce paesane degli 883. Sulla scrivania e accanto a me sul letto, confinati sulla sponda stretta contro il muro, sopravvivevano peluches di varia forma: conigli, orsacchiotti, un paio di gatti. Sedute sugli scaffali della libreria quattro Barbie invecchiate.
“A posto – disse scordando una mano sul mio fianco – Adesso aspettiamo che si assorba un po’”.

Ma io mi alzai, l’afferrai per un polso e non ci fu bisogno di trascinarla a me che scoprii il gusto Big Bubble delle sue labbra appiccicate alle mie. Successe tutto troppo in fretta: desiderai di palparla e già le mia mani arrembavano le sue tette, m’infastidiva il suo vestito e lo scorgevo appallottolato ai piedi del letto, il suo corpo sotto il mio. Le nostre lingue s’annodavano scioglievano e riallacciavano in modo così naturale da credere che avessi passato l’adolescenza a limonare in giro.
“Ooh”, riuscì a mormorare appena le concessi un respiro.
“Ti piace?”, chiesi come uno stupido.
“Certo.”
Scesi dalle labbra al collo e mi appassionai con un succhiotto. Mi sollevai sui gomiti per ammirare meglio quelle tette che straripavano dalle mie grandi mani contadine; le accarezzai i capezzoli e li sentii fiorire tra le mie dita, chinai il capo per succhiarli. Non esisteva più nulla che non fosse tra le mie mani e nella mia bocca piena di un sapore strano, una nausea che non smettevo d’ingoiare: pelle, saliva e cloro.

Bum!! Il colpo fece vibrare la porta della stanza e io e Alice ci separammo in un salto.
“Ehi! Smettetela di fare i porci. Il film è finito, qualcuno è rimasto vivo, ma credo che gli zombie conquisteranno il mondo.”
Alice si coprì il seno con un braccio, io le feci segno di restare in silenzio, infilai la t-shirt e mi avvicinai alla porta.
“Che è, avete le bocche troppo impegnate per parlare?”
“Esco, esco.”
Aprii la porta quel poco per permettere a me di sgusciare in corridoio e a Marco di non sbirciare.
“Di già geloso eh? Appena l’hai vista e la metti sotto chiave. Bravo”, disse col suo ghigno da bar.
“Che faccio adesso, volete che vi prepari la cena?”
“Cazzo dammi un po’ di tempo no?”, dissi, col tono da amico che chiede un favore.
“Oh sì, tutto il tempo che serve. Non l’ha ancora data?”, temevo che da un momento all’altro m’avrebbe spaccato la testa contro la porta ma non fece nulla, mi voltò le spalle e scese le scale:“Senza fretta, mi raccomando”, gridò.

illustrazione apnea

Rientrai in camera e vidi Alice nuda e bianca come un brivido. Una nuvola da temporale le preoccupava il viso, aveva gli occhioni spalancati e le labbra schiuse e smunte sotto il becco del naso; il mento puntato verso l’esterno, tanto aguzzo da aprirti uno sbrego. Scostai il braccio che le nascondeva il seno.
“Aspetta”, disse.
“Che c’è?”
“Marco.”
“Eh.”
“Sarà pericoloso?”
“Di solito no. Non troppo. Hai paura?”
“Mmh…”
“No, niente paura”, dissi, e la baciai e l’accarezzai con quanta più delicatezza possibile.

Ci rotolammo nel letto e ricominciai coi giochetti di bocca in attesa dell’affanno che l’avrebbe lasciata senza perizoma.
“Aspetta aspetta aspetta!!”, s’affrettò Alice trattenendo lo strappo, un sorrisetto per addolcire.
“Non ti piace?”
“Nooo figurati, sì che mi piace e cheeee…”
“Che?”
Mise su una faccia seria e ingenua, come certi pessimi studenti quando s’accorgono di conoscere le risposte dell’interrogazione.
“Per quello bisogna mettersi insieme…”
“Ah, e ti metteresti insieme a me?”
“Mi piaci tanto”, sussurrò accarezzandomi il petto.
Mi abbandonai sul suo corpo, la baciai sulla fronte, sugli occhi e, piano, sulle labbra.
“Mi piaci tanto anche tu.”
Senza staccarmi da lei, cominciai a sbottonarmi i jeans. Mi vorticavano per la testa scene in cui Marco e il nano degli Speed Demons la palpavano e la leccavano, annusavo i loro aliti scuri di sigarette e catarro, la faccia butterata di Marco a un filo dalla mia, il suo ghigno peggiore:‘Bella scelta di fidanzata, davvero!, mi vedevo poi con Alice per le strade di Fruttuaria, la sua mano che cercava la mia nascosta in tasca; le risatine e le battute dei ragazzi al nostro passaggio.
“Non avere fretta”, disse dolce.
“Scusa.”
Non ce la facevo più. Mi diedero speranza le sue braccia più strette sulla mia schiena. La piacevole nausea che mi aveva allagato la bocca stava cambiando in disgusto.
“Stai con me”, sussurrò.
“Si, sempre con te”, sospirai, e quasi credetti alle mie parole.

