I.
Si chiama gefirofobia, ti è capitata in sorte. Significa che hai paura dei ponti. Di attraversarli, tieni a precisare con chi semplifica e riduce. Di attraversarli, sì: se non devi attraversarli tu, i ponti stanno benissimo dove stanno. Se ti ci ritrovi sopra, però, ci vuole un attimo per ammollarti dentro certi sudori ghiacciati che solo un gefirofobico come te può immaginare. Ti prende qualcosa tra lo sterno e lo stomaco, come una randellata, e pensi che stai per morire; sei sicuro che stai per morire. Ti capita in macchina, ma solo se la guidi tu, in bicicletta, o anche a piedi. In autobus no, non ti capita, ma ti capiterebbe di sicuro se facessi l’autista, lavoro che infatti non faresti mai e al quale preferiresti la tua attuale disoccupazione. Quei ponticelli di poco conto alla periferia di Roma, dove sei cresciuto, sono gli unici che non temi.
“Quelli li attraverso da quand’ero pupo – dici – è sempre andato tutto bene, ma con gli altri, cristo, con gli altri è una tragedia”.
Ogni volta che ti metti in viaggio verso posti che non conosci, ti organizzi con metodo: memorizzi accuratamente la mappa per studiare tutte le soluzioni stradali possibili, prendi la macchina solo dopo esserti assicurato dell’esistenza di un percorso alternativo a quello coi ponti. In questo caso, per evitarli arrivi a fare deviazioni anche di parecchi chilometri. Quando questo piccolo accorgimento non è possibile, allora prendi il treno, o l’autobus, o rimedi un passaggio in macchina da un amico, o andate insieme con la tua macchina a patto che la guidi lui. Oppure te ne resti proprio a casa e buonanotte. In effetti questa soluzione è quella che pratichi maggiormente, visto che tu non viaggi molto, a meno che non sia costretto a farlo.
Con il tempo, mi hai raccontato tante volte, con il tempo hai compreso che questa paura si estende alle altezze sospese sul vuoto, quindi ti capita, anche se con minore probabilità, di sentirti male su balconi e terrazze. Perciò ti dicono che forse soffri di gefirofobia e di acrofobia. Tu alzi le spalle, risolvi in fretta: “guardate che non soffro proprio per niente, io sto benissimo, non mi piace stare sui ponti, semplice”. Dipende dalla loro altezza, e da quanto spazio ti separa dalla terra, ma non sai dire con precisione quanto spazio sia sufficiente a farti stare male. Ti succede e basta, e tu eviti il più possibile che ti succeda evitando ponti, balconi, terrazze e, ah sì, pure torri. Qualcuno una volta ti ha fatto notare che, stando così le cose, allora dovresti avere paura anche di stare a casa tua, che è un appartamento al secondo piano, di salire le scale del tuo palazzo e quelle di ogni altro palazzo, di fumare una sigaretta sul tuo balcone e su ogni altro balcone, e poi i grattacieli, gli ascensori, gli aerei? Insomma, ti hanno detto, a rigor di logica, dovresti avere paura di stare sulla Terra.
“Chi usa il rigore della logica, è evidente che non è un gefirofobico – questo lo dici con un sorriso mite e intanto ti gratti la fronte come fai sempre per artigliare il tuo disagio – forse è più probabile che sia un idiota, perché far notare a qualcuno che abbia una particolare fobia l’insensatezza di quella fobia è del tutto inefficace, la fobia non è logica, io in aereo ci vado senza problemi, su grattacieli e ascensori pure. Avanti: come me lo spiegate questo con il rigore della logica?”
Non è una paura tanto grave, tutto sommato. Ci campi, e te la tieni. Non solo te la tieni: ti serve.
“Ti serve a cosa?, ti ho domandato una volta.”
“Mi serve per non cascare e farmi male sul serio. Semplice.”

Comunque, tu con questa paura non ci sei mica nato, lo specifichi sempre a tutti quelli che ti chiedono spiegazioni, tanto per accontentarli e chiudere lì la questione (che spreco di energie, scavare nelle proprie questioni, facciamoci un aperitivo).

