UMID(O)
Una rubrica in collaborazione con Luca Marinelli:

 

BEL MUSINO

Sarei voluta scivolare sulla panchina per invitare il suo corpo a salirmi sopra. Invece Jacopo mi girò di schiena e, piegandomi in avanti con una spinta della mano, mi sollevò la gonna e tirò giù le mutande. A immaginarmi dalla sua prospettiva, con la carne dei glutei esibita, mi tornò in mente la prima volta che ci eravamo parlati.

Da piccole, quando nevicava, io e mia sorella ci incontravamo dopo scuola con gli altri bambini del paese nel prato di fronte a casa nostra per andare in slitta. Era una grande distesa incolta che si apriva a margine della strada. D’estate l’erba ci arrivava alle ginocchia, graffiandoci i polpacci. Dopo un centinaio di metri il prato prendeva a salire per un po’, per poi scendere piano e poi ancora salire. Noi del posto le chiamavamo Le collinette.
Quello era il posto destinato alla discesa in slitta, per chi l’aveva. Chi non l’aveva si accontentava di scivolare con un sacco dell’immondizia sotto le natiche. Io ero la più piccola del gruppo e spesso, per una gerarchia cattiva che mi dava il magone, ero privata di tutto, mi limitavo a fissare gli altri rannicchiata per terra. Il pomeriggio in cui incontrai Jacopo avevo provato a sfogare la mia umiliazione strillando contro Gloria senza prendere fiato. Lei mi aveva lasciato fare in silenzio, poi aveva cercato con malizia lo sguardo complice di mia sorella e insieme erano scoppiate a ridermi in faccia. Avevo osservato torva le loro guance già arrossate dall’aria gelida farsi violacee per il riso, poi mi ero allontanata in direzione delle collinette. Una volta arrivata nel punto più alto, avevo seguitato a camminare, a grandi passi, affondando i piedi nelle orme di suole giunte prima di me, gli occhi piantati a terra nell’ipnosi del rumore della fanghiglia. Senza accorgermene mi ero spinta fino all’estremità del prato: davanti a me si alzava il bosco dissolto nella neve. Ero già stata in quel bosco, tempo prima, insieme a Gloria. Lei lo conosceva bene, suo padre la portava lì a raccogliere le castagne in autunno. Si era fatta strada con sicurezza tra i grovigli di rami fino a portarmi in mezzo a una piccola radura. Con il dito aveva indicato la capanna di legno che stava al centro dello spiazzo.
Con voce allusiva, un po’ esitante, aveva detto: “Questa è la capanna della prostituta”.
L’avevo fissata senza espressione.
“La moglie del contadino che vive vicino a casa mia. Hai presente? Quella brutta, magra magra, che ci regala le caramelle al mercato del giovedì. Di giorno lavora con il marito in mezzo alla mucche. Di notte viene qui a fare la prostituta.”
“Chi te l’ha detto?”
“Papà.”

In quel momento, sola di fronte al bosco, con lacrime di stizza condensate tra le ciglia, ebbi il desiderio di provare paura. Mi domandai se sarei stata in grado di ritrovare la capanna senza perdermi e morire di freddo ai piedi di un albero, mentre con le mani tentavo già di aprire un varco tra i rami bianchi.
Avanzai abbastanza da perdere di vista il punto d’ingresso nel bosco. Le impronte dei miei stivali sopravvivevano per pochi istanti sul terreno alle mie spalle, dal cielo cadevano grumi molli di neve che una volta a terra erano già acqua impantanata.
Per tornare indietro, mi dicevo, sarà sufficiente voltarmi e proseguire in linea retta da dove sono venuta; ma quando, poco dopo, riconobbi la radura in cui mi aveva condotto Gloria, con la capanna quasi irriconoscibile sotto ampi strati bianchi, fui sopraffatta dal bagliore della neve e dimenticai la direzione dalla quale ero arrivata. Ero sul punto di scoppiare a piangere quando, all’improvviso, fui distratta da una voce maschile che canticchiava in dialetto. Spostandomi di qualche passo a sinistra, intravidi una figura incurvata a terra, con la schiena poggiata alla porta della capanna. Jacopo.

