Ho conosciuto Fottesega sei o sette anni fa, in un forum sugli attacchi di panico. Rispondeva alla maggior parte dei thread, fornendo descrizioni estremamente dettagliate dei suoi stati d’ansia e una buona quantità di consigli non richiesti, ma generalmente validi. Il suo nickname era Fottesega e il suo avatar uno smiley grigio senza bocca.
Più tardi l’ho ritrovato, a volte per caso, a volte cercandolo, su altri siti, social network e giochi online. Su alcune piattaforme fa battute e scherza con tutti, su altre si limita a leggere e intervenire quando ne ha voglia.
Quando ho ricevuto lo sfratto, l’unico a cui ho scritto è stato lui. Fottesega, come immaginavo, ha risposto subito e mi ha chiesto i dettagli. Poi mi ha proposto di stare da lui finché non troverò un’altra soluzione. Ho pensato che sarebbe stato l’unico modo per non parlarne con amici e familiari, così ho accettato.
Mi lasciano sola, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza è grande e pulita, senza un filo di polvere. Cerco di riempire lo scaffale vicino alla finestra con le poche cose che mi sono portata dietro, poi mi stendo sul letto a guardare il soffitto bianco. Il posto mi piace e mi lascio scivolare nel sonno per qualche minuto.
Nel frattempo la moglie di Fottesega ha iniziato a distribuire il primo e io lascio che mi riempia il piatto senza dire niente. Dopo due settimane passate a nutrirmi di pane confezionato e pesche sciroppate faccio fatica a tenere a freno la salivazione.
Comincio a sospettare che questa casa sia una specie di centro di smaltimento per esistenze in avaria.
Quando sento il segnale di spegnimento della lavatrice, mi alzo e vado in bagno per aiutare la moglie di Fottesega a stendere i panni. Lei è più veloce e più approssimativa di lui. Ma a metà dell’opera si ferma e va a fumare una sigaretta alla finestra, mentre con una mano scioglie i nodi che qualcuno ha fatto alla tenda.
“Cosa fai di bello nella vita?”, mi chiede senza voltarsi.
“Momentaneamente niente.”
“Capisco.”
Prende un tiro lungo dalla sigaretta e torna a stendere i panni assieme a me. Da vicino è ancora più bella, ma ha molte rughe. Alterna i gesti macchinali con cui stende i panni a quelli per fumare. Mi domanda ancora: “E come vi siete conosciuti?”.
“Internet.”
“Capisco”, ripete.
Poi chiede a bruciapelo:”Hai figli?”
“No”, rispondo.
“Io sì – dice e sorride – ma vive dal padre”.
Abbiamo fatto scegliere al bambino, quando ci siamo separati, e ha detto che preferiva stare dal padre. Dovrebbe venire qua per il fine settimana, ma spesso non viene. Gli ho chiesto perché e ha detto che non ha tempo. Non credo sia vero, ma ho pensato che se non ha voglia di venire, non dovrei insistere.
“Capisco”, dico io stavolta.
Probabilmente volevo che fosse un giorno perfetto. O forse ho pensato che non avrei avuto molte altre occasioni per comprare un abito elegante e portarlo in pubblico, non lo so. Le due volte successive mi sono preoccupata molto più delle questioni economiche e degli ospiti. Comunque se lo trovo te lo mostro”.
“Grazie”, rispondo.
Penso che avrò bisogno di vestiti caldi, per il freddo che sta per arrivare, e forse di una borsa più capiente. Mentre esco dalla stanza, apro il portone e lentamente scendo le scale per andarmene.
Immagine: Erica Molli