Quando accompagnai Tucci alla stazione ci congedammo come se ci dovessimo rivedere il giorno seguente.
Lui mi disse: “Scrivimi quanto ha fatto il Catania”.
Io gli risposi: “Ok, ti è rimasta una sigaretta?”
Sfilai una sigaretta dal suo pacchetto di Lucky Strike e mi diressi verso l’uscita.
E così Tucci partì per Dublino, in cerca di un lavoro o di non si sa bene cosa, e io rimasi l’ultimo bastardo di mia conoscenza a vivere in questo canile di città.
Camminai sotto i portici sospinto da una certa fretta, schivando i passanti come se avessi qualcosa di urgente da sbrigare. Il cielo salivava impercettibili spruzzi di pioggia che, goccia dopo goccia, mi inzuppavano il colletto della camicia.
Volevo bene a Tucci perché era un bravo ragazzo e perché aveva scelto di affrontare l’università in modo rilassato, per cui tutte le volte che avevo avuto voglia di bere una birra lui non si era mai tirato indietro, ultimo baluardo di una generazione perduta di gentiluomini da compagnia.
Ma poi erano arrivati gli ultimi esami, una tesi che poteva essere mandata avanti da qualsiasi latitudine e, soprattutto, le minacce di rimpatrio da parte dei genitori, perciò anche Tucci si era lasciato sedurre dalle promesse di lavoro sicuro sospirate da quel gigantesco Paese dei Balocchi conosciuto come Estero, e per evitare di tornarsene a bere birre da 66 davanti alla sua ex scuola elementare si era convinto di tentare la fortuna in una nazione con un tasso di disoccupazione pari al 13,1%.
“Quando avevo quattordici anni i miei mi ci mandarono d’estate per imparare l’inglese – mi aveva spiegato qualche settimana prima – là è pieno di tipe che te la mollano facile.”

