UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli:

 

MALEDIZIONE

A Numero Zero non interessa affatto se ho il ragazzo. Il potere è il suo potere. Volgare, solitario, osceno. Povero diavolo, non siamo poi così diversi. Mi invita a scendere le scale per ritrovarci nel ventre della frivolezza capitalista: Moscova ci accoglie e non ci giudica. Lancio un’occhiata a Diana e mi risponde con un piccolo, meraviglioso sorriso che nasconde qualcosa. Anche stavolta lo seguiremo nella sua spudorata follia alcolica. Lo seguiremo perché non abbiamo altro.
Mentre Diana si avvicina, gli occhi infuocati del Dio del Sole si accendono. Ci passano attraverso, ci fissano oppure ci giudicano. Diana mi chiede se ne ho voglia. In effetti ne ho, dopo lavoro ho quasi sempre voglia.

Bye bye dice il Dio del Sole
You should pass by rispondo
I’ll try.

Inseguo Diana per le scale, lei è insieme agli altri e ci ritroviamo nel solito angolino piscioso. Numero Zero ci inizia sempre con la stessa bottiglia di Falanghina. Nonostante l’amore per l’alcol gratuito odio assecondarlo e prendo il mio vino, più dolce e più forte. Diana non può proprio evitare di assecondarlo, a essere sinceri, non riesce proprio a staccargli i begli occhi innocenti di dosso.
I messaggi si moltiplicano sul telefono e fanno vibrare tutta la borsa ma come faccio a prestare attenzione. Se avessi prestato attenzione sarei stata costretta a razionalizzare che lui era a casa ed era lontano, lontano da me.
Mi gira la testa e mi concentro sulla prima cosa bella che mi viene in mente, su Diana, sul suo piccolo sorriso. Ogni tanto mentre le parlo, lei si isola, arrossisce, prende il telefono in mano e scrive qualcosa in fretta e furia. Nel frattempo finge di ascoltarmi. Io cerco soltanto di essere abbastanza per lei, ma finisco sempre a lamentarmi.
“Niente vacanze, niente tempo per niente. Ho la testa troppo piena di stronzate per…”
Ma lei non trova spazio per le chiacchiere, per la dea del lavoro non è possibile staccare la testa. Anche bere è per lei professione, butta giù Falaghina a grandi sorsi, senza accennare a cedere. Ho già le idee confuse al secondo di Traminer. Numero Zero le versa un bicchiere che è un terzo di bottiglia e annuisce compiaciuto mentre ci lascia appese. Ci scruta da lontano e se la mena con i suoi parigrado. Faccio del mio meglio per distrarla con le mie stronzate, ma Diana è deconcentrata e non vuole proprio capire la differenza tra glossy e shimmer. Numero Zero non ci perde d’occhio, so che guarda lei e anche lei lo sa. Mentre vedo passare una lambo, mi chiedo come ci sia finita in questo angolo sudicio della città, un sortilegio che uccide mantenendo vivi, con l’unica compagnia di una Diana, sprovveduta e bellissima, e un Numero Zero che potrebbe almeno tirare fuori il pezzo. Ignorandoci, lui cerca di restare al centro dei nostri pensieri. Mi avvicino senza una precisa intenzione e forse sto zitta, forse lo provoco. Sono già sbronza, stregata da una sicurezza artificiale, la stessa inutile sicurezza che gli impedisce di cadere a terra in mille pezzi.
Numero Zero dice: “Mi dai un bacio?”
“Preferirei darlo a tua moglie”
Alle mie spalle le interiora di Diana raggrinziscono. Numero Zero allunga le mani. È comunque il capo, perciò sorrido e aspetto che finisca.
“Il tuo unico problema sei tu.”
maledizione 1

Il giorno seguente lavoro a Citylife, la mattina presto. Mi pagano per fare da balia a due cantanti non molto interessanti, ma ben pagati. Inizio marzo, sono ubriaca, la temperatura si abbassa rapidamente. Numero Zero deve aver bevuto troppo e tiene la testa appoggiata agli avambracci, seduto dentro a quel bar piscioso. Diana gli dà una mano, sembra quasi che il capo non sia cosciente.
Me ne resto in disparte, con la sigaretta che si fuma da sola. La neve riempie i binari dei tram, le intersezioni tra le mattonelle di pietra, l’erba si piega e appassisce, anche lei confusa dalle conseguenze del riscaldamento climatico. Squilla il telefono. Lavoro. Rispondo.

