UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli

 

LA MANO

Hanno trovato una mano masticata vicino alla cisterna dell’acqua, sul Naviglio Grande, in pieno centro di Milano. Credo si tratti della mano destra di Gertrude. Cioè, di Janet: faccio molta confusione col suo nome, da quando l’ha cambiato. Credo che un cane randagio abbia raccattato chissà dove la mano di Janet e poi l’abbia sputata via, perché Janet indossa uno smalto al peperoncino fatto apposta per non mangiarsi la pelle intorno alle unghie, e ai cani non piace il piccante.
Janet si è tagliata la mano perché tutti dicevano: mammamia che schifo tesoro, non puoi fare la fashion blogger con una roba così rossa e bitorzoluta attaccata al braccio; e allora Janet ha pensato bene di staccarsela, utilizzando il coltello con cui affetta il sashimi: scommetto che è andata proprio così.
Non l’ho vista quando l’ha fatto, non vedo Janet da una settimana, dal giorno del pool-party di Tezenis; ma la conosco da tanti anni e so quando una cosa le assomiglia. Staccarsi la mano destra con un coltello perché qualcuno ha detto che quella mano è brutta è una cosa tipicamente da Janet, più o meno come il sashimi. È il nostro cibo preferito, il sashimi; mio e di Janet: posh, light, meravigliosamente instagrammabile. Perché io e Janet siamo così: meravigliosamente instagrammabili.

Il vero nome di Janet, invece, non lo era per niente, perciò Janet ha deciso di cambiarlo, di amputarlo e gettarlo via, come ha fatto con quell’orrida mano. Fino al 15 novembre 2013, quando si è fatta regalare da un impiegatuccio over 60 dell’anagrafe un bellissimo nome nuovo di zecca, Janet si chiamava Gertrude Maria Barbero. È nata a Settimo Torinese. Verso i diciotto si è trasferita a Milano e ha iniziato a farsi chiamare Janet, Janet e basta, senza cognome: i nomi e i cognomi italiani sono poco appetitosi, nel senso che non fanno venire l’acquolina in bocca. Non sono juicy, sono soltanto… fossili. Cose vecchie. A nessuno importa delle cose vecchie, quindi l’unico modo appagante di stare al mondo è vivere da non-italiano; infatti Janet si è scelta la città meno italiana d’Italia, Milano, e comunque progettava di scapparsene a Manhattan. Non a New York, a Manhattan: tutto ciò che non è Manhattan, non è nemmeno New York – così dice Janet; e se lo dice lei allora puoi stare sicuro che è vero.
Janet dice solo cose vere, nel senso di giuste, e tendenzialmente interessanti; ma quando mi ha detto la cosa della mano non pensavo fosse vera anche quella. Vera nel senso di vera, questa volta. Pericolosamente reale.