La prima volta che ti è venuta eri in moto. Hai avuto una moto, quand’eri più giovane, e ci andavi spensierato in giro per tutta Roma, un po’ anche fuori; non tanto fuori, no, a te non piace molto viaggiare. Finché un giorno non ti si è fermata su un cavalcavia, ne hai perso il controllo e sei arrivato a tanto così dal guardrail. Non ti sei fatto niente, non sei nemmeno scivolato, però ti sei spaventato parecchio. Da allora hai cominciato ad avere paura di attraversare i ponti.
“Semplice – dici alzando le spalle – da quella volta in avanti ho cominciato a evitare tutti i ponti che si potevano evitare e, quando proprio non si potevano evitare, a sentirmi male.”

“Poi ho conosciuto Clara.”
Fai una pausa dopo il suo nome. Ti prendi il tuo tempo per girarti una sigaretta – tabacco Pueblo, cartina Rizla, filtro OCB ultra slim. L’accendi, una generosa boccata e ricominci da Clara.
“A Clara piaceva molto come mi giro le sigarette. Diceva che quando ci siamo conosciuti le è venuta voglia di fare l’amore con me quando mi ha visto girarmene una in tre secondi, fermi al semaforo, mentre la stavo riaccompagnando a casa sua dopo la prima sera che siamo usciti insieme. Non erano tre secondi, è che io mi giro sigarette da quindici anni, lei invece da quindici anni sfila Lucky Strike dal pacchetto, non è abituata al rituale della preparazione. Però ero tutto gonfio di compiacimento quando me lo diceva. Ci siamo innamorati, ci siamo messi insieme, siamo andati a vivere insieme. Non dico che le tre cose siano successe nello stesso momento, ma nel giro di pochi mesi, sì. Cioè no, a dire il vero le cose sono andate così: ci siamo innamorati, ci siamo messi insieme, dopo pochi mesi Clara ha ritenuto necessario traslocare in un nuovo appartamento perché aveva avuto non so quali divergenze con i suoi coinquilini, ma credo c’entrassero col fatto che io rimanevo spesso a dormire da lei e qualche volta mi ci fermavo per due o tre giorni, e questo ai suoi coinquilini non piaceva affatto, qua chi consuma paga. Io allora le ho suggerito di venire a vivere a casa mia, che non c’era nemmeno un affitto da pagare, lei ha detto di no e ha preso in affitto da sola un intero appartamento a settecentocinquanta metri dal mio ed è finita che per un anno buono abbiamo vissuto insieme, una settimana da me e una settimana da lei, finché non le sono finiti tutti i soldi che aveva da parte e stava di nuovo senza contratti di lavoro, allora ha sospirato un po’ ed è venuta a vivere con me, e finalmente abbiamo cominciato a dire, senza più grossi dubbi su come formulare l’affermazione, che vivevamo insieme. Ecco, le cose sono andate così. Lei le avrebbe raccontate meglio, ma il succo alla fine è questo.

