Mi sono sempre chiesto come Charles Whitman abbia trascorso il giorno prima di diventare leggenda. Se abbia accolto l’ispirazione di un momento o ponderato la sua missione sanguinaria dai tempi in cui indossava la divisa della guardia nazionale. Salì sulla torre dell’università di Austin e sparò ai passanti con un fucile calibro trentacinque. Tiratore eccelso, senza dubbio. Quarantasei colpi spalmati con calma nell’arco di novanta minuti, tutti a segno. Sedici morti e trenta feriti più o meno gravi. Sedici abbattimenti, molti con un singolo colpo, compreso un poliziotto, centrato in pieno petto a più di cinquecento metri di distanza.
Prima di salire lassù, strangolò moglie e madre con un tubo di gomma, e fracassò la testa a una receptionist dell’ateneo. Due poliziotti, immagino gli onnipresenti ciccioni con una scatola di ciambelle di Randy’s sotto braccio, gli rivoltarono la testa sparandogli alle spalle, vuotarono il tamburo prima ancora di varcare l’uscio, prima che il tiratore potesse avere il tempo di sentirli e voltarsi.
Sono certo che qualcuno, a suo tempo, si sia sforzato di fornire una qualche giustificazione psicologica, una nuda ipotesi di realtà investita da scrosci di congetture e di perché. Ineluttabile epilogo di una storia priva di ragioni evidenti, del genere di storie tanto improbabili da impedirmi di pormi domande sulle sue cause; troppo inquietante, troppo insensata, per non essere vera.
Ecco, un motivo non esiste mai. I massacri, le cattiverie, non sempre sono determinate dai fattori di un’equazione.
Abel dice che non dovrei pormi queste domande, che nessuno dovrebbe farsene. In un mondo ingozzato di politica come il nostro, dove ognuno ha un cazzo di colore, non credere a niente è l’unica risposta possibile. Così dice lui. La bandiera nera. Ha scritto una specie di pamphlet in cui celebra l’omicidio come la più grande affermazione di autocoscienza personale di cui l’uomo moderno possa disporre.
Questo è forse il più tenero tra le decine di postulati che tuonano nelle duecentodieci pagine della sua pubblicazione. Orgogliosamente a sue spese. Ho sempre pensato che abbia attinto da un saggio di Thomas De Quincy; ossatura tematica di una brossura di duecento pagine, divisa in tre sezioni che analizzavano l’evento e le sue modalità dal punto di vista estetico, teoretico, epistemologico e altre cazzate del genere. L’università di Padova fece ritirare tutte le copie ma non poté espellerlo finché le denunce per aggressione e molestie non invalidarono il riverbero del cognome. Si fece pure un paio di settimane nel carcere di Trento, il tempo necessario perché un intermediario della banca riuscisse a persuadere quella biondina con gli occhioni e la bocca grande che avesse sbagliato persona, a spingerla a suon di schiaffi, nel cesso di un bistrot del centro alle tre del pomeriggio doveva essere stato qualcun altro. Quel pomeriggio, forse l’aveva dimenticato, aveva bevuto un po’ troppo.
Io, all’epoca – sarà stato il Settantasette, Settantotto – sapevo chi fosse Abel, perché i nostri padri erano amici. Entrambi traducevano il concetto di amicizia in sereni e piacevoli rapporti d’affari. Il mio era prefetto vicario di Padova, il suo uno stimatissimo filologo di Innsbruck, titolare della cattedra di letteratura tedesca a Verona. Abel era un personaggio che non si poteva ignorare, girava con una Mercedes ali-di-gabbiano, beveva dal primo mattino, e in ogni circostanza sapeva guadagnarsi una platea, convincendo tutti di poter organizzare un golpe da una birreria. Era il sogno di tutte le ragazze, ma non scopava mai. Preferiva litigare, in ogni modo possibile, con chiunque gli prestasse attenzione, inveiva contro zecche e repubblichini con la stessa cieca ferocia, ma senza scadere mai nell’ovvio o riciclare un insulto. Niente gli infondeva più soddisfazione di lapidare stolidi omini a colpi di sagaci opinioni. Aveva tre anni più di me, ma aveva fatto il mio stesso liceo.