Ce ne stavamo svaccate a casa sua, le tette incorniciate in un paio di reggiseni imbottiti e un filo di nailon che ci correva in mezzo alle chiappe: il nostro costume da bagno modello ‘Caribbean Crystal’, della nuova linea che abbiamo disegnato per Tezenis. Janet affettava il sashimi e io sgranocchiavo gambi di sedano in pinzimonio.
Aspettavamo ospiti, gente di un certo livello, tanto che non mandavo giù cibi solidi da una settimana per avere la pancia ultra-piatta; e mentre mi godevo il sedano, mentre controllavo che le mie tette fossero adeguatamente strizzate e cosparse di lozione illuminante, Janet ha sbottato: “Non ne posso più di questa mano. Non la sopporto. Non sopporto che gli hater mi insultino, che mi facciano notare quanto è gonfia e ripugnante e… mollicciosa. Sembra un cazzo di copertone squagliato! Solo che i copertoni sono neri, mentre la mia mano è rossa”.
“Infatti non sembra un copertone. Sembra un pezzo di carne da macello.”
“Così non mi aiuti per niente.”
“Stavo scherzando. La tua mano non fa schifo. Cioè fa schifo, ma non troppo. Non al punto di sembrare la carcassa mutilata di un pollo o di una vacca.”
“E questo dovrebbe consolarmi?”
“Sei stata tu a martoriarla, J. Potevi pensarci prima.”
“Io volevo fare qualcosa di nuovo!”
“Ficcare una mano dentro al tritarifiuti non è nuovo. È soltanto stupido.”
“Sei uguale a certi miei follower, Ollie. Sei una hater. Haters gonna hate: non andrete lontano, voi piccoli topi odiatori. Squittirete e odierete; squittirete e odierete; e dopo striscerete nella polvere. Nei secoli dei secoli.”
“Amen.”
“Cretina.”
“Senti chi parla!”
“Forse mi sto facendo influenzare troppo.”
“Mi sa tanto, J.”
“Ormai sono io che mi faccio influenzare dai miei follower, e non il contrario.”
“Direi che qui c’è bisogno di ripristinare l’ordine naturale delle cose.”
“Hai ragione, Olivia. Lo farò.”
Non pensavo che Janet si sarebbe tranciata la mano, a quel punto.

Mi aveva chiamata col mio vero nome – Olivia, e quando Janet usa parole italiane piuttosto che inglesi c’è proprio qualcosa che non va; però credevo che il nostro discorso, il discorso che avevamo fatto, fosse uno di quelli che ti illuminano e ti cambiano la vita, e allora tu diventi tipo super-zen e chill e ti convinci di aver risolto tutti quanti i tuoi problemi. Se avessi immaginato che Janet meditava di mutilarsi, di farsi ancora una volta del male, non l’avrei lasciata sola a preparare il sashimi per il pool-party di Tezenis organizzato nel suo appartamento – con piscina Jacuzzi e vista stratosferica su Piazza Duomo. L’avrei affettato io, il sashimi; e intanto avrei trovato il modo di consolarla. Di farle capire che a nessuno frega nulla di una stupida mano, quando hai la quinta di seno e il culo perfettamente livellato da una serie infinita di squat e iniezioni estetiche.
“C’è rimasta un po’ di coca? Quella di ieri.”
“Giacca Prada, tasca interna. Ingresso”, ha mormorato Janet, concentratissima sul suo sashimi. Riesce ad affettarlo da Dio, nonostante abbia perso gran parte delle funzionalità della mano destra: in pratica regge il pesce con la destra e poi lo affetta con la sinistra, e abituarsi a usare la mano sinistra e non la destra le è costato un sacco di sacrifici, perché Janet è destrorsa. Ha dovuto pagare un tizio, una specie di personal trainer delle mani, che andava a casa sua e le faceva fare degli assurdi esercizi per le dita. Credo che la scopasse anche. Gratis, ovviamente.
“Perché vuoi pippare ora? Non puoi aspettare che arrivino gli altri?”
“Ho troppa fame, J. Se m’imbottisco di sedano lievito come un pallone; invece con la coca mi passa.”
“Ok. Ma lasciamene un pizzico.”

Janet ha un bellissimo tavolo in cucina, un tavolo liscio su cui puoi stendere la coca alla perfezione, ed è proprio un piacere sbriciolarcela sopra, guardare la polvere che cade e si sparge sulla superficie in vetro nero come una morbida via lattea fatta di cipria, guardare le pietre più grosse che rotolano dalla busta, bloccarle con la tessera del centro estetico DD Beauty by Davide Diodovich poco prima che cadano a terra, schiacciarle con quella stessa tessera, leccarla per bene da entrambi i lati, sentire l’amaro che scende in gola e il mondo intorno a te che all’improvviso diventa stranamente tollerabile.
“Non mi hai mai detto perché l’hai fatto.”
“Fatto cosa?”
“La cosa del tritarifiuti.”
“Oh, quella. Beh, stavo perdendo follower”.
“Pure io. Che palle”, dico, mentre stendo un paio di botte e arrotolo stretta una banconota da cento.
“Il mio ranking calava a vista d’occhio. Non mi avrebbe ingaggiato più nessuno, con quel ranking da poveraccia. Dovevo pensare a qualcosa. Qualcosa di nuovo.”
“Nuovo e stupido.”
“Non ho fatto una cosa stupida. Ho fatto l’unica cosa che potevo fare.”
“Potevi comprare qualche follower. O magari fare follow-unfollow per un periodo, e…”
“Io non uso questi mezzucci.”
“Sempre meglio che ridursi una mano in poltiglia.”
“Ho provato a pensare ad altre soluzioni, ma erano un po’… estreme.”
“Tipo?”
“Cambiare sesso.”