federica nurchi 2

Sapevo chi era, viveva a qualche chilometro da casa mia, sul confine tra il mio paese e quello limitrofo. Della sua famiglia si parlava molto a quei tempi, per via del misterioso incidente occorso a suo zio mentre lavorava nella fabbrica di sua proprietà. Avevo qualche informazione a riguardo, captata dai discorsi serali che i miei genitori si scambiavano sempre a fine giornata, sdraiati l’uno accanto all’altro sul divano, nel brusio di sottofondo della televisione. Questo l’episodio: lo zio di Jacopo aveva perso una mano, in fabbrica, tranciata da un macchinario che io mi ero immaginata come una sorta di ghigliottina. Più o meno tutti in paese erano dell’idea che non si fosse trattato di un incidente e che l’avesse fatto apposta, a tagliarsi la mano. A me sfuggiva la logica, avevo chiesto spiegazioni mettendomi in ginocchio sul pavimento ai piedi del divano.
“Per soldi – aveva risposto mio padre – la ditta stava andando in fallimento”.
Ancora non capivo, però avevo continuato a fare domande, quella sera e nei giorni seguenti, incalzando soprattutto mia madre. Nelle ore pomeridiane, di ritorno da scuola, la seguivo da una stanza all’altra mentre sbrigava le faccende di casa. Ero affascinata dai dettagli: che cosa ne avevano fatto della mano? Si era staccata tutta d’un pezzo o solo per metà? Non avevano tentato di ricucirla? La immaginavo penzolante in fondo al braccio, il sangue già coagulato nel punto in cui la carne si era aperta. Ma più di ogni altra cosa a sedurmi era il tono, grave e allusivo, segretamente compiaciuto, che mia madre assumeva parlandomene.
Capitava di incontrare Jacopo e il suo gruppo in paese. Camminavano in mezzo alla strada scostandosi svogliati al passaggio delle macchine, ridevano rozzamente e dicevano parole dure in dialetto. Se ero con gli altri bambini del quartiere mi agitavo poco alla loro vista. I maschi del nostro gruppo li salutavano dandosi toni spavaldi, vagamente ridicoli, per stare al passo con quelli, che ci superavano in età di una decina d’anni. Se giravo con mia sorella e Gloria o, peggio, soltanto con Gloria, più pavida persino di me, acceleravamo il passo e fingevamo indifferenza quando uno di loro alzava il tono di voce per farsi sentire al nostro passaggio o quando ci si rivolgeva in modo diretto con un’osservazione, di solito da buffone. Gloria li conosceva uno per uno; quando li superavamo mi diceva all’orecchio cose su di loro, sui loro genitori, in genere storie di soldi, di bocciature scolastiche, di droga e alcolismo.

Una volta mi ero imbattuta in Jacopo e nel suo amico più stretto lungo il marciapiede della strada principale del paese. Mi avviavo sola verso casa dopo aver passato il pomeriggio a giocare sul tappeto del salotto di Gloria. Nel trovarmeli davanti, a qualche decina di metri da me, ero caduta in uno stato di panico penoso. Avevo pensato di fare marcia indietro e tornare a casa di Gloria, ma l’agitazione mi aveva messo nelle gambe una frenesia insopportabile – impulso di mettermi a correre, scappare via – che mi impediva di fermarmi. E d’altro canto era già tardi, rimandando il rientro a casa avrei dovuto camminare al buio e mi sarebbero tamponate in petto altre paure. Continuai a camminare con la gola secca, fissandomi i piedi. Nell’istante in cui ero passata accanto ai loro corpi seduti a gambe tese sul marciapiede – Jacopo le incrociò, al mio passaggio, per sgombrarmi il cammino – avevo una tale arsura sulle guance che ero riuscita a pensare solo che vergogna, mi prenderanno in giro. Un secondo dopo ero già oltre, ormai salva, avevo deglutito a fatica e il brusco calo di adrenalina mi aveva stordito un poco. Imboccato il vialetto di casa avevo rilassato le dita indolenzite dalla foga con cui in strada si erano strette intorno alla borsa di plastica in cui tenevo le mie bambole. Mi era sfuggito un risolino sfinito.

In quel momento Jacopo era seduto a terra a gambe divaricate, nella luce silenziosa della radura, a qualche passo da me. Con le mani si indaffarava a mettere insieme lunghe assi di legno servendosi di una corda che teneva scompostamente lungo le braccia. Forse costruiva una slitta. Io dovetti far rumore con gli stivali, perché lui alzò lesto lo sguardo nella mia direzione e, la sigaretta stretta tra le labbra livide di freddo, mi rivolse un sorriso osceno.
“Ciao bimba. Da dove vieni?”
Il cuore mi pulsava nelle orecchie come una ferita calda.
“Dalle collinette.”
“E che ci fai qui?”
“Non so tornare indietro”, risposi articolando a fatica le sillabe per l’intorpidimento delle labbra.
Spalancò gli occhi divertito, poi disse: “Oh, ti accompagno. Aspetta un attimo.“
Si alzò da terra grossolanamente, e piegando il busto in avanti prese a raccattare in qualche maniera le assi di legno ancora slegate spingendole contro la facciata della capanna. Si inclinò, al punto che il giaccone corto e logoro che indossava si sollevò, scoprendo prima la pelle bianca della schiena, e poi la linea in mezzo ai glutei. Gli eccessi adiposi ai lati della vita schizzarono fuori dalla cintura dei jeans troppo serrata. Mi fece pensare a un animale goffo, ma pieno di brutalità. Eppure non riuscivo a distogliere gli occhi da quella linea scura in fondo alla schiena, smisi perfino di avere paura. Anche nella profondità del bosco, poco dopo, mentre Jacopo mi scortava fischiettando verso le collinette con il suo passo pesante e sgraziato, lo seguii docile e silenziosa con un sorriso quieto.
Quando, infine, mi lasciò al confine del bosco, mi strinse il mento con la mano e disse allegro “ciao bel musino”, avvertii un calore placido in pancia e restai ferma, svagata, a fissarlo mentre tornava sui suoi passi.