Tutte avrebbero voluto essere l’oggetto di un’avance qualsiasi, fosse pure l’esplicita richiesta di un pompino, ma il coito non lo stuzzicava quanto i telegiornali e le notti insonni. Atletico, alto, occhi azzurri e boccoli biondo Svezia, il meglio di Ryan O’Neil e il peggio di Malcom McDowell, aveva detto qualcuna. Ogni tanto si faceva vedere al Pulse, un locale pieno di froci con le consumazioni carissime. Lo incrociai nei cessi e per qualche ragione mi riconobbe. Erano le sei di mattina e decidemmo di andare a fare colazione.
Ci ritrovammo in un chiosco vicino alla statale, ordinammo due caffè e lui mi disse che le buone amicizie dovevano essere cementate con una confessione, ogni legame doveva nascere con la perdita di qualcosa di personale, per lui non esistevano cose che non si potessero dire. Né fare. Cazzo, se non esistevano. Conosci Alberto Sgambato?
Avevo fatto il classico, lo conoscevo. Una checca isterica che conoscevano tutti, uno dei primi a dichiararsi apertamente frocio sfidando il ludibrio dei corridoi di un liceo. Il primo di cui avessi memoria, e non si poteva dire che gli fosse andata bene. Lo conosco. Dicono sia scomparso. Quando lo dissi lui sorrise. L’ho ammazzato io. L’ho invitato in macchina, gli ho chiesto di farmi un pompino e l’ho strangolato, poi ho buttato il suo corpo in uno di quei pozzetti di cemento che ci sono in campagna. Mi sono fatto una sega e sono andato a fare colazione, proprio dove siamo adesso.
Mi offrì una sigaretta e si mise a parlare del nichilismo. Non lo presi sul serio, mi sembrò comunque un tizio originale. A suo modo, almeno. Adorava il nichilismo, ammesso che a un nichilista sia concesso apprezzare qualcosa. Avevo paura a chiedergli se fosse stata la prima volta. Vuoi provare? Le sensazioni, almeno in origine, erano simili a quelle che provai mentre la madre di Carlotta, all’epoca la mia fidanzatina tredicenne, mi invitava con l’indice a raggiungerla dietro il separé in vimini decorato con degli ukiyo-e nella sua camera da letto, prima che si rivestisse. Carlotta non lo venne mai a sapere, e per circa un anno e mezzo pianificai le mie settimane in funzione dell’esigenza di scoparle entrambe. Avevo quattordici anni, un Diabolik in miniatura alle prese con il più grosso dei colpi. Nonostante questo, ero un nessuno, e lo rimasi fino a che non incontrai Abel.
Lui era celebre e ben desiderato, molto più che appetibile sia per i maschi che per le femmine, io ero pieno di brufoli e scopavo per il semplice fatto di avere sempre i soldi in tasca. Abel mi offrì qualcosa di più – così pensavo. Quella non era una confessione, erano un paio di manette, una cambiale impossibile da estinguere in vita.
Due settimane dopo andammo a fare un giro, era la prima volta che lo rincontravo. Mi venne a prendere con un maggiolino e andammo a troie. Caricammo una jugoslava coi capelli tinti di un rosso improbabile, che cominciava a stingere; era restia a salire in macchina, le cifre dispari non facevano per lei, ma Abel era troppo bello e troppo attraente, anche per le puttane. Io mi spostai dietro e lei si mise davanti. Abel procedette, ignorando i consigli della troia su dove imboscarsi. Parlava di morale sacerdotale e morale cavalleresca, valori vitali ed eterni ritorni. La puttana ridacchiava, a dispetto della barriera linguistica, senza capirci niente. A un certo punto accostò, scese dall’auto e trascinò giù anche lei. Mi gridò di aprire il bagagliaio e di prendere il martello. La prese a calci. Neanche mi accorsi che aveva in mano una P-38. Prova! Spaccale il cranio. Inutile dire che in quel momento mi sembrò l’unica scelta possibile. Le fracassai testa e cassa toracica e lui le sparò un paio di volte in mezzo alle gambe. La portammo in mezzo ai campi, Abel aveva già riempito la tanica. Mi pare fosse febbraio. Quattro anni fa, più o meno. Non molto dopo l’iscrizione a un’università mai davvero frequentata. È stata l’unica volta di cui ho voluto conservare i dettagli.
