“Quelli li attraverso da quand’ero pupo – dici – è sempre andato tutto bene, ma con gli altri, cristo, con gli altri è una tragedia”.
“Ti serve a cosa?, ti ho domandato una volta.”
“Mi serve per non cascare e farmi male sul serio. Semplice.”
Comunque, tu con questa paura non ci sei mica nato, lo specifichi sempre a tutti quelli che ti chiedono spiegazioni, tanto per accontentarli e chiudere lì la questione (che spreco di energie, scavare nelle proprie questioni, facciamoci un aperitivo).
La prima volta che ti è venuta eri in moto. Hai avuto una moto, quand’eri più giovane, e ci andavi spensierato in giro per tutta Roma, un po’ anche fuori; non tanto fuori, no, a te non piace molto viaggiare. Finché un giorno non ti si è fermata su un cavalcavia, ne hai perso il controllo e sei arrivato a tanto così dal guardrail. Non ti sei fatto niente, non sei nemmeno scivolato, però ti sei spaventato parecchio. Da allora hai cominciato ad avere paura di attraversare i ponti.
“Semplice – dici alzando le spalle – da quella volta in avanti ho cominciato a evitare tutti i ponti che si potevano evitare e, quando proprio non si potevano evitare, a sentirmi male.”
“Poi ho conosciuto Clara.”
Fai una pausa dopo il suo nome. Ti prendi il tuo tempo per girarti una sigaretta – tabacco Pueblo, cartina Rizla, filtro OCB ultra slim. L’accendi, una generosa boccata e ricominci da Clara.
“A Clara piaceva molto come mi giro le sigarette. Diceva che quando ci siamo conosciuti le è venuta voglia di fare l’amore con me quando mi ha visto girarmene una in tre secondi, fermi al semaforo, mentre la stavo riaccompagnando a casa sua dopo la prima sera che siamo usciti insieme. Non erano tre secondi, è che io mi giro sigarette da quindici anni, lei invece da quindici anni sfila Lucky Strike dal pacchetto, non è abituata al rituale della preparazione. Però ero tutto gonfio di compiacimento quando me lo diceva. Ci siamo innamorati, ci siamo messi insieme, siamo andati a vivere insieme. Non dico che le tre cose siano successe nello stesso momento, ma nel giro di pochi mesi, sì. Cioè no, a dire il vero le cose sono andate così: ci siamo innamorati, ci siamo messi insieme, dopo pochi mesi Clara ha ritenuto necessario traslocare in un nuovo appartamento perché aveva avuto non so quali divergenze con i suoi coinquilini, ma credo c’entrassero col fatto che io rimanevo spesso a dormire da lei e qualche volta mi ci fermavo per due o tre giorni, e questo ai suoi coinquilini non piaceva affatto, qua chi consuma paga. Io allora le ho suggerito di venire a vivere a casa mia, che non c’era nemmeno un affitto da pagare, lei ha detto di no e ha preso in affitto da sola un intero appartamento a settecentocinquanta metri dal mio ed è finita che per un anno buono abbiamo vissuto insieme, una settimana da me e una settimana da lei, finché non le sono finiti tutti i soldi che aveva da parte e stava di nuovo senza contratti di lavoro, allora ha sospirato un po’ ed è venuta a vivere con me, e finalmente abbiamo cominciato a dire, senza più grossi dubbi su come formulare l’affermazione, che vivevamo insieme. Ecco, le cose sono andate così. Lei le avrebbe raccontate meglio, ma il succo alla fine è questo.
Io niente, tanto stremato dalla strada fatta quanto intignato a finirla, mi ero infilato nella A14 a Mosciano Sant’Angelo, fermamente deciso a percorrerla fino alla nostra uscita a Val Vibrata, la terra di Clara mia, il posto dove era stata bambina. Lei a quel punto era piuttosto agitata, ha ripetuto a lungo che voleva guidare lei, le ho detto ‘perché, tanto ormai siamo arrivati’, lei mi ha risposto ‘sì, sì, siamo quasi arrivati, ma per arrivare del tutto dobbiamo ancora passare su un ponte brutto’. ‘Brutto quanto?’, ho chiesto. Lei non mi ha risposto.
Dal ponte del Salinello si vede il mare. Mi dici: “sai, è un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia”.
Questo però, in quel momento, tu l’hai saputo perché te l’ha sussurrato Clara, pensando che fosse una cosa bella da dirti, per distrarti un poco dai sudori che andavi buttando, per farti stare allegro, tenerti in vita. Ma tu, mentre guidavi con le mani incollate al volante, la testa di qua e di là non la potevi muovere, roteavi giusto gli occhi quel tanto che ti bastava per controllare gli specchietti. Quindi, che dal ponte del Salinello si vede il mare, un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia, tu questo l’hai scoperto dalla voce rassicurante di Clara dentro il tuo orecchio destro. Ed è l’unico dettaglio che ricordi con sopportabile chiarezza di quel viaggio, di cui comunque, in qualche modo, siete arrivati alla fine.
“Quando sono arrivato al paesello di Clara, mi sono presentato ai suoi genitori, con un’ora abbondante di ritardo sul pranzo, la camicia zuppa di sudore, la faccia bianca devastata dalla fatica, gli occhi iniettati di sangue, due bottiglie di vino dentro una busta di carta, e una mano mezza morta che ho allungato a suo padre biascicando a bassa voce: ‘Piacere, sono Daniele’.”
