Non lo noti la prima volta che visiti l’appartamento, sei troppo preso a controllare i serramenti, i sanitari, eventuali macchie di umidità sui muri o negli angoli. E non ci fai caso neanche la seconda e la terza volta, perché più si avvicina la firma del contratto e più temi sorprese sgradevoli, quindi ti guardi in giro, sospettoso, il contatore del gas, le prese elettriche.
Alla fine versi caparra e anticipo. Firmi carte, ricevi le chiavi.
Non hai ancora cominciato a sentirla casa tua, giri per le stanze come uno che sta cercando la posizione più comoda. Tiri su le tapparelle, vai sul balcone – spazioso, ha detto l’agente immobiliare, vivibile, ha detto – ti accendi una sigaretta, ed eccolo che appare.

Dall’altra parte della strada c’è un palazzo dalla forma irregolare.
Sei piani, per ognuno un terrazzo di dimensioni variabili, alcuni avviluppati da cascate d’edera, altri nascosti dietro a un muro di verde così compatto – piante, arbusti e veri e propri alberi – che ti chiedi come faccia la luce a penetrarlo e a illuminare gli appartamenti.
Sembra una scheggia che si è staccata da un pianeta ricoperto di vegetazione, e precipitata lì, davanti alla tua nuova casa.
Fumi e ti chiedi come sia possibile che in un condominio vivano solo fuoriclasse della botanica. Non c’è nessuno, in quel palazzo, che con le piante non ci sappia fare, che si dimentichi di bagnarle, che le trascuri, che le faccia appassire.
Passano i mesi, l’appartamento sta iniziando ad assomigliarti. Pieno di roba, disordinato, tuo. Una notte esci per l’ennesima sigaretta sul balcone. Il segreto del palazzo delle piante nel frattempo lo hai scoperto, e ha un nome che fa sz sz sz.
Sz sz sz, il rumore degli irrigatori automatici che ogni notte, in qualsiasi stagione, si prendono cura dell’esoscheletro vegetale del condominio, che lo mantengono vivo, organismo ibrido di corteccia e cemento e acqua e foglie.
Anche adesso, sz sz sz, sono in funzione.
Fumi e guardi le piante inscheletrite sul tuo balcone, che al contrario delle dirimpettaie non hanno più nulla di verde.
Il rumore ovattato del traffico notturno, e loro sz sz sz. Un quarto di luna, sz sz sz. Una voce che grida aiuto, sz sz sz. Aiuto, dice la voce, aiuto.
Ti sporgi dal balcone, guardi a destra, guardi a sinistra, la strada sotto casa è deserta, continui a sentire la voce. Minuta, una bambina, anzi no, una persona anziana.
Aiuto, dice, aiuto. Dai l’ultimo tiro alla sigaretta. Proprio quel che ci voleva, pensi, il mistero della vecchia invisibile. Pantaloni della tuta, scarpe da ginnastica, esci.