Prima di rispondere, mi sono pippata tutte e due le botte. Mi serviva un sacco di bamba per sopportare le stronzate che la mia ex partner in crime stava tentando di propinarmi, spacciandole per cose normali. Cose da vere amiche.
“Tu sei pazza, J. Sei fuori totale”, faccio, tirando su col naso.
Janet ha battuto il manico del coltello sul tagliere.
“Che c’è? Sai quanti follower avrei guadagnato se mi fossi attaccata un pene, un vero mega-cazzo lungo e largo da maschio alfa? Se avessi raccontato ai miei seguaci lo struggle per questa trasformazione così dolorosa, così profonda, le paranoie dei miei parenti e il cyberbullismo e via dicendo, e insomma tutte quelle troiate strappalacrime gay/trans/queer-friendly che vanno di moda adesso?”
“Ok, ok, ok, ma comunque avresti avuto un cazzo. In mezzo alle tue gambe. Per sempre. Un cazzo estraneo eternamente moscio, perché non so quanto funzionino le operazioni di cambio di sesso. Secondo me ti rimane moscio e dondolante per tutta la vita, tipo il batacchio di una campana. Oppure ti ci devi ficcare dentro una micro-pompa di plastica per tirarlo su. Come Berlusconi.”
Janet si è avvicinata in silenzio al mio cielo notturno, il mio regno ultraterreno fatto di bianca e banconote da cento.
“C’era… un piano B. Prima della mano, intendo; che invece era il piano C”, ha mormorato, quasi temendo le sue stesse parole. “Ho pensato di dire che avevo il tumore al cervello”.
Le parole rimbombano sempre, a casa di Janet, con quei soffitti alti e scoscesi che sembrano fatti apposta per metterti l’ansia; le parole sembrano sempre più belle quando te le rigiri in testa, quando non c’è nessuno ad ascoltarle, ad ascoltare che suono fanno. Che sapore hanno.
“J! Ma porca puttana! Non potevi, che ne so… sgravare un paio di gemelli oppure adottare un bambino nigeriano?”
“Ho pensato di farmi prestare una lastra da Francesco.”
“Chi è Francesco? Santo Dio!”
“Francesco Chiofalo.”
“Il romanaccio con la testa rasata? E da quand’è che sei amica sua?”
“Ma che ti frega, Ollie!”
“Sto cercando di capire»”
“Francesco ha postato delle IG Stories per annunciare ai follower che aveva un tumore al cervello.”
“Dio santo. Dio mio.”
“Era un tumore benigno, il suo – non uno di quelli che ti seccano in un paio di mesi; ma Francesco ha fatto comunque un mare di views. È passato da circa novecentomila follower a un milione e mezzo.”
Views… per cosa, esattamente?”
Janet ha afferrato la banconota e si è tirata una bella botta anche lei, prima di continuare.
“Avrei finto di combattere il tumore.”
“Mi sta venendo l’emicrania, J-J.”
“Poi avrei annunciato che stavo per operarmi, che avrei rischiato di morire e tutto il resto; poi avrei detto no ragazzi pazzesco sono sopravvissuta all’insopravvivibile mostro chiamato cancro oh-mio-Dio!, e ho capito un sacco di cose, grazie al cancro, cose che voglio condividere con voi, per esempio: l’amore del tuo partner e il supporto della tua famiglia sono troppo fondamentali in situazioni come questa, e…”
“Insopravvivibile? Ma che razza di parola è?”
“Mi avrebbero amato. Giovani, vecchi, maschi, femmine. Ricchi. Poveri. Soprattutto, ricchi. Grandi aziende: a loro farebbe comodo una testimonial che ha sconfitto il cancro.”
“E perché non lo hai fatto? Perché non hai chiesto le lastre a Francesco, e… perché cazzo ti sei frullata una mano?”

