La troppa libertà spezza il collo.
(proverbio popolare)

Le gabbie dei conigli, fino a quando morì mio nonno, stavano in un casotto di pietra e cemento dietro la casa. Accanto al casotto una vigna costeggiava gran parte della recinzione della casa e un orto coltivato a insalata, pomodori e calle occupava quasi tutto il giardino. L’interno del casotto di giorno era immerso in una penombra placida e silenziosa, intervallata solo dai rapidi bagliori delle gabbie di lamiera illuminate dal sole.

I conigli nelle gabbie non stavano mai fermi. Rumori continui, insistiti, ma senza una logica. Nel loro incessante lavorio di zampe sbattute contro le inferriate, denti a torturare il granoturco e il fieno, lingue a succhiare l’acqua dalle apposite cavità delle gabbie, sembravano stare bene attenti a non dare mai un ordine ai suoni che producevano.
Stavo interi quarti d’ora immobile, con le gambe fisse davanti alle gabbie, ad ascoltare quelle bestie. Preso come da un’ipnosi non cercavo davvero un senso, ero troppo giovane per farlo, ma mi rapiva l’assoluta casualità con cui i rumori, una volta ripetuti di seguito, un’altra volta dilatati nel silenzio, segnalavano una vita che c’era, ma si vedeva poco, e non faceva nulla di più che mangiare, bere, rumoreggiare.

Avevo all’incirca sei anni, passavo i giorni freddi chiuso in casa e quelli più caldi a inventare giochi di guerre in cui le ambientazioni erano sempre la vigna, l’orto, il giardino. Ma mai il casotto, perché entrando lì, magari attirato da un rumore più forte degli altri, il gioco si fermava e arrivava l’ipnosi: un fruscio, una mitragliata di denti su un chicco di grano, una zampa che sposta il fieno e batte nervosa contro la lamiera. Momenti di pausa che finivano spontaneamente, restituendomi alla realtà e al gioco con uno strascico di silenzio al seguito che piano piano si dissolveva. Oppure che finivano perché mio nonno, padrone indiscusso di tutto quanto fosse gabbie, vigna, orto, giardino, entrava nel casotto per prendersi cura dei conigli e mi parlava, o parlava ai conigli.
Non c’era altro evento che potesse interrompere il mio incantamento di fronte alle gabbie, se non quando un raggio di luce improvviso illuminava la testa di uno dei conigli e allora un occhio, sempre uno solo, emergeva dal buio. Quello sguardo metteva fine all’ipnosi lasciandomi in un risveglio inquieto, intimidito dalla macchia scura dell’occhio che si posava su di me e mi induceva a uscire alla svelta dal casotto. I conigli mi avevano scoperto e ricominciare il gioco, magari con una battaglia artificiosamente caotica, era l’unico modo per fingere che nulla pochi attimi prima fosse accaduto.

Ci sono giorni, giorni di bambini di sei anni, che si perdono nella memoria insieme a tutti gli altri, dove è impossibile stare fermi. Una forza dinamica prende tutto il corpo e seduti dietro il banco di scuola un piede non smette di martellare il pavimento velocissimo e impercettibile. In cammino verso casa le gambe si abbandonano a una miriade inquieta di salti. Seduti di nuovo, ma questa volta per il pranzo, le gambe penzolano dalla sedia come festoni in certe giornate di vento.
Sono giorni in cui il gioco diventa l’unico sfogo efficace, una questione non più solo di divertimento e svago ma di vero e proprio sfinimento. Non importa più nulla di nulla, bisogna solo muoversi, agire, sventagliare ovunque gambe e braccia fino a spaccarsi il fiato e rimanere alla sera, stanchi morti, ad aspettare che arrivi il sonno e un nuovo giorno senza la stessa inarrestabile inquietudine.
Fu proprio in uno di quei giorni, passati al mattino a fremere dietro il legno freddo del banco di scuola e al pomeriggio nello spasmodico inseguimento di un pallone, che entrai nel casotto di corsa e, senza neanche badare per un momento ai soliti rumori che mi ipnotizzavano, aprii una a una tutte le gabbie.