È la fine di un febbraio molto freddo, il fiato che ti esce dalla bocca sembra fumo. Aiuto, aiuto, e tu segui la voce, la sagoma del palazzo delle piante che si avvicina, sembra chinarsi, ti sta per inghiottire.
Ed è lì che finalmente la vedi, nell’atrio all’aperto del condominio, tra i piloni che sostengono l’intero edificio.
“Signora, tutto bene?”, dici.
Ti guarda come si guarda il nulla. Un poltergeist in ciabatte, le gambe che spuntano dalla vestaglia chiara come rami secchi. Sulle vostra teste, è proprio per evitare i rami secchi che gli irrigatori fanno sz sz sz. “Signora, che ci fa qui fuori a quest’ora?”
“Aspetto la polizia – dice la signora – Sono andati via ma hanno detto che ritornano. Adesso ritornano. Li sto aspettando. Li aspetto qui”.
“Senta – rispondi  – sono le tre di notte e fa freddo. Che ne dice di farmi entrare? L’accompagno a casa e aspettiamo lì la polizia”.
Naturale che non si fidi, pensi.
“Le apro”, dice invece lei, ma non si muove di un passo.
“Signora, se non riesce a venire qui né a premere il pulsante per aprire il cancello, almeno mi lancia le chiavi così entro? Ce la fa a tirarmi le chiavi? Ce le ha in mano, signora, le chiavi, me le lanci.”
Naturale che non si fidi, pensi. Lancia le chiavi. La mira è buona, la forza scarsa.
Il mazzo di chiavi atterra a metà strada esatta tra te, ancora dietro le sbarre della cancellata che circonda il condominio, e la vecchina, che alla parabola delle chiavi sembra non aver fatto caso.
“Porca puttana”, e questo lo dici piano, come se facesse qualche differenza quel che dici.
“Signora, vive con qualcuno? C’è qualcuno, su in casa?”
O almeno, pensi, c’è qualcuno da qualche parte che abbia idea di che cosa fare?
“Mi dice come si chiama di cognome che provo a suonare il campanello?”, dici.
“Sto aspettando la polizia”, dice la vecchina.
Tu dietro le sbarre. Gli irrigatori, sz sz sz. Le chiavi irraggiungibili, sia per te sia per lei. Stallo alla messicana nel freddo di fine febbraio. Uscendo non hai neanche preso la giacca, ti cola il naso, ti bruciano le orecchie. A questo punto realizzi che le possibilità sono due: o prendi e te ne vai, oppure scavalchi il cancello e poi speri di non infilarti in un casino, che non ti diano la colpa per qualcosa, qualsiasi cosa. Effrazione, circonvenzione di incapace, e adesso anche blasfemia, perché mentre scavalchi il cavallo dei pantaloni della tuta si impiglia in una delle sbarre del cancello, e quel bullo del cancello ti dà una violenta smutandata. Atterri scomposto, illeso.
“Oh – dice la vecchina come se ti avesse visto solo adesso – lei è della polizia?”
“No, cioè, faccia conto di sì e lasci che la accompagni a casa”, dici.
Raccogli il mazzo di chiavi da terra e salite le scale.
“Io abito qui al primo piano”, dice la vecchina puntando il rametto di un dito sopra la sua testa, e poi ti sorprende perché sale le scale più veloce di quanto immaginassi, le anche che tendono la vestaglia come oggetti spigolosi sotto un telo, la pelle dei talloni che ti fa venire in mente una di quelle tartarughe esotiche che vivono più a lungo di un uomo.
Davanti alla porta cerchi la chiave giusta – il portachiavi è una specie di medaglietta grande come una moneta da un euro su cui era inciso qualcosa che adesso è illeggibile – e la terza apre la porta.
“Lo sa – sta dicendo la vecchina – lo sa che i suoi colleghi sono delle belle teste dure? Glielo dica quando li vede, delle teste dure”.
Dove cazzo sono andato a infilarmi, pensi, e vedi scorrere film da brivido in cui la vecchina cade e batte la testa, in cui la vecchina a un certo punto inizia a urlare Al ladro, al ladro! svegliando il vicinato, film in cui la vecchina va in pezzi come fosse una statua di cristallo, e tu sei in casa sua, senza conoscerla e senza essere in grado di spiegare cosa ci fai lì.
Indice e pollice si toccano quando la prendi per un braccio con tutta la delicatezza di cui sei capace, e la guidi verso l’unica poltrona del salotto che non sia coperta da un lenzuolo bianco. Si siede, lenta. Qualcosa scricchiola, ma non sai se sia la sedia o qualche sua giuntura. Sospiri, ti guardi intorno. La casa è di medie dimensioni e spoglia.

