UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli:

CLASSE 204

Di cognome faceva Cratere, ma in classe tutti lo chiamavano “Vulcano” e questo gli montava dentro una rabbia che gli faceva cadere il gessetto dalle dita. Nei giorni di luce diceva che il sole cercava sinonimi di se stesso tra le stecche delle persiane, come tra pagine di dizionario. Subito dopo indicava qualcuno e diceva “tu, chiudi le cazzo di persiane”, e così si faceva lezione al buio.
Stamattina ho guardato la sua foto sulla bara e un po’ di sole è entrato attraverso le finestre della chiesa. Mi è sembrato di vederlo, mentre si toglieva gli occhiali, usandoli per indicarmi e dire tu, chiudi le cazzo di persiane.

Non era cattivo, solo che gli autori li prendeva per i capelli come fanno le gatte con i figliocci e ce li metteva sopra la cattedra, indicava con l’indice una sezione del corpo e diceva “in questa parte della sua vita ha fatto questo”. Li scuoteva sopra la cattedra perbenino e a quelli dei primi banchi arrivavano macerie di polvere e forfora. Nessuno voleva mai stare al primo banco per colpa del professore, che prendeva gli autori e la letteratura e li scuoteva con forfora e polvere sopra la testa di noi allievi.
Un giorno alla fine dell’ora gli ho detto “professore”. Lui mi dava del lei e io lo chiamavo professor Cratere, non ero come gli altri che ridevano del suo cognome, perché il cognome è cosa che vive più a lungo della vita e lui era nato così. Lui ha fermato la borsa che scorreva sul tavolo.
“Mi dica, Bruno”, ha risposto.
“Legga questo”, ho detto e gli ho porto me stesso sopra un foglio che svolazzava.
L’orda di gente si affievoliva oltre la soglia dell’aula, il professore si è calato gli occhiali sul naso come una brutta strega e ha letto. Quando ha finito ha detto, “lei scrive strano, Bruno”.
Mentre lo diceva, disegnava archi con gli occhiali spogli dei suoi occhi nell’aria e io seguivo la scia delle stanghette.
“Lei lo fa apposta a scrivere strano – ha detto – Quando leggo lei mi sembra di aprire gli occhi e vedere davanti la pianta del piede di mio fratello con cui ho dormito tanti anni nello stesso letto. Lei è prevedibile nella sua stranezza. Il giorno in cui la sua stranezza si esaurirà, lei come scrittore sarà morto. Perché non andiamo a prenderci un caffè?”, ha detto.

Sono salito sulla sua macchina con il foglio stretto sulle cosce che si toccavano come quelle di una femmina. Corrucciavo gli occhi per cercare di leggere dove avessi scritto strano, ma l’auto aveva i finestrini oscurati perché non gli piaceva il sole che s’infilava curioso a fare luce su tutto.
“Non si abbatta”, ha detto. Guidava con gli occhialoni da sole e io non osavo guardarlo per non riflettermici.
“Bisogna cambiare modo di vita per cambiare modo di scrivere nella vita”, ha detto poi al tavolo bianco di un ombrellone rosso.
Io ho gettato la testa indietro per assaporarmi le sue parole al sole.
“Che belle linee ha, Bruno”, ha detto e mi ha passato l’indice sopra.
“Sono del mio amante”, ho risposto.
“Chi è il suo amante”, ha chiesto.
“Il sole”, gli ho detto e l’indice è tornato a cercarmi.