Janet ha sospirato, trascinandosi penosamente verso il tagliere. Ha preso il coltello con la mano sinistra, e con la destra ha provato ad agganciare lo scivolosissimo e altrettanto costoso filetto di salmone norvegese per cui ha speso non so quanti euro in so quale pescivendolo esclusivo (boutique del pesce, direbbe Janet) di Milano. Stringeva quel filetto gelatinoso senza troppa convinzione. Dimenticando tutti gli esercizi di strizza-molla-strizza che il suo personal trainer le aveva insegnato.
“Che c’è? Che ho detto di male?”
Janet è scoppiata a piangere, e in quel momento mi è sembrata più Gertrude che mai: aveva la schiena ingobbita, tutta scossa dai singhiozzi, il viso stropicciato e umido come uno straccio pieno di moccolo, i capelli sconvolti, che le piovevano a ciocche davanti alle palpebre in un agghiacciante stile liane-di-Tarzan.
“Spero proprio che il tuo rimmel sia waterproof.”
“Non ce la faccio, Ollie. Non li sopporto.”
“Tra una mezz’ora saranno tutti qui. E per tutti intendo tutti-tutti. La Milano posh. Vuoi davvero farti trovare in questo stato?”
“Io li odio i miei hater, LI ODIO!”
“Ok, va bene, però calmati. Fai un bel respiro.”
“Odio anche il fatto di odiarli. Di non riuscire più a contenerlo, il mio odio.”
“Sali in camera e sciacquati la faccia. Dammi retta.”
Janet mi ha guardato con due occhi enormi, più gonfi delle protesi mammarie che si è fatta innestare il mese scorso. Brillavano, i suoi occhi. Brillavano e colavano a fiumi lungo le guance di Janet. Janet ha fatto lentamente cenno di sì con la testa, e ha provato ad arginare l’esondazione di quegli occhi tumidi con un fazzoletto. Qualche goccia di rimmel si è spiaccicata sul sashimi..
“Pulisci il tavolo, Ollie.”
“Una metà degli invitati pippa e l’altra metà finge di no, ma pippa molto di più e molto più spesso della prima metà. Chissenefrega se sul tavolo c’è un po’ di polvere.”
“Noi non apparteniamo a nessuna metà. Noi siamo sole. E lo saremo sempre”, ha gorgogliato Janet, asciugandosi il naso col dorso della mano sinistra. Poi ha ciondolato fino alla scala in marmo rosa che conduce al piano superiore dell’appartamento e, mugolando e tossicchiando, è sparita.

