UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli:

 

LA RINCORSA


Durante gli ultimi anni dell’università ho abitato a Venezia in un appartamento gigantesco, con soffitti altissimi, finestroni e mobili antichi. La proprietaria era una contessa, si chiamava Alba Balbi, o Barbi.
Frequentavo la magistrale in relazioni internazionali comparate, lavoravo part-time in una profumeria a Fondaco dei Tedeschi e vivevo con tre coinquiline, due delle quali, Mara e Alina, parevano fantasmi: non lasciavano tracce della colazione, neanche un soffio di vapore dopo la doccia e quando andavano a lezione le loro camere restavano chiuse a chiave; nei fine settimana tornavano sempre a casa.
Spesso con Rehab, la terza coinquilina, si chiacchierava in salotto fino a notte fonda, cercando di captare i loro respiri, ma le uniche cose che sentivamo erano l’acqua nel canale e l’eco disordinato dei passi sul ponte. Una sera tornammo a casa sbronze: spesso studiavo in BEC, la biblioteca della Facoltà di Economia dove lavorava Rehab, e per strada ci fermavamo da Lele a farci un paio di ombre.
Mangiata una piadina in salotto, bevemmo una tisana stese sui divani disposti a L, testa a testa, e finimmo a raccontarci vecchie avventure. Fuori aveva iniziato a piovigginare, Rehab sussurrava per non farsi sentire dalle altre.

La storia risaliva al periodo del dottorato, quando viveva ancora con suo papà, ad Altivole, un paese vicino Montebelluna. Su Tinder aveva conosciuto questo Orfeo, un ragazzo che frequentava il secondo anno di lingue. Capelli lunghi alle spalle, un sacco di tatuaggi. Non avevano chattato troppo. Dopo due giorni le aveva chiesto di uscire per un aperitivo a Venezia in un posto carino che sapeva lui. La differenza di età non l’aveva impensierita, anzi, il modo in cui si era fatto sotto le era piaciuto. L’appuntamento era alle quattro in stazione a Venezia.
“Così lo fai secco”, le aveva detto suo fratello Amine mentre usciva.
Non che fosse troppo in tiro, jeans e camicia, giusto un filo di rossetto.
Per tutto il viaggio in treno studiò il profilo di lui. La bio suonava un po’ infantile: tattoo addicted, party animal, tongue lovers. Era la prima volta che usciva con uno dei tizi con cui chattava. Tinder l’aveva scaricato per farsi un’idea di quanti match avrebbe fatto, e chi c’era.
Quando vide Orfeo in fondo alla scalinata, le tornò in mente cosa le aveva scritto, 你真漂亮, “sei bellissima” in cinese, e si chiese a quante altre l’aveva scritto, e se fosse corretto scritto così. Poi lui si voltò nella sua direzione, la vide e, passo dopo passo, salì gli scalini per raggiungerla. Lei si sentì bruciare. Le sembrò di essere al suo primo, vero appuntamento. Si salutarono stringendosi la mano, una stretta decisa e professionale che li fece scoppiare a ridere.
“Vieni”, disse lui.

Camminava e parlava svelto, guardandola negli occhi. Era vestito sportivo. Scarpe da corsa, pantaloncini e maniche corte, dal collo alle caviglie era scarabocchiato di ideogrammi e disegni colorati. Dopo una svolta improvvisa per una calle deserta però, lei si fermò, chiese del posto che sapeva lui. Aveva perso il senso dell’orientamento. Erano lontani dalle calli che conosceva e nonostante il cielo limpido e il sole, le strade le sembrarono storte, fredde, i caseggiati troppo alti.
“Vedrai”, le disse.
Ripresero a camminare, finché sbucarono in un campiello, affacciato su un canale ampio che non riuscì a identificare. Gli edifici intorno parevano disabitati. L’unico illuminato era quello del locale, due piani di lampade a incandescenza, soffitto drappeggiato di teli a frattali, tavoli e divani rasoterra.
Orfeo salutò il barista, sembravano conoscersi e Rehab si rilassò; il posto le piaceva. Dopo un paio di americani, iniziarono a chiacchierare sciolti e andarono a sedersi sul molo. Smezzavano una sigaretta dietro l’altra; lui girava, lei accendeva.  Orfeo era in ansia per il dopolaurea: era convinto della magistrale, e di cosa lo appassionava; ciò che lo spaventava stava in un futuro così prossimo a Rehab da farle scordare la differenza d’età, a considerarla solo un numero. Le raccontò del bar di famiglia a Osimo, che lo attendeva come una gabbia, e dei genitori in pensione. Rehab parlò di suo papà, di quanto era speciale Amine e di Sandro, ovvio, il suo ex storico con cui si era lasciata da poco. Orfeo la baciò mentre parlava. Non erano neanche le sette.

Quando rientrarono nel locale a bere l’ultimo, Orfeo ordinò un Bayleis con tre cubetti di ghiaccio e il barista, su per giù dell’età di Rehab, le lanciò un’occhiatina e sorrise, senza commentare. Lei ordinò una grappa barricata, uscirono a fumare e con la scusa di andare al bagno pagò il conto.
“Esco anch’io con te la prossima volta”, scherzò il barista, dandole il resto.
Sull’onda della sbronza, Orfeo la trascinò in Campo Santa Margherita. Sugli scalini di un ponte lei riprese a parlare di Sandro, di quanto soffrisse a vederlo con la sua nuova fidanzata, e Orfeo le fece un discorso sul lasciarsi bene, che è una favoletta perché così non si riesce a odiare, e l’amore è la stessa cosa dell’odio, l’altra faccia della luna, e se non è odio è amore e sei fritto, l’altra persona diventa il salvaschermo dei tuoi pensieri, una finestra nascosta ma aperta, perché il tempo per l’amore e per l’odio non esiste, esistono solo lo spazio e la distanza, e Rehab allora lo strinse e lo baciò sugli scalini fra la gente che beveva e passava.
“Facciamolo”, gli disse.
Lui la prese per mano e s’infilarono in un bagno della biblioteca Zattere usato come deposito. Rehab attaccò a fargli un pompino e lui all’inizio rimase in piedi, ma le gambe gli tremavano, così si stese fra la tazza del gabinetto e una pila di rotoli di carta imballati; lei lo cavalcò tenendosi alla tavoletta, finché alzatasi per i crampi alle gambe si sentì afferrare dal didentro, e per un secondo temette di pisciarsi sotto. Poi vide la maglia di Orfeo, fradicia.