“Perché non ci mette un po’ più fuoco”, ha detto, una volta risaliti in macchina, con quegli occhialoni scuri che guardavano il nero mi chiedevo se ci vedesse qualcosa. Un po’ più fuoco in quel che scrive, ma invece di “fuoco” mi è sembrato di capire “culo” visto che si è allungato e la sua mano ha cercato le righe dei miei levi jeans. Deve mettere più fuoco in quello che scrive, stava dicendo, deve mettere il suo fuoco-il suo culo in quel che scrive.
I giorni e le sere in cui c’era lui si riempivano come secchi che traboccavano acqua a ogni passo, il resto del tempo ero leggero e vuoto come una ciliegia che cade.
“Dove stai andando”, chiedeva mia madre alla sera.
“A casa del mio professore – le dicevo, indicavo i libri di letteratura stretti contro la pancia e lei esitava insieme al ferro da stiro sui vestiti – Fa lezione solo ai migliori”, aggiungevo e lei abbozzava un sorriso spento come la notte.
Mi veniva a prendere, poi allungava una mano oltre il freno a mano e navigava tra bottoni tessuti cerniere dei miei levi jeans, che cadevano come se fossero sempre stati inutili barriere.
“Professore – gli dicevo – Siamo in contromano”.
Lui spostava solo di un pelo il volante a un passo dal disastro, le macchine ci venivano incontro con i fari accesi che sembravano due occhi curiosi come il sole.
“Professore – gli dicevo – Facciamo un incidente”.
Lui quasi si sbilanciava su di me con la bocca socchiusa. La macchina marciava a passo d’uomo e io guardavo dritto verso la strada le strisce pedonali i semafori ticchettanti. Pensavo che mancava poco e per colpa delle sue voglie da bestia presto ci saremmo andati a schiantare e tutto questo sarebbe finito. Al pensiero della morte così dritta avevo un fremito e lui pensava che lo desiderassi ancora di più perché mi cercava con più foga. Allora mi ricordavo di quelle macchie che gli riposavano sul dorso come benzina indelebile e mi veniva paura che me le trasmettesse e diventassi tutto marrone anch’io. Avevo altri fremiti, e non lo so proprio se era vero che lo volevo o non lo volevo.
“Mi porti a casa”, ordinavo.
Lui non ascoltava e rischiavamo di schiantarci davvero, così gli toglievo la mano da dentro i miei levi jeans.
“È rotto”, gli dicevo, e gli tenevo la mano per un briciolo in aria, spostandola in giro per l’abitacolo come un cadavere invermiciato.
Mi divertivo molto a dirgli così perché lo vedevo soffrire.

Una sera, mentre mi depositava sotto al portone, mi ha porto una borsa in tela, “per te – ha detto – domani fatti trovare con questi”.
Il giorno dopo l’ho nascosta nello zaino di sempre, ho salutato mia madre e una volta fuori dalla porta ho indossato le scarpe.
Ho aperto il portone e mentre camminavo i miei pochi passi sotto i suoi occhi ho pensato alla principessa d’Inghilterra, quella che si era sposata il moro o il biondo o il riccio e ora le scattavano foto a tutte le ore e in una era vestita d’un abito attillato verde e aveva le anche che sbucavano ossute e camminava tirata all’indietro come se mani invisibili la spingessero in avanti e fosse adagiata su cuscini.
Era un modo sbilenco di camminare sui tacchi – con la borsetta stretta tra le due mani davanti all’inguine – e mentre uscivo provai a farlo anche io, a essere pure io come lei. Mi piaceva sentirmi così, per me e per nessun altro. Solo dopo lui è entrato nella mia visuale, l’ho trovato alla destra del portone, mi guardava ansioso e dentro gli occhi aveva tutti i perché e i quando e ho avuto paura che mia madre si affacciasse dal balcone e vedesse il suo sguardo da bestia. Lui mi ha girato la schiena e dietro l’angolo, nel vicolo dei cassonetti con la carta la plastica e l’organico, mi ha spinto contro il cancello e ha aperto i bottoni della camicia come si apre una via nel traffico per le ambulanze, l’ha squarciata a mezzo con le mani come deve aver squarciato cristo le acque e io allora ho pensato alla prof di religione, che ci aveva spiegato delle acque e di cristo e aveva detto “è con amore ragazzi, è con l’amore di dio che cristo ha diviso le acque”.
Io ho guardato in basso i miei peli che sbucavano da dentro la camicia e i miei levi jeans aperti e la testa del mio professore. Mi è venuto da pensare che le acque cristo e lo squarcio non potevano essere fenomeni naturali fatti con l’amore di dio.