Bum!! Un nuovo colpo sulla porta questa volta non bastò a dividerci. Alice sbuffò.
“Solo una cosa, solo una cosa e poi non disturbo più. Vi lascio fare le vostre maialate con calma. Solo un attimo.”
Mi scusai con Alice, mi alzai dal letto, raccattai i pantaloni e di nuovo sgusciai in corridoio da uno spiraglio della porta.
È già senza mutande vero? Non vuoi farmi guardare… Guarda che so già abbastanza però eh”, disse Marco. Gli occhi due fessure e un sorriso largo così che gli mangiava mezza faccia.
“Che volevi dirmi?”, chiesi scazzato. Teneva tra le mani lo zaino con cui avevamo trasportato le birre.
“Vieni, ti faccio vedere una cosa.”
Ci spostammo di qualche passo lungo il corridoio e ci fermammo davanti alla porta del bagno.
“Ho pensato di fare un po’ di scorta. Guarda qui”, disse tutto goduto.
Aprì lo zaino sotto il mio naso. All’interno erano stipati un mucchio di cd e vhs, tutti con custodia originale. Rialzai lo sguardo su Marco e doveva essere lo sguardo di una bestia, perché indietreggiò di un passo.
“Che cazzo combini?!”, sibilai. Marco rise.
“Ma chi cazzo vuoi che se ne accorga. Secondo me manco sanno di avere tutto quello che hanno.”
E ridacchiò di nuovo.

Ero abbastanza alterato da potergli saltare al collo, ma non abbastanza forte da poterlo bastonare una volta che si fosse alterato anche lui. L’immagine di Alice nuda nell’altra stanza mi attraversò la testa veloce come una cometa.
“Marco devi rimetterli a posto. Merda. Ci possono pure denunciare se gli gira!”
“Eh sì, sai quanti ne passano da qui tutti i giorni?” E rise un po’ più forte.
“E non farci sentire!”
“Paura che non te la dia più?”
“Già non me l’ha data.”
“Allora, guarda, facciamo così: tu ti prendi tutto il tempo che ti serve ok? Io faccio ancora un po’ di giri. Intanto datti da fare però. Non deludermi.”
Rientrai e chiudendo diedi un giro di chiave.
“Tutto a posto?”, chiese Alice.
“Se l’è presa.”
“Mi spiace.”
“Niente…Lo sapevamo.”
Mi slacciai i jeans e li scalciai via, mi levai i boxer e nudo mi avvicinai ad Alice seduta sul letto.
“Ehi…”, disse, e abbozzò un sorrisetto che non ne voleva saper di starle in posa. Le saltai addosso, le strappai il perizoma e le spensi la voce ficcandole la lingua in gola. Le sue mani si irrigidirono sui miei fianchi, le infilai una mano tra le cosce e l’accarezzai. Rimanemmo avvinghiati come due lottatori incapaci di cedere alle prese dell’avversario.
“Ti prego Alice…”, mormorai.
Ora le sue mani sudate incorniciavano il mio viso.
“Prometti.”
“Quello che vuoi.”
“Un’altra cosa…”
“Cosa?”
“È la prima volta?”
“Sì.”