II.
Il giorno in cui mi hai vista uscire dalla nostra camera da letto, con una faccia più appesa del borsone che mi trascinavo su una spalla, non ti sei sconvolto più di tanto, e io nemmeno. Ti si è un poco allentata la mascella e hai rovesciato sul bancone il caffè che stavi versando nelle due tazzine, questo sì. Però non eri del tutto impreparato, si capiva. Sarà stato che quella scena non era insolita, o che quella mattina eri stanco per via dei lavori nella casa nuova, che negli ultimi tempi erano pure rallentati a causa di un tuo congenito torpore che alle volte ti piglia come una gomitata in mezzo agli occhi e non ti fa risolvere la giornata. Per questo, credo, la tua unica reazione è stata quella di chiedermi piano: “Possiamo parlarne un momento?”
“Parliamone!”, ti ho detto io, ma non ne volevo parlare.
Sei rimasto in silenzio a guardarmi. Ho ripensato il tuo silenzio solo molto tempo dopo quel giorno, e te ne ho dato ragione. In cucina c’è la tua donna con un borsone sulla spalla e una faccia per niente allegra, e ti dice parliamone. Magari vorrà cominciare a spiegarti perché alle otto di domenica mattina sta con una borsone sulla spalla e una faccia per niente allegra, soprattutto considerando che tra mezz’ora dovete andare a Torre Maura per continuare coi lavori nella casa nuova, dove continuerete a vivere insieme. Quindi hai passato in fretta uno straccio sul caffè rovesciato, ti sei appoggiato con tutte e due le mani sul bancone della cucina, mi hai guardato di nuovo: tu eri pronto ad ascoltare e io per quel silenzio ho preso fuoco.
“Sei un coglione”, questo credo di avertelo ripetuto tre volte, forse quattro, in mezzo alle altre parole.
Qual era il punto, poi? Non me lo ricordo più, ma avevamo passato l’ultima annata a chiacchierarne, tanto che ormai era diventato uno dei nostri argomenti di conversazione più accuratamente dibattuti a tutte le ore, a tavola, la sera a letto, o sul divano davanti alla tv accesa, a volte pure in bagno, e anche per strada. Sì, dev’essere andata proprio così: ne abbiamo chiacchierato con la stessa frequenza, con la stessa disponibilità e con la stessa capacità di improvvisazione con cui una volta scopavamo. Per cui era chiaro che io, quella mattina lì, di quella conversazione lì, volevo arrivare alle conclusioni. Mentre ci arrivavo, urlando, continuavo come una bestia incattivita a girare per le stanze, solo altre due, perché dalla camera ero appena uscita e le conclusioni avevo cominciato a dirle in soggiorno, che poi era anche una cucina, quindi andavo e venivo fra il bagno e il ripostiglio, che era una cameretta, ma col tempo ne avevamo fatto uno studio, una stanza per gli ospiti, un ripostiglio, una stanza e basta, alla fine la chiamavamo lo stanzino, ci buttavamo dentro tutto quello che aspettava di trovare posto. Girando e urlando tra i pochi metri quadrati rimasti a disposizione, con il borsone che mi faceva camminare tutta storta, mi guardavo intorno e cercavo qualche cosa.
Tu mi venivi dietro dietro, in silenzio. Sono ritornata in camera, a fare che non lo sapevo. Mi sono girata verso di te, per vedere se c’eri ancora. Mi hai guardato con gli occhi che ti avevo visto una sera, un momento prima di spegnere la lampada e addormentarci, e quella sera te li avevo baciati. Invece no, stavolta non l’ho fatto. Ho continuato ad abbaiare come una cagna. Non hai detto niente. Ma proprio niente, eh, non un insulto, una bestemmia, un ringhio, un rantolo. E che potevi dire? Che non era vero quello che dicevo, che mi stavo sbagliando, che avevo torto? Che era vero quello che dicevo, che non mi stavo sbagliando, che non avevo torto?
Sono uscita dalla camera, e tu dietro a me, mi sono rifatta tutto il soggiorno, e tu dietro a me, sono arrivata alla conclusioni, e tu sei rimasto fermo a guardarmi. Niente hai detto.
“E tu niente dici, eh?”, t’ho chiesto io, sulla porta di casa.
“Malgrado noi.”
Un tratto della costa adriatica all’altezza di Tortoreto, che ha una bella spiaggia. Ti ho detto anche altre cose, per cercare di distrarti come mi chiedevi. Del mare non volevi sapere, avevi bisogno di concentrarti su moltiplicazioni e divisioni.
“Facciamo un gioco con i numeri – mi hai detto – così mi aiuti”.
“Va bene – ho detto io – quanto fa 1442 diviso 4?”
Ho sparato a caso, convinta che il conto ti avrebbe tenuto impegnato fino all’arrivo, ma tu dopo pochi secondi mi hai risposto: 360.5.
“Ma come cazzo fai?”, ti ho detto dopo aver verificato sulla calcolatrice del telefonino.
Hai pregato in un fiato solo, irrigidito: “continua per favore i numeri mi aiutano”.
Così abbiamo dato i numeri sul ponte del Salinello. È bello quando si vede il mare. Il mare è il posto dove sono nata, lo sai. Sono tornata a viverci, adesso il ponte mi capita spesso. Tutte le volte che ci passo sopra, ripenso sempre al giorno in cui ho violato il tuo confine, e tu il mio.