Ho conosciuto Fottesega sei o sette anni fa, in un forum sugli attacchi di panico. Rispondeva alla maggior parte dei thread, fornendo descrizioni estremamente dettagliate dei suoi stati d’ansia e una buona quantità di consigli non richiesti, ma generalmente validi. Il suo nickname era Fottesega e il suo avatar uno smiley grigio senza bocca.
Più tardi l’ho ritrovato, a volte per caso, a volte cercandolo, su altri siti, social network e giochi online. Su alcune piattaforme fa battute e scherza con tutti, su altre si limita a leggere e intervenire quando ne ha voglia.
Quando ho ricevuto lo sfratto, l’unico a cui ho scritto è stato lui. Fottesega, come immaginavo, ha risposto subito e mi ha chiesto i dettagli. Poi mi ha proposto di stare da lui finché non troverò un’altra soluzione. Ho pensato che sarebbe stato l’unico modo per non parlarne con amici e familiari, così ho accettato.

Fottesega vive in una villetta bifamiliare di un’anonima cittadina a due ore di treno da quella che è stata la mia ultima casa. Ha una cinquantina d’anni e una moglie bellissima. Quando arrivo, con uno zaino e un borsone, mi accolgono entrambi sulla porta e mi prendono i bagagli di mano. La moglie sorride e mi stringe la mano, Fottesega mi consegna due asciugamani, un paio di ciabatte e mi mostra la camera degli ospiti. Non sorride.
Mi lasciano sola, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza è grande e pulita, senza un filo di polvere. Cerco di riempire lo scaffale vicino alla finestra con le poche cose che mi sono portata dietro, poi mi stendo sul letto a guardare il soffitto bianco. Il posto mi piace e mi lascio scivolare nel sonno per qualche minuto.

A cena mi ritrovo seduta davanti a una tavola apparecchiata in modo spartano. Quattro piatti bianchi e un bicchiere per ciascuno sono tutto ciò che vedo, oltre alla bottiglia d’acqua al centro. Fottesega fa il giro per distribuire le posate.
Mi sono svegliata pochi minuti fa e ho ancora la testa intontita per il sonno. Non riesco a gestire lo sforzo contemporaneo di allontanare l’atmosfera torbida dei sogni e imbastire una conversazione, perciò rimango in silenzio, assorta in pensieri vaghi. Mentre cerco di riprendere coscienza per poter dire qualcosa, compare una donna anziana che non avevo ancora incontrato, forse la madre di Fottesega. Prende posto a capotavola, senza dire niente e senza salutarmi. Poi entra la moglie, con una grande busta di carta, che reca il nome di un ristorante. La vecchia, appena la vede, si mette a borbottare timidamente:
“Perché non me l’avete detto? Potevo cucinare io…”
“Lo sai che oggi è il mio turno”, ribatte la moglie.
“Ma a me piace cucinare, posso cucinare domani se volete”, insiste l’altra, con voce lamentosa.
“Domani sta a me”, precisa Fottesega, che ha finito di distribuire le posate e si è appena seduto.
“Che senso ha questa cosa dei turni se poi non cucinate mai e ordinate tutto al ristorante?”
“Non sono turni per cucinare, ma per occuparsi dei pasti”, risponde Fottesega, mentre si versa da bere.
“Come credete”, si arrende la madre, storcendosi le mani e fissando il bicchiere vuoto.
Nel frattempo la moglie di Fottesega ha iniziato a distribuire il primo e io lascio che mi riempia il piatto senza dire niente. Dopo due settimane passate a nutrirmi di pane confezionato e pesche sciroppate faccio fatica a tenere a freno la salivazione.
Di ritorno da una gita al frigorifero, m’imbatto in Fottesega che stende i panni in bagno, e vado ad aiutarlo. Ci mettiamo circa una decina di minuti, durante i quali lui non apre bocca. È meticoloso e stira per bene ogni capo con le mani, prima di fissarlo allo stendino con le mollette. A volte le sposta di qualche millimetro, se gli sembra che non siano attaccate nel punto giusto. Alla fine, prima di uscire, mi indica la lavatrice e il detersivo e dice: “Se devi lavare qualcosa, fai pure.”

Mi viene in mente che una volta, in un thread su una marca di ansiolitici, Fottesega menzionò che stava valutando l’ipotesi di suicidarsi. I commentatori abituali scrissero una marea di risposte accorate in cui lo invitavano a pensare alle cose belle della vita, alle persone che amava e al fatto che i brutti momenti passano. Qualcuno gli fece notare che quelli che dicono di volersi suicidare sono solo egoisti in cerca di attenzione, che non si ammazzano mai. Fottesega non rispose ai commenti, si cancellò dal sito e sparì, lasciando la maggior parte degli utenti nella convinzione che si fosse ucciso davvero. Io all’epoca giocavo a un GDR con lui e sapevo che era vivo, almeno finché ogni sera si divertiva a deridermi per le idiozie che scrivevo. Ma provavo la strana sensazione di scherzare con un morto.
Dopo una settimana accendo il portatile e controllo la posta elettronica. Trovo una mail di mia madre, due del centro per l’impiego e una quindicina di notifiche da social vari. Sposto tutto quanto nella cartella spam, senza leggerlo, e rimango a fissare la schermata vuota. Prima che si attivi lo screen saver, spengo tutto e vado a sedermi al tavolo della cucina. Dopo poco mi raggiunge l’anziana madre con due mazzi di carte. Giochiamo a solitario, scambiando qualche parola ogni tanto. Scopro che non è la madre di Fottesega, ma una parente alla lontana della moglie, che vive qui già da un anno, in seguito ad alcune difficoltà di cui non può o non vuole parlarmi.
Comincio a sospettare che questa casa sia una specie di centro di smaltimento per esistenze in avaria.