Quando leggemmo l’articolo sul giornale, andammo a festeggiare. Le altre non le trovarono mai. La maggior parte le seppellimmo tra Padova, Verona e Mestre. Nessun poliziotto suonò mai i nostri campanelli; nonostante capitassimo dai nostri per non più di uno o due pranzi al mese, gli assegni non smisero mai di arrivarci: nessuno fece domande, nessuno ci venne a cercare. Avevamo già scavato parecchie fosse quando partimmo per Monaco. Abel ci era nato, non vedeva l’ora di tornarci.
Adesso sono su questa orribile Giulietta e sono diretto nel culo del pianeta. Sequals è il buco del culo del mondo, la città di Primo Carnera. Mio padre non mi ha chiesto dove sia stato negli ultimi otto mesi, mia madre mi ha fatto preparare una bistecca e mi ha allungato duecentomila in contanti e un milione in assegno. Meno del solito e parecchio meno di quanto serva per diventare fantasma. In cambio, si sono accontentati di un paio di cartoline del panorama bavarese e dei tulipani olandesi. Sono sicuro che siano venuti a conoscenza di cosa è successo a Milano la settimana scorsa, e anche della storia di Utrecht di qualche mese fa. Mio padre sa, ma non dice, non commenta, non obbietta. Come potrebbe? Dovrebbe guardare allo specchio i demoni che ha teneramente coltivato dalla mia prima infanzia.
La terza volta è andata male. Abel, per poco, non finiva abbrustolito assieme agli altri undici maniaci del cinema Pleiades di viale Porpora. Abbiamo portato alcune bottiglie di plastica piene di cherosene e alcool e le abbiamo versate sulla moquette. Di certo, non era ignifuga. La protezione civile si era spesa più volte, dopo le sessantaquattro persone carbonizzate del cinema Statuto, per una normativa anti-incendio obbligatoria. Lessi su un giornale che quei poveracci trovarono le uscite di sicurezza bloccate, scalpitarono inermi mentre l’acido cianidrico, prodotto nella combustione del poliuretano espanso delle poltrone, riempiva la sala. L’acido cianidrico era il componente fondamentale dello Zyklon B; gasati e bruciati mentre guardavano una pellicola del cazzo con Gerard Depardieu. Entrati nel cinema, abbiamo finto di guardare un porno americano per circa una decina di minuti, aspettando che gli spettatori si prendessero in mano l’uccello. Non fecero caso né alle bottiglie né al fetore che si propagava nell’aria, attutito dal fumo di decine di sigarette. Ci siamo alzati e abbiamo buttato lo spezzone incendiario in mezzo alla sala. I fumi hanno provocato una mezza esplosione che ha privato Abel per sempre della sua chioma fluente. Addio biondo Svezia, addio prurito adolescenziale. Non se n’è mai fatto niente della passera. Proiettato fuori dall’uscita di servizio come una torcia umana lanciata verso la macchina, si riversa sul sedile posteriore, fumante come un tizzone acceso, un pezzo di carne buttato sulla griglia con tutti i vestiti.
Secondo lui è proprio questo il nichilismo. Nietzsche, cosa penserebbe il vecchio misantropo degli incendi dolosi? Stamattina ho comprato il giornale e il conto dei morti è salito a undici. Per poco non ci beccavano. Non è la prima volta. Lo abbiamo fatto anche a Monaco e Utrecht, ma, per quanto ne so, ne abbiamo accoppati solo un paio. Cento morti o nessun morto: non cambia niente. Non puoi fallire, quando non hai obiettivi. Tante ustioni e tanto fumo. Sono quasi le sette e ho superato tre posti di blocco. Tutto il mondo è nichilista; non potrei mai dirlo ad Abel, o rischierei di privarlo per sempre della sua infallibile presunzione d’unicità.