La pratica da balia si risolve in un’oretta, con qualche spicciolo, nel frattempo sono tornata più o meno sobria. Numero Zero dall’altra parte della vetrina del locale mi sembra uno dei molti oggetti di antiquariato che osservi nei temporary shop delle vie del centro, chiedendoti se siano stregati o reali.
Mi nascondo da lui in un anfratto, dai suoi occhi fradici, tra la luce verde della farmacia e il ristorante giapponese d’angolo. Mi viene in mente il Dio del Sole, mi chiedo che avrebbe da dire e mi pare quasi di vederlo passare con i capelli lunghi e la sua bella faccia felina, moralizzante, sobria. Poi penso a Numero Zero che mi prende di peso, mi porta in macchina, guida fino a Paolo Sarpi, [“mi”] stringe le lunghe mani attorno al collo e mi scopa tirandomi i capelli. Poi penso ai messaggi non letti, mentre qualcuno mi offre da bere uno shot al succo di pompelmo, decisamente troppo acido.
Numero Zero apre i suoi occhi maledetti. Mi scruta attraverso il vetro, io guardo lui e la neve cadere. Sembra un oggetto solitario e vetusto e forse di umano gli resta veramente poco, non è solo un’impressione. All’improvviso, Numero Zero è accanto a me.
“Che ci fai qui fuori come una stronza, zia”
“Lasciami guardare la neve”
Lui dice: “Brava”.
Appoggia la testa sulla mia spalla. Ha l’alito che puzza di oblio, di Falanghina, di superstizione, cocaina, tradimento. Mi lecca il viso.

Il Dio del Sole non scriveva mai. Quel giorno però avevamo diviso una tavoletta di cioccolato. Il Dio del Sole mi faceva vibrare le interiora, con il suo piccolo sorriso felino, gli occhi infuocati e quell’ accento obliquo. Mi piaceva talmente che anche il mio ragazzo sapeva di lui. Quella sera mi scrisse.
Il suo inglese era decisamente più evoluto del mio.
Ci avevamo girato intorno per quasi un anno. Doveva nascere da lui, poiché tutti sanno che non è possibile persuadere il Dio del Sole. Lui scrisse.
I think you are really sexy.
Lui scrisse.
I wanna tie you to my bed and make you cum.
Io scrissi.
Continue.
Non sostenevo più il peso delle mie membra, che sembravano essersi sciolte. Mi disse di darmi malata e scappare da lui. Lo feci. La metro rossa mi pulsava nelle tempie accompagnata da una techno stregonesca, scura e ossessiva.
Non era concesso bere o fumare prima di incontrare il Dio del Sole. Mi accorsi di tremare, e non potevo essere certa che si trattasse dell’aria condizionata del metrò.
Forse si accorgerà che non sono quello che cerca, che non sono abbastanza oscena né abbastanza pura e che tutto sommato non c’è proprio niente di speciale in me. Forse capirà che non c’è nulla di bello e che se gli uomini hanno trovato mai questa piccola cosa, questa piccola persona – appetibile, è solo per il disperato bisogno di accettazione passiva o di perdizione, per la completa volontà alla sottomissione o l’assoluta mancanza di un principio morale, un appiglio di sorta, un senso. O forse sarò delusa e, per la prima volta da quando aveva chiuso con lo zoloft, pensai ad Alessandro, pensai che avevo un ragazzo, che c’era questa persona che si fidava di me e che sarebbe rimasta ferita.
Scrissi. Amore. Non rispose.
Sui cartelloni pubblicitari fanciulle più attraenti e più giovani di me, mi ricordavano non solo che non sarei mai stata l’immagine della felicità, della sicurezza e dell’agio, mi ricordavano che non sarei mai stata abbastanza. Ma la loro vera infamia – e lo pensavo mentre le loro immagini si susseguivano come lampi tra una stazione e l’altra (T U R R O G O R L A P R E C O T T O), soprattutto quelle immagini mi ricordavano che avrei potuto sedurre qualsiasi uomo suscitasse interesse in me, ogni uomo che posasse gli occhi sulla mia figura modesta, ma riuscita, grazie a una forza e a un potere senza nome, senza senso che dominava le sorti di questo e forse di altri mondi, che avrei potuto vincere diverse battaglie sessuali, perderne molte di più e mi sarebbe piaciuto – la loro vera infamia era che non avrei mai potuto conquistarle, quelle fanciulle, mi sentii sconfitta un’altra volta e mi piacque, mentre le parole del Dio del Sole mi risuonavano in testa come un incantesimo e io, stregata, a stento respirando, lasciavo che mi scorressero addosso tutte le strade della città numero zero.