Fu una cosa veloce e complicata. Ci volle un tempo che sembrò infinito solo per orientarmi e, per tutto il quarto d’ora successivo, nel tentativo di non pensare a ciò che stava succedendo, mi canticchiai in testa Headhache di Frank Black che era la mia canzone preferita dell’epoca. Ebbi la sensazione di schizzare sul suo stomaco, oltre all’orgasmo, un pezzo della mia anima.
“Hai uno sguardo così triste…”, disse Alice sollevando la testa dal mio petto.
Soffrivo la sua tenerezza come un insulto.
“Davvero?”
Lei annuì.
“Non è possibile essere tristi oggi.”
Raccolsi i jeans da terra e frugai nelle tasche, le offrii una sigaretta e fumammo in silenzio, osservando le volute di fumo salire stanche verso il soffitto e dissolversi prima di raggiungerlo. Stavo di nuovo pensando a Marco, al casino che aveva combinato.
“Puoi tornare domani, se vuoi.”
“Certo.”
Alice s’allungò per darmi un bacio che non desideravo, i capelli le scivolarono oltre le spalle e mi solleticarono il collo e il viso. La guardai, scrutai la sua faccia da topo. Mi sembrava la ragazza più triste del mondo.
La salutai di fretta. Mi ricaricai il pesante zaino sulle spalle – avrebbe dovuto essere leggero, i vuoti delle birre rotolavano lungo il pavimento della villa – e raggiunsi Marco che aveva già messo in moto. Non avevamo fatto un chilometro che Marco imboccò uno sterrato e accostò.
“Passami lo zaino che ti faccio vedere.”
Glielo allungai senza dire mezza parola.
“Vieni che ti faccio vedere il tesoro…Il tesoro dei pirati.”
Tirò fuori i cd e i vhs e li dispose con cura tra l’erba.
“Tanto per cominciare Zombie me lo sono portato via, poi Suspiria, che non l’ho mai visto. Bon, per i film bastavano ‘sti due che il resto era roba tipo Pretty woman. Chissà chi è che si è comprato gli horror in famiglia. Vediamo i cd, che li ho ragnato alla grande e nel mucchio qualche cazzata mi sa che ci è scappata. Comunque. ‘Live after death’ dei Maiden è una perla che chiunque ascolta musica seria non può non avere. Eh, cazzo, l’avessero avuto in vinile si che era una bomba, con quella copertina…Niente vinili però, ho cercato dappertutto, se li avevano li hanno imboscati bene. Ah, guarda un po’? I Guns: ‘Use your illusion 1 e 2’. Si, i Guns sono una commercialata ormai, ma regalati mica ci sputo sopra…”
Mi allontanai di qualche passo per pisciare mentre Marco proseguiva con le sue chiacchere.
“Ah, certo, una bella pisciata dopo ci sta.”
Mi stavo riallacciando i pantaloni quando Marco mi fece rabbrividire.
“Lo vuoi vedere il capolavoro? Dai vieni a vedere, non fare l’incazzato.”
Mi riavvicinai, Marco infilò mezzo braccio nello zaino e rovistò sul fondo.
“Stai pronto eh…”
Lo guardai sfilare il braccio. Lento. Non era un cd e nemmeno una videocassetta, era qualcosa che riusciva a tenere stretto nel pugno. Lui invece mi guardava con occhi che erano due gocce di bile.
“Non ti devi incazzare eh? Non vale se t’incazzi”
“Apri la mano, Marco.”
“Quale? Destra o sinistra? Ahahahah….Indovina?”
E dal pugno destro dov’era stretta la cosa affiancò il sinistro.
“Non fare il coglione, apri la mano. La destra, dai!”
“Bravo, indovinato!”
Ruotò il palmo verso l’alto, liberò il segreto dal pugno. Non poteva che essere un oggetto della villa, l’avvolgeva lo stesso luccicore. Un anello.

Pochi giorni dopo Marco venne scoperto. Messa sotto dai suoi genitori, Alice raccontò di quel pomeriggio. Marco restituì l’anello e gran parte dei cd e delle vhs. Giurò di essere stato da solo. Per un po’ non mi feci più vedere in giro. Nessuno mi venne a cercare. Ogni tanto prendevo la bici e scendevo al fiume. Una nuova voglia mi spingeva a pedalare per chilometri e camminarne altrettanti; battevo le spiaggette passo a passo con la stessa vergogna che avevo provato per Marco solo poco tempo prima. Una volta incrociai Claudia Boschi e mi presentai col tono più basso e confidenziale che la mia voce tutta stoni si potesse permettere.
“Non hai compagnia?”
La sua compagnia aveva un Honda Nsr nuova di pacca e se la portò via prima che lei mi ridesse in faccia. Quando pedalavo lungo i sentieri più nascosti – veri e propri squarci aperti tra il fogliame, percorsi da indovinare sull’increspatura dell’erba e rovi e ortiche ad abbracciarmi le caviglie ad ogni spinta – urlavo con tutta la forza che avevo in corpo. Urla feroci, assassine. Urla di animali sconosciuti. Nessun eco restituiva la mia voce.

Testo Davide Franchetto
Immagini Bernardo Anichini

 

 

 

 

 

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