Ogni tanto lei tornava in Abruzzo a trovare la sua famiglia per un fine settimana, e un giorno ci sono andato anch’io, per conoscerla. Ero contento di vedere i luoghi dove Clara era cresciuta, che lei me lo permettesse. All’inizio aveva stabilito ‘Le famiglie fuori’, e io mi ero trovato completamente d’accordo. Ma poi succede sempre che, a un certo punto, ti viene la voglia, o la dannata curiosità, di vedere dal vivo le facce di chi ha messo al mondo la persona che ami, e anche tu alla fine vuoi far vedere a lei le facce di chi ha messo al mondo te, anche se magari non sono facce bellissime.
Di solito in Abruzzo Clara ci andava in autobus, però quel giorno io le ho detto: ‘ti accompagno, andiamo con la mia macchina’. E chi ci pensava, in quel momento, ai ponti della A24? E lei, se avesse saputo che sono gefirofobico, senz’altro mi avrebbe chiesto: ‘ma sei sicuro?’.
Il tracciato complessivo della A24 si sviluppa su un territorio quasi esclusivamente collinare e montano, che ha costituito una delle ragioni dello storico isolamento dell’Abruzzo, dove è cresciuta Clara, dal Lazio, dove sono cresciuto io. Non ho mai contato quanti ponti ci vogliono per andare a casa sua, ma sono i peggiori che io abbia mai visto. Il viadotto di Pietrasecca, perdio! Cento metri! E che vuoi che siano quelle quarantadue gallerie, e quel traforo del Gran Sasso lungo dieci chilometri, quando esistono ponti come quello là? Sì, è vero, la A24 è un viaggio tra le meraviglie dell’Appennino. Per voi, forse. Per gli occhi sgranati di un gefirofobico è la strada per la pazzia.”
Così mi dici, la strada per la pazzia, e io non dico niente, non approfondisco, non faccio domande (mi diresti “Possiamo parlarne un’altra volta?”, con il tempo ho imparato che un’altra volta significa mai).
“Quando sono uscito al casello di Teramo, lei ha telefonato ai suoi per dire che non saremmo arrivati in tempo per pranzo, che mangiassero pure, noi avevamo avuto un contrattempo a casa ed eravamo partiti più tardi del previsto. Invece noi eravamo partiti all’ora prestabilita, mentre era vero che c’era stato un contrattempo, però non a casa, sulla A24. Ma avevo tenuto la strada, eh. Solo che l’avevo tenuta a una velocità di sessanta, settanta chilometri orari, e mi ero fermato a tutte le aree di servizio e le piazzole di sosta disponibili. Durante il viaggio Clara aveva continuato a dirmi ‘guido io, guido io, guido io’, nonostante a lei non piacesse affatto guidare, indipendentemente dalla presenza di ponti. Ma io non me la sentivo di afflosciarmi così, gettare la spugna, non portarla a casa in Abruzzo. Con un amico lo avrei fatto, gli avrei detto ‘guida tu’, ma Clara la volevo accompagnare io, io ci volevo stare, io volevo essere quello che porta la donna sua dove lei vuole andare.
Poi l’ultimo tratto di autostrada che ci restava da fare, quello della A14. Poco prima che imboccassimo la rampa di accesso, Clara mi aveva detto: ‘guarda che possiamo fare una strada interna, passiamo per i paesi, ci mettiamo di più, ma chi se ne frega!’
Io niente, tanto stremato dalla strada fatta quanto intignato a finirla, mi ero infilato nella A14 a Mosciano Sant’Angelo, fermamente deciso a percorrerla fino alla nostra uscita a Val Vibrata, la terra di Clara mia, il posto dove era stata bambina. Lei a quel punto era piuttosto agitata, ha ripetuto a lungo che voleva guidare lei, le ho detto ‘perché, tanto ormai siamo arrivati’, lei mi ha risposto ‘sì, sì, siamo quasi arrivati, ma per arrivare del tutto dobbiamo ancora passare su un ponte brutto’. ‘Brutto quanto?’, ho chiesto. Lei non mi ha risposto.
Brutto, per la madonna, brutto quanto il ponte del Salinello: viadotto della A14 tra le uscite di Mosciano Sant’Angelo e Val Vibrata, con i suoi centotrentametri metri risulta il terzo viadotto più alto d’Italia ed è tristemente noto come il ponte dei suicidi a causa del considerevole numero di vittime volontarie che ha fatto registrare nel corso degli anni, grazie alla sua capacità di garantire una morte certa indipendentemente dal punto di lancio prescelto lungo il suo chilometro e mezzo di estensione.”

Dal ponte del Salinello si vede il mare. Mi dici: “sai, è un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia”.

Questo però, in quel momento, tu l’hai saputo perché te l’ha sussurrato Clara, pensando che fosse una cosa bella da dirti, per distrarti un poco dai sudori che andavi buttando, per farti stare allegro, tenerti in vita. Ma tu, mentre guidavi con le mani incollate al volante, la testa di qua e di là non la potevi muovere, roteavi giusto gli occhi quel tanto che ti bastava per controllare gli specchietti. Quindi, che dal ponte del Salinello si vede il mare, un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia, tu questo l’hai scoperto dalla voce rassicurante di Clara dentro il tuo orecchio destro. Ed è l’unico dettaglio che ricordi con sopportabile chiarezza di quel viaggio, di cui comunque, in qualche modo, siete  arrivati alla fine.