maledizione 3

“Ciao”
“Ciao amore. Come va oggi?”
“Niente”
“Niente cosa”
“Niente di che bebi
“Che combini?”
“Niente”

Lui a malapena si regge in piedi, ma Diana lo tiene su, gli da una mano, lo accompagna in ogni momento di disagio – nel frattempo guardo la neve stratificarsi e cadere e mi chiedo che ne sarà del mio lavoro e che ci trovi un uomo adulto, sposato, con un figlio, a leccarmi la faccia con la sua lingua schifosa.
Mentre lo regge in piedi, lui si appoggia alla macchina e vomita. Io li guardo, me la rido, penso che non è affatto male vedere Numero Zero in difficoltà. Nient’affato male, ma poi Diana mi guarda con i suoi splendidi occhi obliqui e la sua pietà diventa la mia pietà. Unite da un destino incomprensibile, ci trovavamo sempre compromesse, perse in situazioni assurde in nome della condivisa brama di avere, ottenere, conquistare. Noi volevamo tutto quello che volevamo e lo volevamo immediatamente.
Dice: “Dammi una mano, dai”.
Lo alziamo da terra, fisso un attimo quei piccoli occhi da cocainomane infoiato.
Soddisfatti. Maledizione.
“Cerca le chiavi che lo portiamo a casa”, le dico accarezzandole i capelli.
Lei gli fruga nei pantaloni, un piccolo sorriso emerge dalla preoccupazione. Fa un freddo polare e vorrei solo che lei mi abbracciasse. Numero Zero mormora “Cazzo”, come un bambino, un inutile pischello.
“Sei proprio un pischello”, se fosse sobrio me ne direbbe qualcuna, ma sembra sedato per bene.
“Ti porto a casa zio.”

Diana e io lo trasciniamo alla sua macchina da stronzetto milanese, quel coglione di quaranta chili, e mentre lo porto a spalla non mi stupisce accorgermi che mi tiene una mano sul culo.
Si appoggiano entrambi sul sedile posteriore, con lui che non riesce a star dritto, imbocco le strade che ci separano da Paolo Sarpi, con la neve che non smette mai di venir giù.
Dallo specchietto retrovisore, lo sorprendo a fissarmi mentre le sussurra uno dei suoi incantesimi. Cerco di distrarmi ricordando il nome del figlio di Numero Zero. Alessio, Antonio, Alberto, Alessandro, Alex, Andrea. Alfredo, Angelo, Arturo, Adriano.