Quando sento il segnale di spegnimento della lavatrice, mi alzo e vado in bagno per aiutare la moglie di Fottesega a stendere i panni. Lei è più veloce e più approssimativa di lui. Ma a metà dell’opera si ferma e va a fumare una sigaretta alla finestra, mentre con una mano scioglie i nodi che qualcuno ha fatto alla tenda.
“Cosa fai di bello nella vita?”, mi chiede senza voltarsi.
“Momentaneamente niente.”
“Capisco.”
Prende un tiro lungo dalla sigaretta e torna a stendere i panni assieme a me. Da vicino è ancora più bella, ma ha molte rughe. Alterna i gesti macchinali con cui stende i panni a quelli per fumare. Mi domanda ancora: “E come vi siete conosciuti?”.
“Internet.”
“Capisco”, ripete.
Poi chiede a bruciapelo:”Hai figli?”
“No”, rispondo.
“Io sì – dice e sorride – ma vive dal padre”.
Abbiamo fatto scegliere al bambino, quando ci siamo separati, e ha detto che preferiva stare dal padre. Dovrebbe venire qua per il fine settimana, ma spesso non viene. Gli ho chiesto perché e ha detto che non ha tempo. Non credo sia vero, ma ho pensato che se non ha voglia di venire, non dovrei insistere.
“Capisco”, dico io stavolta.

Non ricordo esattamente quando sono arrivata. Il computer non l’ho acceso più, per non vedere la posta e le notifiche. Finché non le vedo posso far finta che non esistano.
Come ogni sera, Fottesega rientra per primo, saluta dal corridoio e va nel suo studio. Poi torna la moglie, saluta dalla porta e va in salotto col tablet. La vecchia prozia non esce mai dalla sua stanza e a volte mi domando come passi le giornate. Potrei andare a chiederglielo, ma non ho voglia di alzarmi dal letto.
Bussano alla porta, è la moglie di Fottesega. Mi chiede come sto, le dico che va tutto bene. Mi fa segno di seguirla. Va in camera da letto, apre l’armadio e comincia ad armeggiare fra i vestiti. Poi tira fuori un maglione di lana scura, molto lungo, e me lo mostra.
“A me sta largo, ma a te potrebbe andar bene”, dice allungandomelo.
Lo infilo sopra il dolcevita e annuisco.
“Ti sta bene – conferma, poi continua a cercare nell’armadio – ho un sacco di vestiti molto belli che portavo da giovane. Adesso non mi stanno più, ma a volte mi piacerebbe poterli mettere ancora. È un peccato lasciarli qua dentro. C’è anche una specie di abito da sera, l’ho messo al mio primo matrimonio. Era una cerimonia in Comune, ma volevo essere elegante lo stesso. Non mi fraintendere, non ho mai voluto il vestito bianco con il velo e cose simili, ma ci tenevo comunque a essere bella. Uno si fa un sacco di illusioni nella vita, su come le cose debbano funzionare e sull’importanza dei dettagli.
Probabilmente volevo che fosse un giorno perfetto. O forse ho pensato che non avrei avuto molte altre occasioni per comprare un abito elegante e portarlo in pubblico, non lo so. Le due volte successive mi sono preoccupata molto più delle questioni economiche e degli ospiti. Comunque se lo trovo te lo mostro”.
La lascio parlare e guardo il maglione che ho addosso.
“Secondo te perché preferisce stare dal padre? – mi chiede all’improvviso, mentre continua a frugare nell’armadio – Voglio dire, perché qua non vuole proprio venirci?”
Vorrei dirle che non lo so, che io avrei preferito di gran lunga crescere in una casa come la loro che con gente che ogni tre minuti cominciava a urlare e spaccare cose, ma che forse per suo figlio è diverso. Magari preferirebbe sentir urlare di tanto in tanto. Mi chiedo come formulare il ragionamento, poi penso che in fin dei conti non è molto sensato e dico:
“Non lo so.”
La moglie di Fottesega continua a mettere sottosopra l’armadio, poi si volta delusa.
“Mi dispiace, ma non riesco proprio a trovarlo. Comunque il maglione ti sta molto bene”, aggiunge.
“Sì, mi piace”, dico finalmente.
“Puoi tenerlo”, se vuoi.
“Grazie”, rispondo.

Mi sveglio a metà mattinata, con uno strano senso di lucidità. La casa è deserta e silenziosa. Le pareti bianche riflettono in maniera impeccabile la luce invernale che entra dalla finestra. Vago per il corridoio e per le stanze deserte, cercando di ricordare cosa ho sognato.
Ho sognato che sul divano in salotto c’era un bambino di pochi mesi, grasso, sorridente e completamente vestito di giallo. Era seduto immobile, appoggiato a un cuscino, ed era mio.
Il giallo è un colore che ho sempre odiato.
Torno in camera, tolgo i vestiti dallo scaffale e li appoggio uno per uno sul letto. Metto il computer nello zaino, assieme allo spazzolino e al deodorante. Poi prendo il maglione che mi ha dato la moglie di Fottesega e lo piego con cura. Infilo i vestiti nel borsone, prima i pantaloni, poi le magliette e le camicie, la biancheria, le giacche. Quando arrivo al maglione, nella borsa non c’è più spazio. Lo rimetto sul letto, vicino al cuscino.
Penso che avrò bisogno di vestiti caldi, per il freddo che sta per arrivare, e forse di una borsa più capiente. Mentre esco dalla stanza, apro il portone e lentamente scendo le scale per andarmene.

Testo: Margareta Nemo
Immagine: Erica Molli

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