Io ho fatto sparire la coca. Nel senso che me la sono pippata tutta. Dopodiché mi è venuta sete, così sono uscita in terrazzo: io e Janet avevamo sistemato il tavolo del buffet di fronte al Duomo e sparpagliato una ventina di puf verde/azzurro Tiffany lungo il perimetro della piscina, dei cosi morbidi imbottiti di piume sui quali gli ospiti avrebbero potuto accomodarsi, o meglio svaccarsi. Mi sono attaccata alla prima bottiglia di Dom Perignon che ho trovato incustodita nel cestello del ghiaccio e mi ci sono svaccata io, su quei puf puffosi ultra-verdi e un po’ azzurri. A quel punto ero strafatta e mezza ubriaca, ma comunque abbastanza lucida per rendermi conto che Janet ci stava mettendo troppo a darsi la sua sistemata: avrebbe costretto i nostri ospiti ad aspettarla. Fashion blogger, modelli, stilisti, attori, rapper, suicide girl: potevo già immaginarmeli, inamidati e ingessati sul terrazzo di Janet come tanti, ridicoli soldatini di piombo.
Ho bevuto altro champagne e selezionato una playlist lounge ambient su Spotify.
Avevo una gran voglia di fumare, ma il pensiero dei danni che il fumo avrebbe arrecato ai miei denti, un giorno, mi ha trattenuto dal frugare nella pochette di Janet e rubarle una Marlboro Light. Il sashimi si arrostiva sotto al sole calante, e il tramonto mi è sembrato più rosso del solito, grazie a tutto quel pesce. Rosso e arancione. Striato di bianco.

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Poi di colpo sono arrivate due, cinque, dieci, centomila persone, ed è toccato a me intrattenerle: non ricordo più niente, da quel momento, niente o quasi, a eccezione di un paio di discorsi e del fatto che di Janet non ci fosse traccia.
“Francesco è uno stronzo. Mi ha messo le corna”, piagnucolava Selvaggia, la tipa che ha partecipato a Temptation Island insieme a lui. Lui-lui, quello del cancro. Io a malapena l’ascoltavo, lei. Lei-lei, la lagnosa cornuta.
“Allora non è vero che piace a tutti.”
“Ma chi lo caga!”
“Vuoi dello champagne, Selvaggia?”
“Sono a dieta. Che significa che Francesco piace a tutti?”
“Janet dice che è diventato super famoso. Da… dal cancro, ecco.”
“Ancora con questo cancro? Guarda non ce l’aveva. Cioè ce l’aveva, ma era benigno.”
“Beh… è così… mainstream il tumore maligno.”
“Alla gente basta sentire la puzza di morto e subito se ne esce di testa. Subito ama. Deficienti.”
Ero molto confusa. Tutto quel gran parlare di cancro e di morte mi aveva fatto venire la nausea. Ho mandato giù un altro bicchiere.
“Vado a cercare Janet”, ho detto, tentando di mollare quella pazza sclerata di Selvaggia.

Sono rientrata in casa, attraversando la foresta di gambe braccia bocche biascianti che aveva inghiottito il nostro terrazzo, oscurando la bellezza del Duomo, il fascino sommesso di Milano centro quando cala il sole, e mentre camminavo, mentre sgattaiolavo all’interno dell’appartamento, sono stata tartassata da un fuoco di fila di domande che avevano tutte lo stesso suono: cos’è successo alla mano di Janet?
Non la sopportavo più, quella cazzo di mano.
La mano di Janet di qua, la mano di Janet di là, e come sta la nostra splendida Janet, e come ha fatto a ridursi in questo stato, è forse shoccata, traumatizzata, si riprenderà, ah sì e quando, credi che sia abbastanza ok questa cosa, credi che in fondo stia bene nonostante il trauma, no perché in foto fa schifo quella povera mano, è un peccato che la sua immagine, l’immagine di Janet, si sia rovinata, avrebbe fatto una lunga carriera con una piccola mano elegante come quella che aveva prima, era proprio una splendida mano, la sua, una mano destra così rosea e delicata e superbamente smaltata non si era mai vista su Instagram, eh vabbè gli incidenti capitano a tutti ma soprattutto ai migliori, che tristezza questo lurido mondo crudele, se ne vanno sempre i migliori. Se avessi avuto una mitragliatrice a disposizione, avrei trucidato fino all’ultima testa di cazzo presente alla nostra festa, e dopo aver crivellato i miei ospiti, dopo essermi goduta lo spettacolo di quei corpi maciullati e freddi, finalmente scomposti, un’esplosione di coriandoli nella luce del tramonto, avrei bevuto il loro sangue – così, con le mani a coppa, come quando hai la gola secca e ti fermi e bevi dalle fontane del parco.
Sono entrata in camera di Janet, ma di Janet neppure l’ombra. Ho notato delle macchie sul letto.
Non pensavo che si fosse staccata la mano. Dico davvero.
Pensavo si trattasse di mestruo, anche se un mestruo tanto abbondante da lasciare una strisciata grumosa per tutta la lunghezza del materasso non lo avevo mai visto. Però che ne so. Che potevo saperne. Magari Janet era una col mestruo esagerato.