“Quando sono arrivato al paesello di Clara, mi sono presentato ai suoi genitori, con un’ora abbondante di ritardo sul pranzo, la camicia zuppa di sudore, la faccia bianca devastata dalla fatica, gli occhi iniettati di sangue, due bottiglie di vino dentro una busta di carta, e una mano mezza morta che ho allungato a suo padre biascicando a bassa voce: ‘Piacere, sono Daniele’.”

II.
Il giorno in cui mi hai vista uscire dalla nostra camera da letto, con una faccia più appesa del borsone che mi trascinavo su una spalla, non ti sei sconvolto più di tanto, e io nemmeno. Ti si è un poco allentata la mascella e hai rovesciato sul bancone il caffè che stavi versando nelle due tazzine, questo sì. Però non eri del tutto impreparato, si capiva. Sarà stato che quella scena non era insolita, o che quella mattina eri stanco per via dei lavori nella casa nuova, che negli ultimi tempi erano pure rallentati a causa di un tuo congenito torpore che alle volte ti piglia come una gomitata in mezzo agli occhi e non ti fa risolvere la giornata. Per questo, credo, la tua unica reazione è stata quella di chiedermi piano: “Possiamo parlarne un momento?”
“Parliamone!”, ti ho detto io, ma non ne volevo parlare.
Sei rimasto in silenzio a guardarmi. Ho ripensato il tuo silenzio solo molto tempo dopo quel giorno, e te ne ho dato ragione. In cucina c’è la tua donna con un borsone sulla spalla e una faccia per niente allegra, e ti dice parliamone. Magari vorrà cominciare a spiegarti perché alle otto di domenica mattina sta con una borsone sulla spalla e una faccia per niente allegra, soprattutto considerando che tra mezz’ora dovete andare a Torre Maura per continuare coi lavori nella casa nuova, dove continuerete a vivere insieme. Quindi hai passato in fretta uno straccio sul caffè rovesciato, ti sei appoggiato con tutte e due le mani sul bancone della cucina, mi hai guardato di nuovo: tu eri pronto ad ascoltare e io per quel silenzio ho preso fuoco.
“Sei un coglione”, questo credo di avertelo ripetuto tre volte, forse quattro, in mezzo alle altre parole.
Qual era il punto, poi? Non me lo ricordo più, ma avevamo passato l’ultima annata a chiacchierarne, tanto che ormai era diventato uno dei nostri argomenti di conversazione più accuratamente dibattuti a tutte le ore, a tavola, la sera a letto, o sul divano davanti alla tv accesa, a volte pure in bagno, e anche per strada. Sì, dev’essere andata proprio così: ne abbiamo chiacchierato con la stessa frequenza, con la stessa disponibilità e con la stessa capacità di improvvisazione con cui una volta scopavamo. Per cui era chiaro che io, quella mattina lì, di quella conversazione lì, volevo arrivare alle conclusioni. Mentre ci arrivavo, urlando, continuavo come una bestia incattivita a girare per le stanze, solo altre due, perché dalla camera ero appena uscita e le conclusioni avevo cominciato a dirle in soggiorno, che poi era anche una cucina, quindi andavo e venivo fra il bagno e il ripostiglio, che era una cameretta, ma col tempo ne avevamo fatto uno studio, una stanza per gli ospiti, un ripostiglio, una stanza e basta, alla fine la chiamavamo lo stanzino, ci buttavamo dentro tutto quello che aspettava di trovare posto. Girando e urlando tra i pochi metri quadrati rimasti a disposizione, con il borsone che mi faceva camminare tutta storta, mi guardavo intorno e cercavo qualche cosa.
Tu mi venivi dietro dietro, in silenzio. Sono ritornata in camera, a fare che non lo sapevo. Mi sono girata verso di te, per vedere se c’eri ancora. Mi hai guardato con gli occhi che ti avevo visto una sera, un momento prima di spegnere la lampada e addormentarci, e quella sera te li avevo baciati. Invece no, stavolta non l’ho fatto. Ho continuato ad abbaiare come una cagna. Non hai detto niente. Ma proprio niente, eh, non un insulto, una bestemmia, un ringhio, un rantolo. E che potevi dire? Che non era vero quello che dicevo, che mi stavo sbagliando, che avevo torto? Che era vero quello che dicevo, che non mi stavo sbagliando, che non avevo torto?
Sono uscita dalla camera, e tu dietro a me, mi sono rifatta tutto il soggiorno, e tu dietro a me, sono arrivata alla conclusioni, e tu sei rimasto fermo a guardarmi. Niente hai detto.
“E tu niente dici, eh?”,  t’ho chiesto io, sulla porta di casa.