Ora Jacopo mi stringeva i fianchi da dietro respirando forte. Io, le mani strette intorno al bordo alto della panchina, mi abbandonavo a un piacere che, più che sciogliermi i sensi, pareva infettarli. Potevo rivedere noi due, poco più di un’ora prima, lasciare la festa con discrezione, gli sguardi cauti nel timore di essere notati. Uscendo dal bar una mano mi aveva trattenuto con forza per il braccio, mi ero voltata e Gloria, gli occhi in apprensione, si era mangiata le parole per dirmi tutto prima che Jacopo si accorgesse della sua presenza. Avevo colto solo l’imperativo iniziale: non farlo. Avevo stretto le labbra, come a dire ormai è fatta, poi avevo proseguito con Jacopo camminando adagio al suo fianco. Avevamo attraversato la strada e con il dito avevo indicato l’ingresso del sentiero tra gli alberi che costeggiava il fiume. Era notte, da lì non sarebbe passato nessuno.
“Dove andrai dopo?”, gli avevo chiesto, poco prima di intravedere nel buio la prima panchina del sentiero.
“Da un amico, forse.”
Mentiva. Sarebbe tornato a casa, come sempre. Superando a passi lenti la camera dove dormivano i bambini, avrebbe varcato la porta della stanza matrimoniale. Infilandosi nel letto già caldo avrebbe trovato sua moglie ancora sveglia, gli occhi affilati, la bocca tesa, già pronta a vomitare il solito interrogatorio. Dove sei stato, con chi, hai visto ancora quella. In giro, con gli amici, no.
Potevo risentire gli strilli di Daria, dall’altro capo del telefono, pochi giorni prima. Avevo sentito il cellulare vibrare nella tasca, sullo schermo un numero sconosciuto, avevo risposto senza pensare.
“Stupida ventenne rovinafamiglia, ti è piaciuto aprire le gambe davanti a mio marito, se ti vedo in giro ti strappo i capelli.”

federica nurchi 1

Ora Jacopo mi soffocava il respiro in pancia con il peso del suo corpo. Intorno alle nostre sagome le prime lucciole dell’estate flettevano nell’aria come effervescenze luminose a intermittenza. Oltre la testa di Jacopo vedevo il cielo profondo con la sua cupola di stelle. Mi sentii osservata da quel cielo, mi rimproverava, chiedeva: cosa fai, perché. E la panchina dura sotto la schiena mi sembrò sprofondare in un punto disgraziato sottoterra.
Prima di portarmi a casa passammo un po’ di tempo in macchina, nel parcheggio del bar chiuso già un paio d’ore. Abbandonata sul sedile in un languore di sonno, osservai Jacopo estrarre dalla tasca anteriore dei jeans un sacchettino di plastica trasparente. Versò il contenuto sul cruscotto dell’auto e piano, con metodo, allineò i minuscoli granelli bianchi in una striscia regolare.
“Vuoi provare?” domandò senza guardarmi.
“No grazie.”
“L’hai mai fatto?
“No.”
Una volta avevo spiluccato con il dito qualche rimasuglio di polvere per testarne il sapore amaro sulla punta della lingua.
Feci per scendere dalla macchina, ma Jacopo mi trattenne con la mano e, ottenuto il mio sguardo interrogativo, sorrise, forzando l’apertura della bocca per qualche secondo. Poi disse: “Ciao bel musino”.

Infilandomi sotto il lenzuolo freddo avvertii con i piedi macchie di terra secca lungo i polpacci, negli incavi delle dita. Dal collo mi saliva un odore confuso – sudore e saliva. Lo accolsi senza voglia. Sentivo ancora nei capelli l’umidità della panchina in riva al fiume. Immaginai gocce tremolanti muoversi sulla superficie delle ciocche. Sperai che mi pulissero, nelle ultime ore della notte, per essere anch’io al risveglio, come loro, rugiada di un nuovo mattino.

Testo Sharon Vanoli
Illustrazioni Federica Nurchi

One thought to “Bel musino”

  1. Ottima scrittura !! I miei complimenti
    Ad es. “ebbi il desiderio di provare paura”
    ma tutto l’andamento è molto notevole,
    dolorosamente eccitante
    S.C.

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