Pensi che o la vecchina si è appena trasferita lì, e questo potrebbe almeno giustificare la confusione mentale in cui l’hai trovata (in questo momento sta elencando con dovizia di particolari la differenza tra poliziotto e carabiniere, senza chiarire quale dei due pensa che tu sia), oppure c’è un trasloco alle porte.
La vecchina pian piano sembra meno spaesata di prima. Seduta con l’atteggiamento di chi padroneggia l’ambiente circostante, ricomincia a raccontarti tutta la storia dall’inizio, stavolta con un barlume di logica. Dice che verso le due era in camera da letto che si preparava per andare a dormire, e ha sentito un rumore provenire dalla cucina. Dice che è andata a controllare, e la porta della cucina era chiusa a chiave dall’interno. Sola in casa, ha capito che dovevano essere entrati i ladri, e che avendola sentita dovevano essersi barricati in cucina. Allora lei, tenendo d’occhio la porta per controllare che non uscissero, aveva chiamato il 113, e dopo dieci minuti passati con lo sguardo fisso sulla porta della cucina e quasi senza fiatare erano arrivati due bei giovanotti in divisa, che avevano ascoltato, fatto qualche domanda – con aria di sufficienza, a sentire lei – e poi le avevano detto di non preoccuparsi e di tornare a letto, che era tutto a posto e che avrebbero passato qualche ora giù in strada a controllare che i ladri non tornassero. Ma poi lei li aveva visti, nascosta dietro le persiane del bagno, che risalivano sulla volante e se ne andavano come se niente fosse.
“E della cucina cosa hanno detto?”, chiedi.
La cucina? Non sono andati in cucina, perché avrebbero dovuto?
“La porta chiusa a chiave – spieghi – cos’hanno detto della porta chiusa a chiave? Non dovevano esserci i ladri, in cucina?”
Le rughe attorno alla bocca della vecchina si increspano.
“Oddio – dice – ci sono i ladri in cucina, ecco perché la porta è chiusa a chiave”.
Stava riacquistando un po’ di colorito sulle guance grazie al tepore del salotto, adesso torna a sembrare imbalsamata. Artiglia i braccioli della poltrona, spalanca gli occhi, conta su di te.
“Che facciamo?”, dice.
E alla fine, inevitabilmente, chiami anche tu il 113. Per non farle sentire cosa dici, esci sul balcone.
Il pronto intervento ti fa attendere in linea –  buffa contraddizione in termini – e tu ne approfitti per curiosare nei vasi di calcestruzzo sul balcone della vecchina. Riuscire almeno a vederli, gli irrigatori che fanno sz sz sz, sarebbe un modo per addomesticarli, per farli smettere di essere entità aliene che ogni notte sibilano mentre tu dormi, mentre tutti nel quartiere dormono. Niente da fare. Stai tastando con la mano la terra umida che c’è dentro il vaso, e il 113 risponde.
Hai sottovalutato quanto tutto questo sia confuso e difficile da spiegare alla voce annoiata dell’operatore, però ci provi, e dopo l’iniziale scetticismo la voce dice che sta controllando le chiamate ricevute, e che sì, una volante è in effetti venuta all’indirizzo indicato, in seguito a un tentativo di rapina – la voce adesso ha assunto tono e gergo professionale – ma i suoi colleghi non hanno trovato alcun indizio che ci siano state effrazioni né furti.
“Insomma”, dice la voce del 113, adesso col tono basso della confidenza, “insomma – dice – mi sa che la signora non ci sta più con la testa”.
“Non ci crederà ma questo lo sospettavo – dici – però abbia pazienza, adesso io cosa dovrei fare? Mica posso lasciarla da sola, è in stato confusionale e…”
“La metta a letto”, dice la voce.
Sbrigativa adesso la voce, segno che il tuo tempo in linea sta per scadere.
“Cos’è che faccio?”, dici.
“La metta a letto.”
“La metto a letto?”, dici.
“La metta a letto.”
E insomma segui quel consiglio simile a un ordine, e la metti a letto.

Il fatto che fosse già in camicia da notte ti risparmia l’imbarazzo del cambio d’abito. La vecchina sotto le coperte sembra ancora più esile, il corpo di una bambina molto piccola con la testa di un’anziana, come una delle cavie di quel cartone animato giapponese che hai visto ma di cui non ricordi il titolo.
Spegni la luce, ti avvii verso la porta di ingresso, noti di nuovo i pochi mobili, le superfici nude e impolverate dove ti saresti aspettato un esercito di soprammobili – quando la vecchina ti chiama.
È tardi. Hai sonno.
“Che c’è?”, dici, riaffacciandoti nella stanza da letto.
E sbuffi, perché inizi davvero ad averne abbastanza.
“Domani torna?”, chiede la signora.
“Certo”, dici.
Col cazzo, pensi.
Solo che poi la mattina dopo, sabato, di quel col cazzo te ne vergogni un po’, e così dopo colazione ti decidi ed esci di casa.