III.
Quando si è richiusa la porta alle spalle, Clara l’ha sbattuta talmente forte che il calendario appeso al muro lì accanto, un calendario che aveva confezionato lei con certi fogli leggeri dove ci stanno scritte mese per mese la frutta e la verdura di stagione che fa bene mangiare, s’è staccato ed è volato per aria.
Pochi mesi prima Clara aveva detto qualcosa a proposito della mentuccia in balcone. Lì per lì non avevo capito. Avevamo pure un vaso di basilico e di rosmarino, per un po’ ce ne eravamo presi cura con entusiasmo, ma qualche volta ci scordavamo di annaffiarli, oppure non ci mettevamo d’accordo e finiva che io li inondavo al mattino e lei alla sera. Poca acqua, troppa acqua, non si sa, comunque il basilico ci aveva lasciati per primo, il rosmarino per secondo. La mentuccia, invece, aveva dimostrato una straordinaria capacità di resistenza.
“Hai notato?”, mi aveva chiesto Clara, mentre beveva un caffè davanti alla finestra.
“Che?”
“Fuori, in balcone.”
“Ma cosa?”
“La mentuccia. Fuori, in balcone. Sta crescendo malgrado tutto.”
“Malgrado tutto cosa?”
“Malgrado noi.”

IV.
Dal ponte del Salinello si vede il mare. Te l’ho detto io, il giorno in cui stavamo per finire di sotto. Ho avuto paura che la tua paura ci ammazzasse tutti e due. Potevi svenire, mollare il volante, perdere il controllo dell’auto? Non lo sapevo; io prima di conoscerti non sapevo nemmeno cosa fosse, la gefirofobia. Sudavi ed eri bianco. Non te ne sei accorto, che ero pronta a buttarmi su di te e cercare di recuperare la direzione, se tu avessi perso il controllo. Non l’hai perso. Sei forte, tu, tu sei Er Cinghiale de la Tibburtina, i cinghiali quando intignano non mollano. Forse non te la ricordi, la mia voce dentro il tuo orecchio destro che ti diceva: ‘dal ponte del Salinello si vede il mare’.
Un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia. Ti ho detto anche altre cose, per cercare di distrarti come mi chiedevi. Del mare non volevi sapere, avevi bisogno di concentrarti su moltiplicazioni e divisioni.
“Facciamo un gioco con i numeri – mi hai detto – così mi aiuti”.
“Va bene – ho detto io – quanto fa 1442 diviso 4?”
Ho sparato a caso, convinta che il conto ti avrebbe tenuto impegnato fino all’arrivo, ma tu dopo pochi secondi mi hai risposto: 360.5.
“Ma come cazzo fai?”, ti ho detto dopo aver verificato sulla calcolatrice del telefonino.
Hai pregato in un fiato solo, irrigidito: “continua per favore i numeri mi aiutano”.
Così abbiamo dato i numeri sul ponte del Salinello. È bello quando si vede il mare. Il mare è il posto dove sono nata, lo sai. Sono tornata a viverci, adesso il ponte mi capita spesso. Tutte le volte che ci passo sopra, ripenso sempre al giorno in cui ho violato il tuo confine, e tu il mio.
A Le Sanglier
Testo: Annalisa Di Salvatore
 Illustrazioni: Sara Flori

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