Ci sono giorni in cui arrivo a immaginare di riavere il mio lavoro e tornare dove sono stato. Ma cos’era questa vita di ieri? Non succedeva nulla di eccitante. Niente.
I colleghi erano mediocri e ipocriti. Tutti uguali. E avrei dovuto lavorare con quelle teste di cazzo per il resto della mia vita? Da quando sono arrivato qui nessuno mi cerca più. Né la famiglia né un amico. Nessuno. Solo come un cane bastardo.

Infilo le scarpe. Esco dalla stanza e il corridoio è deserto. Una luce anemica scende dal lucernario sul soffitto. Non sento alcun rumore dalle altre stanze a eccezione dello sciacquone sgangherato di un cesso. Nell’ingresso c’è una piccola e vecchia scrivania di legno tarlato, ricoperta di documenti impilati, block-notes, agende e dépliant disposti con morbosa precisione. Costituisce il mobilio di una sorta di banco ricezione ricavato in un angolo morto. Do un’occhiata intorno in cerca del tenutario di questa stamberga, un tizio esile e coi baffi, di origini siciliane, che non fa altro che parlare male del sud e dei meridionali e vantarsi degli espedienti che mette in opera per un’efficiente raccolta differenziata.
Adesso pare si sia allontanato. Esasperato dagli sprechi, sarà da qualche parte per portare a compimento uno stratagemma per scongiurarli e risparmiare sulla bolletta della luce o dell’acqua. È ossessionato da queste cose. Non c’è nemmeno la figlia, una ventenne alta, magra, acconciata da punk anni ottanta. Di nome fa Carlotta. Che tenerezza che fa.

Esco sul pianerottolo. L’ascensore non arriva fin quassù, ma si ferma due rampe sotto. Scendo a piedi. Il rumore dei mie passi rimbomba sulle pareti vetuste dell’edificio. Del resto, non si sente fiatare nessuno. Non è un palazzo, ma un enorme tumulo. Un sepolcro imbiancato.
Esco in strada tirandomi dietro il grande portone di legno alle mie spalle. Si schianta con un botto che sveglia l’intero quartiere. Il cielo è di un colore infame. Carico di nubi oscure. La luce rarefatta.
La via declina dolcemente e mi lascio trasportare dalla pendenza.

Dall’ampia vetrata di un bar proviene una luce radiante. Candida e abbacinante. Uno spazio immenso e isolato. C’è un grande bancone di legno scuro dalla forma bizzarra, con alcuni sgabelli alti dal sedile tondo. Dietro il bancone si muove un tipo allampanato. Indossa un vestito color panna. In testa un berretto dello stesso colore da cui fuoriescono alcune ciocche di capelli biondi. Alle sue spalle l’armamentario luccica. Brilla come fosse nuovo di zecca.
Entro e prendo posto su uno sgabello al bancone. Davanti a me è appoggiato un aggeggio di plastica con dentro tovaglioli di carta estraibili, e un contenitore per lo zucchero. Ordino un cappuccino e due paste. Una alla crema, l’altra al cioccolato. L’uomo mi serve con professionalità e rigore. Un tipo silenzioso e riservato. Per un attimo invidio la sua vita ordinaria e regolata. Sorseggio il cappuccino. È bollente, come piace a me.

Sono ancora a disposizione dell’Agenzia. La situazione è complicata, mi domando come farò a cavarmela d’ora in poi se non trovo subito un altro lavoro. Un posto.
All’altra estremità del bancone, seduti sugli sgabelli, ci sono un uomo e una donna. Lui ha gli occhi bassi, la testa immersa in chissà quali pensieri e preoccupazioni. Indossa un completo scuro. La camicia azzurra con la cravatta. Elegante ma sobrio. Lei osserva un piccolo oggetto, un cellulare, alla ricerca di qualcosa che non va.  Ha la pelle chiara, una chioma rossastra e folta. L’acconciatura ha perso di tono, il trucco le appesantisce i lineamenti. Non riesco a distinguere il colore delle pupille e, non so perché, immagino abbia gli occhi verdi. Indossa un vestito rosso scarlatto a maniche corte. Siedono silenziosi. Hanno appena preso un espresso. Il barista si avvicina e passa un panno umido sul bancone lucido davanti a me. Si volta a guardarli, poi mi osserva.
“C’è una crisi devastante”, sussurra.
“I giovani sono senza lavoro, ma anche padri di famiglia sono col culo per terra. Una montagna di debiti da onorare. Però è strano, quando cerco spiegazioni nessuno riesce a darmi un rendiconto preciso. Solo indicazioni vaghe su fantomatiche bolle finanziarie legate al mercato immobiliare statunitense. Mutui non pagati. Fondi d’investimento ad alto rischio e rendimento”.
Mi fissa, poi per un attimo guarda fuori della vetrina.
“Ma se il denaro, la ricchezza, non si crea e non si distrugge ma si trasforma, adesso in che mani sarà? Nessuno sa dirmelo!”
E via imprecazioni contro la corruzione e la dabbenaggine della classe politica. Lei cosa ne sa? Sembra domandarmi. Non saprei cosa dire.

“Niente spiegazioni. Niente che possa individuare il nodo dei problemi per poterne individuare le cause. L’origine. E trovare soluzioni reali. Navigano a vista. Un’intera società, un intero paese che naviga a vista”, dice.
“Da più di vent’anni almeno. Senza memoria. Senza forza. Abbandonati nel bel mezzo dell’oceano con la bonaccia. Moriremo per inedia, di questo passo.”
Riprende fiato.
“L’unica sarebbe tornare alle urne, ma non si decidono – dice – e forse non servirebbe a nulla lo stesso!”
Accendo un sorriso di circostanza. Il barista ripone il panno umido con un gesto di stizza e si allontana. C’è una porta gialla dietro cui scompare in un istante. Una sorta di magazzino delle scope, immagino.

La donna intanto sta confidando all’altro che si è avvicinata all’occultismo.
“Ho conosciuto un uomo che riesce a evocare gli spiriti dei defunti. Ho visto apparire la mano di un morto sul tavolo proprio davanti ai miei occhi, roba da mettere i brividi”, rivela.
“La bravura del medium consiste nel gestire l’evocazione, fermarsi al momento giusto ed evitare di andare troppo oltre col rischio di evocare una qualche entità malefica o il diavolo!”
Lascio pochi spiccioli sul bancone e me ne vado. Prendo la strada per il mare.
Ricevo un messaggio dall’Agenzia. Mi hanno fissato un altro colloquio.

Testo: Giovanni Marchese
Immagine: Margareta Nemo

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