Due giorni fa la prof di religione è entrata in classe a dirci che Cratere era morto. Si è dovuta sostenere alla cattedra e la voce le si è rotta e noi si è avuto tutti pietà. Poi si è corso fuori con le dita agganciate alle bretelle degli zaini e tanta eccitazione che non ci faceva sapere dove mettere i piedi, e giù a cercarlo dentro i quotidiani perché circolava voce tra i corridoi che la foto livida del suo cadavere fosse finita sul giornale. Io ho visto il morto accanto alle macerie della sua auto schiantata sulla direttissima, stava in una foto striminzita dentro un quadretto piccolo quasi quanto il numero di pagina.
Al suo funerale ero andato per restituire i tacchi al mio professor Cratere che ora da morto era diventato famoso come Dante e gli scrittori che hanno bisogno del vento della morte per fare sì che la gente sfogli le pagine dei loro libri.
Io non ero mica come gli altri che erano venuti solo a controllare se la foto del giornale fosse poi vera, e si affacciavano sulla bara aperta per vedergli la faccia livida di un sudore freddo, lucida come la glassa dei dolcetti che la prof di religione offriva e nessuno mangiava. Era passata già due volte, bassa e grassa la si sentiva arrivare perché lacrimava forte.
Diceva a tutti quanti noi ex allievi di letteratura “grazie grazie che siete venuti e lo avete amato” e noi bisognava prendere i dolcetti altrimenti ci scambiava per morti, sventolava il piatto dentro i palmi, “prendete voi che siete vivi” sembrava dire e solo dopo si girava e i suoi grazie andavano ad affievolirsi altrove.

Daniel Valsesia 2

Io non ho saputo proprio se restituire o non restituire i tacchi al mio professor Cratere, il mio vulcanetto, allora mi sono messo a pensare alla morte. Ho guardato il legno chiaro della bara aperta e mi è sembrato che fosse diventata una porta e sopra ci fosse scritto Classe 204, come nel cartone che da piccolo guardavo la mattina presto prima di andare a scuola.
In ogni episodio il personaggio si alzava dal letto con lo zaino in spalla e sulle strisce salutava il poliziotto che dirigeva il traffico al semaforo. Poi apriva la porta con su la scritta classe 204 e tutti stavano lì seduti sempre uguali e c’era uno che sputava le palline sul collo di quello davanti.
Un giorno il poliziotto era morto per colpa delle macchine che non l’avevano saputo schivare e che vigile era se poi la morte li dirigeva tutti quanti. Il personaggio allora si svegliava al mattino con lo zaino intrecciato alla schiena e faceva per uscire di casa e attraversare le strisce e qualcuno gli diceva figliolo il poliziotto è morto e lui correva con le lacrime ai piedi e in classe tutti lo circondavano e per un giorno niente era più uguale a prima e tutti avevano pietà e non si faceva lezione.
Avevano fatto sparire il poliziotto per commuovere i bambini e l’avevano chiamata morte per spiegare come si sparisce e l’anima continua a vivere sopra i semafori e le nuvole ecc ecc. Nell’episodio dopo il personaggio passava sulle strisce vuote e tutto era normale e apriva la porta con la classe 204 e di tutto si era dimenticato. Lui che era sempre uguale a se stesso i produttori dei cartoni non l’avrebbero mai ucciso.
Ho guardato la bara del mio professorino e non ho proprio saputo se restituire o non restituire i tacchi e mi sono stretto le bretelle dello zaino perché mi toccava essere sempre uguale a me stesso come i personaggi dei cartoni e a lui toccava essere morto così mi sono chinato sulla bara e ho sussurrato, Professor vulcano.

 

 

Testo Andreea Simionel
Illustrazioni Daniel Valsesia

 

 

One thought to “Classe 204”

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