Fuori, inspirata una boccata d’aria salata, si sentì un pezzo di gomma caldo, parole sue. Aveva fame, così si fermarono a mangiare un trancio di pizza.
“Vieni da me”, le disse Orfeo.
Alle otto meno venti, presero un tram in piazzale Roma e per tutto il tragitto Rehab sedette sopra di lui, le gambe stese sul sedile a fianco, a limonare. Orfeo stava in un palazzo a trecento metri dalla stazione di Mestre, cosa che la rassicurò. Non c’era ascensore.
Saliti sette piani di scale, si baciarono col fiatone, Orfeo sbavò. Rimasero sulla soglia a ridere, e in quell’istante lei sentì che si sarebbe potuta innamorare.
L’appartamento era vecchio, ma spazioso e pulitissimo: cucina, salotto, due bagni, tre camere, terrazzino. Quando uscirono a fumare una canna, lui s’inginocchiò le tolse i jeans e aggrappata alla ringhiera la fece venire fino a lasciare una pozza sulle piastrelle. Allora s’infilarono a letto: Rehab stava sopra, ogni tanto alzava il culo a gambe divaricate, lui la masturbava e lei gli veniva sulla pancia e sul petto; poi iniziò a fargli una pompa infinita.
“Qualcosa non va?”, chiese.
Orfeo si rannicchiò contro la spalliera del letto, serio, le accarezzò i capelli e disse che voleva venirle dietro. Lei pensò che avesse architettato tutto, tutti i suoi orgasmi, per ricattarla. Ma guardandolo raggomitolato lì, capì che era un capriccio, un ragazzino da accontentare. Si voltò e lo lasciò fare. Usò del burro cacao per aiutarsi, venne in un niente e si accasciò di fianco a lei, che subito raccolse la sua roba e andò in bagno. Seduta al gabinetto controllò l’ora; l’ultimo treno per Castelfranco era alle dieci e dieci. Allora immaginò la madre di Orfeo arrivare ogni due settimane nel primo pomeriggio, ingombra di asciugamani e lenzuola, la vide pulire posate, strofinare mobili, togliere i capelli dalla spazzola, fargli la spesa all’iN’s, preparare un budino coi biscotti e aspettarlo fino alle sette, finite le lezioni. Ma era troppo stanca per vestirsi e andarsene, scusarsi. Così tornò a letto, e non trovandosi d’accordo su che film guardare decisero di iniziare “Big Love”. Fecero sesso guardando le prime due puntate, stesi di fianco, lui dietro di lei.

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Il mattino, Rehab si alzò con la gola infuocata e bevve due bottiglie d’acqua; si lavarono i denti con lo spazzolino di lui e scoparono in doccia. Poi andarono in stazione e presero uno spritz e un tramezzino al bar, parlando della tesi di lui, anche se Rehab ci capì poco.
Arrivati al binario c’era mezz’ora d’aspettare, così sedettero su una panchina e Orfeo girò una canna con una cartina corta. Quando il treno comparve, rimasero abbracciati finché le porte non si aprirono. Allora lui le toccò una ciocca. Fra le dita gli rimase qualcosa di biancastro e secco, sorrise. Lei si sarebbe sotterrata.
“Ti scrivo dopo”, gli disse.
Quando il treno partì Orfeo aveva già sceso la scalinata del sottopasso. Dopodiché la giornata filò come sempre: studiò in biblioteca a Castelfranco fino alle cinque, restò in casa-famiglia dalle sei a mezzanotte e tornata a casa guardò altri due episodi di “Big Love” e andò a dormire. Non gli scrisse né il giorno dopo né quello dopo ancora.
Lui provò a contattarla da Tinder e lei lo bloccò lì e anche su Facebook. Qualche anno più tardi le chiese di seguirla su Instagram e dal suo profilo Rehab scoprì che stava facendo la magistrale da qualche parte in Polonia, in una città fluviale.

Quando mi disse che l’avevamo incrociato poche ore prima, mentre andavamo da Lele, e che lui non l’aveva riconosciuta, mi voltai pancia in giù sul divano e rimasi a osservarla: teneva gli occhi chiusi, seria.
Spiegò che era insieme a una ragazza di colore molto carina, seduto ai tavoli in riva al canale di un ristorante a San Giobbe dove lei spesso pranzava coi colleghi dell’università. Le era sembrato sereno, bellissimo coi capelli tagliati corti, le era venuta voglia di scrivergli e così aveva fatto. Io dissi che non mi sembrava giusto.
“Si torna indietro solo per prendere la rincorsa”, rispose.
Poi aprì gli occhi e mi guardò come fossi stata testa in giù, e mi fece sentire sbagliata. Fuori smise di piovere e per un pezzo non parlammo affatto.

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Testo Marco Brion
Illustrazioni Claudia Petrucci

 

 

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