Entrai in un supermercato e comprai una confezione da sei di Moretti. Per non fare la figura dell’alcolizzato acquistai anche una confezione di ammorbidente con un pupazzo stampato sull’etichetta, ma la cassiera nemmeno alzò lo sguardo.
Discuteva con un’altra cliente di come uno non si rende mai conto delle bellezze che lo circondano, soprattutto quando si vive da tanto nella stessa città.
Giunto a casa oscurai le finestre e mi accomodai davanti al televisore con la confezione di Moretti sulle ginocchia.
Intercettai un canale satellitare che trasmetteva una maratona di episodi dei “Robinson”. Stappai una birra e mi calai in una piacevole dimensione atemporale plasmata da smorfie, complicità familiare, piccole problematiche quotidiane e maglioni a rombi di dubbio gusto. Mentre masticavo episodi, uno appresso all’altro, come fossero noccioline, pensavo che dopotutto non era così male, starsene lì, sbracato sul divano a bere birra, ad ascoltare le innocue battute di Bill Cosby. Percepivo con evidenza che non mi sarebbe potuto accadere nulla di male, fin quando fossi rimasto sul divano, davanti alla tv che trasmetteva i “Robinson”.
E poi effettivamente i “Robinson” terminarono, e la mia vita iniziò a puzzare di inutilità.
Masturbarmi non migliorò la situazione. Osservavo il mio uccello scarico e avvertivo il disgusto che può provare un vegetariano di fronte a un pezzo di carne morta e inscatolata.
Mi lavai e camminai un po’ per casa, poi afferrai il computer con due mani e cominciai a scrivere una mail ad Alice, un’amica che era partita da poco per l’Erasmus a Braga.
Senza la minima esitazione scrissi alcune righe accorate, scrissi di me e del mio stato d’animo, della frustrazione, della condizione insoddisfacente in cui sono costretti i giovani della mia e della sua età, scrissi altre cose che non avevo mai confidato a nessuno e che forse non ero mai riuscito a esprimere a parole.
Poi cancellai tutto e scrissi soltanto: “Quando torni?”
Rimasi qualche minuto a fissare una macchia sul soffitto e poi aprii un’altra mail e la indirizzai a Paolo, un mio ex compagno di università tornato a casa in attesa di sostenere l’esame di stato.
“Quando torni?”, scrissi.
E così feci con Dario, partito per Berlino per provare a fare il dj, con Salvatore, tornato in un paese così piccolo da non avere il diritto di essere nominato (quando gli domandavano di dove fosse lui rispondeva: “della provincia di Campobasso”) e con Arianna, impegnata all’ufficio del turismo di Madrid per un Leonardo vagamente retribuito (tasso di disoccupazione spagnolo aggiornato al 2013: 26,2%).
“Quando torni?”
“Quando torni?”
“Quando torni?”
Copia in una mail, incolla nell’altra. “Quando torni?” anche se in realtà avrei voluto chiedere: “Tornerete mai?”
Chiusi il computer e finii la birra. Fu in quel momento che mi ricordai di Leonardo. Leonardo era l’ex coinquilino di Dario. Ogni tanto, d’estate, quando tutti erano partiti, ci eravamo visti per spartire le nostre solitudini sudaticce. Passavo a casa sua, per fumare un po’ e ascoltare musica, oppure ci sedevamo al tavolino di un bar per guardare una partita della Confederation Cup di cui non c’importava niente, tipo Uruguay-Tahiti.
Era da parecchio che non ci sentivamo: io avevo trovato di meglio da fare e lui era finito chissà dove, a sindacare su Robert Plant in qualche camera tripla della periferia.
Non sapevo in che zona abitasse ma sapevo con esattezza dove lo avrei potuto trovare: in aula studio.
Uscii di casa con il pacco di birra sotto braccio. Aveva smesso di piovere da chissà quante puntate dei “Robinson” e tutto sommato l’aria era gradevole.
Mi fermai di nuovo al supermercato per comprare un’altra bottiglia di birra, che cercai di sistemare nell’unico buco rimasto vuoto della confezione da sei.
L’aula studio era proprio a due passi da casa. Mi alzai in punta di piedi per scorgere Leonardo nella confusa massa di studenti aggrovigliati davanti all’ingresso.
Di solito Leonardo posava i libri di musicologia su un banco e poi usciva, per chiacchierare, bere caffè e fumare quasi fino all’orario di chiusura. Non lo trovai. Entrai dentro e non c’era. Alla fine mi decisi a telefonare, al diavolo le sorprese.
Ci vollero una caterva di squilli prima che qualcuno rispondesse. Sentivo soltanto dei rumori confusi e delle voci di sottofondo che chiacchieravano fitto.
Leonardo disse pronto all’improvviso, come se fosse in attesa da ore e non avesse altro tempo da perdere. Lo salutai e finsi di essere interessato a come se la stava passando, mentre invece l’unica cosa che mi premeva era sapere quanto ci avrebbe impiegato a uscire da casa o da qualsiasi altro posto nel quale si era ficcato e a raggiungermi dalle parti dell’aula studio.
Mi rispose che aveva temporaneamente lasciato l’università e che era tornato dai suoi per lavorare nella concessionaria del padre, situata a circa quattrocento chilometri dall’aula studio.
Ci scambiammo dei saluti distratti e riattaccammo. Mi guardai un istante intorno, come se avessi qualcun altro da cercare. Poi ripresi sottobraccio le birre e mi levai di torno.
Mi diressi verso casa, ma non avevo alcuna intenzione di passare la serata con Bill Cosby. Camminavo e pensavo, pensavo troppo, allora smembravo i pensieri in piccoli segmenti di discorso, fino a renderli privi di senso e inoffensivi.
L’unica riflessione intera che mi schizzava per la testa era che avrei dovuto passare un bel po’ di tempo solo con me stesso, e non avevo una gran voglia di rimuginarci troppo sopra. Alla fine però mi rassegnai, e decisi di prendere in esame le attività che non mi era mai capitato di svolgere per conto mio.
Per esempio non ero mai andato da solo al ristorante. Questo voleva dire una cosa ben precisa: l’unico modo per mangiare la pizza con i friarielli che facevano da Peppe era prendere e andarci per fatti miei.
Prima di crollare definitivamente tirai a dritto, superando di slancio il portone di casa, diretto con determinazione verso il dehor di Peppe.
Mangiare solo mi aveva sempre creato un grande imbarazzo. Anche quando prendevo un pezzo di pizza o un kebab, me lo facevo incartare e filavo nel parco più vicino, per abbuffarmi il più in fretta possibile al riparo di una siepe.
Il vero problema è che non so mai dove guardare: se uno si mette a fissare le persone passa per indiscreto, se non alza gli occhi dal piatto sembra a disagio.
E allora mentre mi dirigevo da Peppe cercavo di immaginare la scena che di lì a poco mi si sarebbe presentata di fronte agli occhi. Tentavo di dare un volto ai clienti, di progettare i gesti e le mosse che avrei compiuto, l’atteggiamento che avrei assunto una volta accomodato al tavolo.
Una coppia di anziani, due o tre imprenditori in trasferta chini sul Sole 24 ore, un cameriere cortese e disinteressato. E io, che avrei ordinato la mia onesta pizza coi friarielli, ingannando l’attesa con un libro.