Non ci fu un solo coniglio che rimase fermo. I più giovani, anche quelli che stavano nelle gabbie più alte, saltarono giù subito senza alcuna paura. Quelli più anziani esitarono per pochi secondi ma dopo seguirono gli altri con la stessa impazienza. Nell’atterraggio tutti perdevano la posizione di equilibrio e per qualche istante grattavano le zampe contro il cemento del pavimento, ma poi riacquistavano l’assetto da corsa e in un lampo erano fuori dal casotto. Mio nonno, che in quel momento era nella vigna, si accorse subito della fuga di tutte le sue bestie e, messosi di fronte all’entrata del casotto, riuscì a catturare e a rimettere nelle gabbie gli ultimi conigli scappati.
Poi, urlando “I conigli! I conigli!” aveva cominciato a inseguire gli altri che correvano all’impazzata nella vigna, nell’orto, in tutto il giardino attorno alla casa, travolgendo lungo la loro strada foglie di vite, fiori, insalata, piante di pomodori. Uscito dal casotto dopo mio nonno, ero rimasto a pochi passi dall’entrata osservando immobile quegli animali rapiti da una specie di fuoco pazzo, come se tutto il desiderio di movimento che era in me fino a pochi attimi prima fosse stato trasmesso a tutti loro nel gesto di aprire le gabbie. Il mio corpo era completamente fermo, solo la testa si muoveva da destra a sinistra e da sinistra a destra per cogliere ciò che stava accadendo, mentre la bocca si apriva ai lati in un sorriso sempre più largo.

Però mio nonno ci sapeva fare. Capita a volte che un coniglio fugga mentre gli si pulisce la gabbia oppure che nel tragitto dalla gabbia al posto di macellazione scappi di mano e si metta a correre.
Per prenderlo non serve inseguirlo. Basta aspettare che non si muova, trovi un riparo e si tranquillizzi. Poi, una volta immobile in quella che per lui è la sua nuova tana, basta avvicinarsi silenziosi da dietro e afferrarlo di scatto. Mio nonno aveva cominciato a rincorrerne alcuni. Resosi meglio conto della situazione si era fermato, aveva atteso che anche i conigli si rifugiassero in qualche anfratto e con quel metodo ne aveva catturato qualcuno. Altri però non si fermavano e continuavano a correre. Vista dall’alto quella scena poteva sembrare il movimento consueto di una manciata di formiche, con un formichiere che lento si avvicinava per catturare le meno svelte. Dal giardino la mia attenzione si era spostata sul lavoro di cattura di mio nonno oltre che sulla corsa folle degli ultimi conigli, e il sorriso crescente si era congelato in un’espressione gioiosa, ma fissa.

Un coniglio si era rannicchiato a metà di uno dei filari di piante di pomodori e mio nonno, camminando con la schiena piegata in avanti e la testa a ridosso delle spalle, stava allungando le braccia per afferrarlo. C’erano ancora cinque conigli intorno alla casa: tre erano fermi al riparo, due non finivano di correre.
Li avevo contati e dopo avere finito la conta mi ero concentrato sul coniglio tra i pomodori e sui movimenti esperti di mio nonno. Le sue mani erano a pochi centimetri dal corpo del coniglio quando dall’altra parte del giardino, a ridosso del muretto di recinzione, un tonfo sordo – il botto di un pugno che sbatte deciso sulla cassa toracica – aveva attirato la mia attenzione.
Un coniglio, uno dei due che correvano all’impazzata, aveva sbattuto la testa contro il muro ed era rimbalzato all’indietro finendo steso nell’erba a pancia all’aria, morto.
Urlai. Mio nonno si voltò correndo verso il coniglio. Per non vedere più l’animale morto voltai la testa dall’altra parte. E mentre mi giravo, vidi l’altro coniglio correre a gran velocità gli ultimi metri in prossimità della recinzione e andare a sbattere violentemente e senza alcun tentativo di frenata contro il cemento grigio del muretto, lasciandovi un segno di sangue rosso e rimbalzando come l’altro coniglio nell’erba, a pancia in aria. Osservai così bene la scena che notai, pochi attimi dopo lo stesso tonfo di prima, il corpo del coniglio tendersi nello spacco di fiato che avviene poco prima della morte e poi abbandonarsi inerte, nel volo di rimbalzo verso l’erba. Ma non feci in tempo a chiudere gli occhi, perché anche i tre conigli che erano fermi ripresero a correre follemente creando davanti a me un vortice di zampe che slabbravano il terreno. Uno dietro l’altro, acquistata la massima velocità, andarono a schiantarsi contro il muro della casa, contro quello del casotto e ancora contro il muretto di recinzione che aveva ucciso il primo coniglio. Tre tonfi uno dietro l’altro, poi il silenzio.
Avevo solo sei anni e caddi di peso sulle ginocchia. Cominciai a piangere, lentamente e senza singhiozzare, fino a quando mio nonno, rimasto anch’egli inerte di fronte a quel carnaio, si accorse di me e mi fece alzare, consolandomi con una carezza, con un abbraccio, con un pezzo di cioccolato preso dalla credenza della cucina, che mangiai con la testa bassa, senza fiatare.
Dopo quel giorno i conigli vennero macellati e venduti uno a uno. Nel casotto non ne tenemmo mai più.

Testo: Luca Barachetti
Immagine: Stefano Allisiardi

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