Il cancello del palazzo delle piante è aperto e dal box della portineria esce un uomo. Rotondo, cammina col braccio destro aderente al corpo, incapace di accompagnare il movimento della gamba opposta. Sembra un poliziotto che corre con la pistola carica come si vede nei film, ma al rallentatore e meno minaccioso perché in mano ha solo un pezzo di plastica simile a un’enorme liquirizia gommosa. Forse nere vene di ricambio per gli irrigatori che fanno sz sz sz.
“Buongiorno – dici – è un po’ difficile da spiegare, ma ieri sera qui fuori c’era una signora che abita nel palazzo, diceva che aspettava la polizia, cioè che prima era arrivata la polizia ma poi se n’era andata…”
Il portinaio alza una mano, ti interrompe.
“Ti ho visto”, dice, poi indica le punte del cancello, e ride ride ride.
Salta fuori che il palazzo è sorvegliato dalle telecamere, che stamattina lo zelante portinaio ha guardato il filmato a quadrupla velocità come fa ogni giorno, e arrivato al punto della registrazione corrispondente alle tre di notte ha visto un tizio che parlava con la vecchia svitata del primo piano – così ha detto il portinaio, svitata – e che poi il tizio ha scavalcato e si è impigliato nel cancello con gli zebedei – proprio così li chiama il portinaio, zebedei. A quanto pare, ha trovato la sequenza irresistibilmente comica, e infatti ancora non ha smesso di ridere.
“Vuoi salire? Ti accompagno su”, dice.
Mentre salite sghignazza. Sembra proprio che non possa fare a meno di pensarci, a te che rischi l’evirazione sul cancello del palazzo dove lui lavora tutti i giorni. Niente è meglio di un incidente imbarazzante, per spezzare la monotonia.

Ad aprirvi la porta dell’appartamento al primo piano è un uomo di mezza età. Capelli scuri, piuttosto lunghi e pettinati all’indietro, incuranti di coprire la risacca dell’attaccatura. Occhi piccoli, bocca larga, ricorda un pescegatto.
Il portiere guarda l’uomo e viceversa, si fanno un cenno d’intesa. L’oggetto dell’intesa sei tu. Il portiere si avvia verso le scale, l’uomo ti guarda.
“Entra”, dice poi, si appiattisce lungo la parete, ti lascia passare senza smettere di fissarti e si chiude la porta alle spalle.
“Sono il figlio”, dice. Non ti dà la mano.
“Mi spieghi tutto”, dice.
Vi sedete in salotto, lui sulla poltrona scoperta, tu su una di quelle fantasma.
“Vuoi una sigaretta?”, dice.
Accetti, te la porge, la prendi e lui ne sfila una dal pacchetto per sé. Non accende la sua, non si offre di accendere la tua. Tu non hai l’accendino e non lo chiedi. Non si fuma. In casa fa piuttosto caldo, ti togli la giacca e racconti di ieri notte, tu sul balcone e poi aiuto e la polizia e la porta chiusa e i ladri nascosti in cucina e la signora che, con tutto il rispetto, non ti sembra in grado di badare a se stessa.
E il pescegatto, che durante il racconto ha battuto senza sosta la sigaretta sull’unghia piatta del pollice sinistro come un metronomo per tenere il tempo tra uno sbuffo e un lamento e una smorfia corrucciata, non si dimostra nient’affatto collerico come ti era parso all’inizio, né maldisposto verso di te. Solo stanco, stanco in ogni fibra e dentro e oltre.
E capisci che al pescegatto, una volta appurato che quello di ieri notte era solo un altro sintomo del rincoglionimento di sua madre e che tu a occhio e croce non sei un delinquente, dei dettagli della storia non gliene importa nulla.