 

Non andò esattamente come previsto. Il dehor di Peppe ospitava una tavolata di cinquanta persone riunitasi per celebrare la laurea di un goliarda ultratrentenne. Indossavano tutti un cappello ridicolo e ogni volta che uno sollevava il bicchiere intonavano una canzonetta che riguardava il bere o qualcosa di osceno.
Come se non bastasse, il cameriere mi informò che per la pizza coi friarielli ci sarebbe voluta una buona eternità, considerata la mole di clienti, per cui aprii il menù  a una pagina a caso e ordinai una pizza con un nome oscuro e vagamente lascivo (La Golosa, la Sfiziosa, non ricordo più).
Mentre i goliardi oscillavano sul tavolo, ubriachi, cercai di mostrarmi a mio agio e del tutto indifferente alla condizione di pasteggiatore solitario.
Controllai sul cellulare se gli altri avessero risposto alle mail. Trovai soltanto un messaggio di Alice che diceva:

     Ehi, ma ciao! Qui va tutto alla grande, il posto è strafigo, un sacco di gente superinteressante, sbronze balorde. Non so quando tornerò. Sto pensando di prolungare l’Erasmus e di passare l’estate a Lisbona, magari mi trovo un lavoretto come cameriera. E tu? Quando vieni a trovarmi?
     Mi manchiii
     Baciuz 🙂

     A.

Cercai di fare una partita a Snake fingendo di scrivere un sms, ma temevo che i goliardi potessero accorgersene attraverso il riflesso dei vetri del dehor.
Avevo le orecchie come mezze esplose e mi sentivo rosso, rosso di rabbia, vergogna e di allergie varie alle comunità studentesche.
Fermai il cameriere e gli chiesi se per caso avessero un elenco del telefono. Quando entrò nel ristorante per cercarlo, mi alzai, afferrai le birre da sotto al tavolo e sgusciai fuori, il più lontano possibile, con quei pochi passi che mi erano concessi.
Salii al volo su un autobus, come avevo visto fare in certi film, e mi afflosciai stremato su uno dei sedili in fondo.
Ci lasciammo alle spalle i condomini che imbrunivano al bisbigliare dei frigoriferi, i quartieri che avevo imparato a riconoscere per nome in questi miei stolti anni universitari, diretti verso un capolinea indefinito.
Per un attimo fui tentato di scendere e tornare verso casa, ma poi realizzai che nessuna delle persone presenti sul bus era a conoscenza di chi fossi e di dove abitassi. Forse si trattava proprio di questo, restare da soli: scendere dall’autobus quando ti pare senza che nessuno abbia qualcosa da obiettare.
Mi abbandonai di nuovo sullo schienale. Pensai soltanto a godermi la corsa, con le cose fuori a perdersi di vista e i passeggeri dentro presi dai loro affari. Avvenne questo strano deflusso – fuori i pensieri, dentro le immagini – che mi salassava perbenino il malumore e mi lasciava intuire un principio di sensatezza.
Rinfrancato, prenotai la fermata e scesi dall’autobus quando ancora l’autista non aveva finito di rallentare. Non sapevo bene in quale direzione andare. Scorsi un sentierino che conduceva dritto al fiume e decisi di seguirlo.
Il livello dell’acqua era molto basso. In certi punti le pietre umide tagliavano il fiume in rivoli insulsi che disegnavano un sistema di vene liquide.
Saltai su un gruppo di massi emersi. Con le braccia ben tese abbozzai un urlo liberatorio che non uscì granché.
Poi sedetti sopra la confezione da sei e frignai per un po’. Dissi persino povero me, proprio così dissi. Povero me. La mia voce riecheggiò nel nulla con uno squittio patetico.
In un sol colpo mi resi conto di aver freddo, di essere al buio, e di non possedere un cavatappi per aprire le birre. Di non avere niente da cui ripartire, e nemmeno qualcosa da lasciarmi indietro.
Dopotutto non ero affatto il protagonista di un film indipendente americano in concorso al Sundance. Non avevo la minima idea di dove mi trovassi o di cosa stessi facendo di preciso, ma certamente non ero lì, in quel film, ero da tutt’altra parte.

Forse l’indomani mi sarei comprato un cofanetto con tutte le serie di “Heimat” e mi sarei lasciato stritolare da tremiladuecentottantuno minuti di mirabolanti intrecci fra piccola e Grande Storia, oppure avrei attaccato con le droghe pesanti. Ma nel frattempo sarei rimasto lì. A guardia del faro.

Testo: Martin Hofer
Immagine: Elena Guidolin

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