maledizione 2Riprendo coscienza davanti al Monumentale. Bello da morire, cazzo. Forse l’unica cosa veramente bella in tutta Milano. Se siamo finiti qui, significa che ho sbagliato strada. Se ho sbagliato strada, devo essermi davvero distratta. E se mi sono distratta… Numero Zero e Diana. Zero mi sorride nello specchio coi suoi occhi maledetti, intanto lei glielo ha preso in bocca e se mi concentro si vede appena la nuca bionda spostarsi piano piano. Immagino lo sguardo imbarazzato di lei. Zero mi fa cenno di fermarmi. Parcheggio. Mi fa cenno di baciarlo. Lo bacio, e lui inizia a toccarmi, prima il ventre, poi le tette poi infila la mano fredda sotto tutto quanto e mi stupisco perchè sembra soddisfatto dalla mia totale inefficienza. Mentre mi succhia il collo, penso ai lividi che dovrò giustificare, penso al mio ragazzo ma più di tutto, penso che è proprio un peccato non aver mai visitato il Monumentale e certo, potrei chiedere a Diana di portarmici il prossimo weekend, se non è troppo sotto col lavoro.

Scesi a Sesto Marelli, dall’altro capo della città. Avrei voluto pensare qualche stronzata da spaccona, ma avevo le fauci asciutte e le mani tremolanti, e il suo incantesimo mi risuonava in testa, un incantesimo volgare, degradante, sciocco, sintetico. Forse avrei dovuto fermarmi.
Scrissi. You know that if we go through with this, things will change and there’s nothing we can do about it.
Scrisse. Where are you now?
Scrissi. I am down here.
E immaginai questo giovane splendido uomo-dio con la pelle caramello e gli occhi felini, lo immaginai sopra di me, dentro di me, immaginai il suo profumo, la sua voce e per poco non svenni mentre mi teletrasportavo su per le scale. Ci abbracciammo e avvertire il suo odore e avvertire la piccola scossa elettrica della sua felicità nel vedermi e nello stringermi, tutto confluiva in me che dimenticavo di avere membra, occhi, voce, spirito, timpani. Il Dio del Sole, riuscivo a malapena a guardarlo senza prendere fuoco. Era da tempo che andavo a fuoco. Mi afferrava il viso e mi diceva che avevo un bellissimo viso e io pensavo vabbè questo è pazzo questo è pazzo e non riuscivo a sostenere lo sguardo di quei suoi occhi di fiamme nere, e mentre sorridevo, sentivo che il sorriso mi tremava tutto e chissà, lui sembrava tranquillo, mi faceva vedere la casa, mi dava un bicchier d’acqua e tutto qui. Poi mi abbracciava da dietro e io sentivo caldo, appoggiava le labbra sul collo e io: ci siamo, smettevo veramente di respirare e aspettavo che la sua maledizione si compisse e mi lasciasse impura e soddisfatta fino alla prossima disgrazia.
E poi disse che forse dovevamo parlare.
E io “di cosa”.
E lui: “di noi”.
Pensai, grazie a dio non c’è nessun noi.
Disse: “So che hai un ragazzo e non lo conosco, ma ti conosco e so che tu non staresti con uno stronzo”.
Feci per succhiargli le dita. Ebbi l’impressione che gli piacesse e che gli costasse uno sforzo enorme, ma niente. Mi accarezzò le labbra con il dito umido.
Disse: “Sai, quello che mi hai scritto, che se andassimo fino in fondo le cose cambierebbero per sempre e non potremmo farci nulla”.
Alla fine scappai sotto terra come i topi, senza più aria nei polmoni o fuoco negli occhi, senza speranza e senza contorni. Quello che avevo, quello che mi manteneva ancora me stessa, che mi manteneva presente, notevole, per la prima volta, non aveva funzionato. E mi chiesi chi fossi, che meritassi, cosa fosse cambiato.
Sentivo d’aver perduto per sempre ogni sorta di potere. Forse non mi era mai appartenuto, forse quel potere non era potere, era solo una faccia diversa del caso, pronto ad alterarsi ed estinguersi come un incendio in assenza di ossigeno. Oppure ero solo maledetta dalla mia stessa maledizione.

Testo Zoe Rossi
Illustrazioni Sara Virginia

3 Thoughts to “Maledizione”

  1. Se è un racconto erotico, fa cacare. Se è la fo(t)tografia del disagio tra gli adolescenti ‘milanesi’ allora ok, fa cacare uguale ma con un fondato motivo.

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