Sono scesa al piano di sotto, attraversando la cucina per uscire in terrazzo. In cucina mancava il coltello da sashimi: Janet lo aveva abbandonato sul tagliere, ancora unto di grasso di salmone. Non lo vedevo più. Ho incominciato ad agitarmi sul serio. Mi sono messa a frugare nella pochette di quella stronza esaurita e le ho scroccato una Marlboro Light. Non ho fatto in tempo ad accenderla che una tizia semi-sconosciuta mi ha schiaffato in braccio suo figlio, il bambino più giallo dell’universo, giallo nel senso di biondo, credendo forse di farmi un piacere. Le persone coi figli pensano sempre che tutti adorino i loro bambini almeno quanto li adorano loro. E nessuno ha mai il coraggio di dirgli che si sbagliano.
“Richi è innamorato di te. Ogni volta che ti vede ride!”, ha detto la tizia, con il tipico sorriso nitido che contraddistingue i non fumatori. Avrei dovuto buttarla, la mia sigaretta, ma non sono abbastanza forte per disfarmi delle cose che mi fanno male.
“È… biondissimo”, ho mormorato, pregando che il coso giallo non avesse in programma di rigurgitare sul mio costume.
“Mi dispiace molto per Janet”, ha detto la tizia.
“In che senso?”
“Sai, la sua mano…”
“Ah, sì. La mano.”

Quanto vorrei una mitragliatrice per trapanarti il cervello, ho pensato, guardandola dritto negli occhi. Lei ha sorriso. Di nuovo. Si è ripresa il figlio, cinguettando cose tipo “sbiru-sbiru” e “amore di mamma”.
“Gli hater si sono scatenati, dopo la mano.”
“Lo so.”
“Scrivono robe tipo fai schifo Janet, ammazzati, se tocchi qualcuno con quella manaccia gli passi la lebbra.”
Haters gonna hate, tesoro.”
“È strano, però. Di solito gli storpi piacciono.”
“Come?”
“Nessuno odia gli storpi, Ollie!”
“Ma Janet non è storpia. Si è soltanto frullata una mano.”
La tizia mi ha squadrato con aria perplessa.
“Forse Janet non si è storpiata abbastanza per essere amata”, ha sentenziato.
“Janet non è storpia.”
“Per essere amato sul serio devi essere storpio sul serio. Devi finire sulla sedia a rotelle, oppure devi… che ne so… sfigurarti con l’acido.”
“Janet non è niente di tutto questo.”
“Appunto. È solo una bella ragazza con un difetto.”
E poi qualcuno ha urlato.
Qualcuno che aveva scoperto il sangue in camera di Janet, suppongo.
Qualcun altro ha chiamato gli sbirri, e allora gli ospiti si sono dati alla fuga; defluivano disordinati, sbatacchiavano gli uni contro gli altri, e nessuno che mi chiedesse come stai Olivia, hai bisogno d’aiuto, macché, volevano andarsene, scappare lontano da me, da noi, a centinaia di migliaia di chilometri da tutto quel sangue prima che gli sbirri trovassero quintali di droga nelle loro giacche in ecopelle cucite su misura, nelle loro mini-pochette sparkling targate Versace. Colpa di Janet, ho pensato io. È sempre stata colpa sua. Della sua cazzo di mano.