“Senti – dice alla fine – lo so che mia madre non può più vivere da sola, non lo scopro certo oggi. Questa di chiudere le porte, nascondere le chiavi e poi dimenticarsi dove le ha messe è solo l’ultima di una serie di manie. Adesso sto cercando di risolvere, lo vedi anche tu – indica il panno bianco sui mobili, sulle poltrone – stiamo chiudendo casa e la vorremmo portare da qualche parte dove sia controllata giorno e notte, che cosa posso fare di più?”
Vorresti dirgli che magari non di più, però subito sarebbe opportuno, solo che non sono affari tuoi, e tanto lui ormai si è alzato per rispondere al cellulare ed è andato a piazzarsi in un angolo del salotto, faccia al muro come il peggiore della classe.
Ti alzi, vai verso la porta, infili la giacca e aspetti che si volti anche solo un secondo per fargli un cenno, arrivederci, andare via e dimenticare.
Non si volta, resti lì, ed è impossibile non sentire quel che dice. A toglierti dall’impiccio, causandoti anche un sussulto perché pensavi che in casa non ci fosse nessun altro, la vecchina si materializza sulla porta della camera da letto. Ha un sorriso furbo, di nuovo quell’aspetto decrepito e bambinesco allo stesso tempo.
“È tornato davvero!”, dice, con una sfumatura di innocenza civettuola.
“Venga un attimo di là”, dice.
“Se adesso sono qua come cazzo faccio a essere lì a pranzo?”, sta dicendo intanto al telefono il pescegatto. La vecchina ti prende la mano, te la appoggia sul fianco, si appende al gancio del braccio e ti guida verso la porta che ieri notte era chiusa a chiave e adesso è spalancata sulla cucina.
“Avevo perso la chiave della porta – dice lei quando vede che guardi in quella direzione – ma poi mio figlio l’ha ritrovata. Era in bagno. Io in bagno non l’ho di certo portata. Sarà stato lui, l’ultima volta che è venuto a trovarmi.”
“Viene spesso?”, chiedi.
“Chi? Mio figlio? Ma quando mai! L’ultima volta sarà stata un anno fa.”
“E quindi per un anno lei non ha usato la cucina?”, chiedi per cercare di farla ragionare.
“Diamine, come, non ho usato la cucina? Certo che l’ho usata, come avrei fatto se no a farmi da mangiare?”
“Mi scusi, ma capisce che quindi suo figlio non può aver portato la chiave in bagno un anno fa… Anzi, lasci perdere, non importa”, dici.
“Ma ieri sera, si ricorda di ieri sera?”
La domanda deve accendere una qualche associazione, perché la vecchina ammutolisce e sembra mettersi in ascolto di qualcosa, gli occhi grigi affogati dentro un liquido trasparente.
In salotto, il pescegatto ha perso la pazienza, e grida nel telefono qualcosa sul senso di soffocamento.
La vecchina annuisce una, tre, cinque volte.
“Mi ricordo sì – dice – Lei è venuto dopo che era andata via la prima volante della polizia, per controllare che non ci fossero i ladri chiusi in cucina, e visto che non c’erano lei è tornato al lavoro e io sono andata a letto tranquilla. Naturale, che mi ricordo. Anche mio figlio è fissato che mi dimentico le cose, ma non è affatto vero”.
Ci pensa un attimo su, poi “Insomma – dice – insomma, qualche colpo ultimamente in effetti lo perdo. Ma non sono stata sempre così, credimi”, dice passando al tu senza rendersene conto.
“Ero bella, anche se a vedermi adesso faticherai a crederci, ma soprattutto ero intelligente – dice – Sono stata tra le prime in città ad andare all’università”, dice. Mi sono laureata, e quella non è stata neanche la parte più difficile, perché quella è stata convincere mio padre a farmici andare, lui che mi vedeva già destinata a diventare una donna di casa”.
Il passaggio dal caos all’autobiografia dettagliata ha qualcosa di prodigioso, ma è un incantesimo di breve durata.
“Mio padre era una brutta bestia”, dice poi la vecchina mentre dal suo sguardo capisci che è stata proiettata altrove.
“Tu pensa che una volta ha imbracciato un fucile che aveva in casa, un cimelio della Grande Guerra, uno di quelli col coltello in cima, e lo ha usato per minacciare un poliziotto solo perché… A proposito, lei è il poliziotto che hanno mandato per la denuncia del furto di ieri sera?”
Quando torni in salotto, il pescegatto ha finito di telefonare e guarda fuori dalla finestra, dandoti le spalle. Le piante sul balcone lasciano intravedere solo piccole porzioni del palazzo dall’altra parte della strada, quello dove vivi tu. La schiena del pescegatto è scossa da un sussulto, ma non sapresti dire se stia piangendo o solo respirando affannosamente, perché non fa nessun rumore.
Quando esci dalla casa il pescegatto non si volta, non ti ringrazia, non ti saluta.
Dopo qualche giorno le persiane della vecchina si sono chiuse e non si sono riaperte più.
Quando passi lì sotto ti chiedi come si chiamasse, perché non l’hai mai scoperto, e in quale mondo – terreno o trascendente o immaginario – stia aspettando qualcuno.

Testo: Michele Orti Manara
Immagini: Bernardo Anichini

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