Poi sono arrivati gli sbirri. Mi hanno fatto un sacco di domande. Io gli ho raccontato la storia della mano e del coltello, il coltello da sashimi sparito nel nulla, puf, che non si trovava più da nessuna parte. Gli sbirri si sono appuntati qualcosa sopra un taccuino e sono scappati via pure loro.
Poi qualcuno ha avuto la bella pensata di affiggere in giro per Milano dei maxi cartelloni con la faccia di Janet. Credo sia stata opera dei suoi genitori.
In quei cartelloni, Janet aveva la faccia sorridente e la mano destra circondata di emoticon a forma di cuore; e sotto alla foto c’era un appunto che invitava il pubblico a contattare la polizia nel caso in cui si possedessero informazioni rilevanti “circa la persona scomparsa”. Janet la persona scomparsa: mi faceva proprio strano pensarci. Tutti la amavano, adesso che non c’era più. Tutti le volevano bene. Aveva guadagnato mezzo milione di follower in due, tre giorni, nonostante la sua mano deforme, nonostante quei ridicoli cartelloni, l’apoteosi del trash e del cattivo gusto. E comunque avevo visto di peggio, tipo il video che alcuni ex-hater hanno dedicato a una pornostar suicida, una roba montata da culo che dura più o meno un’ora e mezza, con “Wish you were here” di sottofondo e una serie di torbidi close up della vagina di lei: immobile, in movimento, sollazzata, penetrata, con un arsenale di telecamere imbizzarrite che la riprendono. C’erano scritte commemorative in dissolvenza dedicate alla vagina superstar: “Rip baby”; “Best pussy ever”; “We love u 4 ever”. Eccetera eccetera.

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E poi niente. Schermo nero fino a questa mattina.
Questa mattina hanno trovato una mano masticata vicino alla cisterna dell’acqua, sul Naviglio Grande. E io credo, anzi sono assolutamente certa, che si tratti della mano destra di Janet.
Quando ho visto quella mano al telegiornale, con lo smalto spennellato a puntino e un fiume di sangue tutt’intorno sull’asfalto, mi è tornato in mente un cortometraggio che io e Janet abbiamo girato tempo fa, dentro a un vecchio manicomio abbandonato alla periferia di Milano: dovevamo ballare un lento in abito da sera, muovendoci tra pile di mucche squartate. I corpi delle mucche erano disposti l’uno sull’altro, accatastati in angoscianti tumuli sacrificali. Io e Janet sembravamo più belle, tra quelle macerie. In mezzo a tutte quelle mucche. Stavamo protestando contro il consumo sfrenato di carne, o almeno così diceva il video-maker/artista concettuale che ci aveva ingaggiate per la performance; ma in verità io e Janet volevamo solo sembrare belle, più belle che mai.

In quanti modi si può essere belli? Quanti difetti possiamo perdonare alla bellezza?
Non lo so. Non so più niente. È una cosa troppo dolorosa, la bellezza imperfetta. E magari quella mano, la mano di Janet, non l’ha masticata un cane. Magari un giorno avrò anch’io il mio difetto, la mia colpa incancellabile, e allora odieranno anche me.
“Ragazze però vi dovete impegnare – ci sgridava il video-maker – Dovete sembrare dispiaciute veramente. Dovete piangerci, per quelle cazzo di mucche, come fossero le vostre cazzo di madri. Immaginate le vostre madri morte ammazzate, avanti. Anzi no: immaginate i vostri corpi, freddi e duri, stramazzati a terra. Non vi viene da piangere? Ecco, brave. Ballate, su! Ballate! Più grinta, più enfasi! E non vi azzardate a fermarvi. Non potete. Vi fermerete solo quando ve lo dico io; se ve lo dico io”.
Siamo tanti, buffi brandelli di carne, ho pensato. Coriandoli costretti a danzare nella luce straniante del tramonto.

Testo Claudia Grande
Illustrazione Nikos Alteri

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