Abbiamo passato due anni a seppellire corpi e nessuno si è mai posto il problema di dove fossero finite quelle persone. È qui che gli è venuta l’idea dei biglietti. Nietzsche li scrisse poco prima o poco dopo il collasso mentale, forse nell’ottantanove, o giù di lì. Era a Torino quando vide un cavallo bastonato a morte da un cocchiere; si gettò verso la bestia e si mise a strillare. Il resto è storia. I biglietti potevano essere decifrati e compresi quasi solo dalla mente che li aveva partoriti, la maggior parte dei destinatari non se li filò minimamente, salvo qualche amico abbastanza gentile e interessato da abbozzare una risposta. Anche per quelli di Abel non è stato diverso, ma il suo divertimento è sempre stato questo. L’inconoscibilità. Niente raggela un essere umano quanto la mancanza di comprensione; in questo modo, l’homo sapiens era approdato a Dio partendo dai temporali.
Aveva cercato disperatamente una macchina da scrivere tedesca di fine ottocento, ma alla fine si era accontentato di una Remington Rand degli anni venti. I suoi biglietti non avevano più senso di quelli di Nietzsche, fatta eccezione per l’indicazione di un luogo, oltre alla firma: Abel Got. Iniziavano con una data e un luogo. 13 novembre 1981, Strada Statale 667, undici chilometri da Bassano del Grappa. Due donne carbonizzate aspettano di essere scoperte dalla giustizia. Avete fede? Chiunque abbia fede, non ha mai visto quali mostri s’annidano sotto i letti d’un uomo. Io vedo. Io vi vedo. Io brucio, e brucerete tutti. Spesso li spedivo io, quasi sempre a giornali del cazzo. “L’Eco di Bergamo”, “il Giornale di Vicenza”, “la Gazzetta del Popolo”, “il Giorno”, “il Resto del Carlino”. Ogni lettera avrebbe potuto trasformarsi in mandato di cattura, invece niente. Le prime vennero pubblicate, le autorità iniziarono ricerche che si conclusero con una constatazione di scomparsa per tre zoccole dell’est. Tutto quel silenzio era lo sprone a continuare. Eccome, se continuammo!
Impiego un bel po’ per trovare la casa. Un rudere abbandonato da decenni e decisamente pericolante, con un pozzo proprio al centro di quella che un tempo era la sala da pranzo; l’intera superficie è ricoperta di brina e gli infissi sono rattoppati con lamiere e assi di legno. Abel occupa una stanzetta al secondo piano, l’unica ancora provvista di un tavolo, sul quale ha sistemato la macchina da scrivere.
Sul muro ha affisso un ritratto di Nietzsche quando era ancora professore a Weimar – o qualcosa del genere. Indossa una specie di accappatoio marcio. Lo saluto, lui tossisce. Lo aiuto a levarsi e tiro fuori dalla sacca l’occorrente per le medicazioni. Ha la pelle squagliata e rinsecchita allo stesso tempo, la carne viva sulla schiena e sulle braccia rigonfia come le assi di un parquet; il pus ha creato delle sacche putrescenti, circondate da croste nerastre color cerume. Il braccio sinistro è scorticato quasi del tutto, sono convinto che l’infezione ci costringerà a tagliarlo. La pelle del giubbotto si è fusa con la carne riaffiorata, rendendo praticamente impossibile distinguere i tessuti estranei da quelli organici. Mi infilo i guanti di lattice e lo cospargo con sei tubetti di crema antibiotica, sento la plastica solidificata e incagliata nella carne putrescente che mi graffia i palmi. Una regione di cuoio capelluto è stata carbonizzata e i capillari delle retine sono tutti saltati. Sono tanto brutto, Tommaso? Posiziono uno specchio rettangolare in equilibrio sul tavolo. Sembro Elephant Man, cazzo! La ragazzina. Mi son tenuto la sua tessera di Azione Cattolica. La ragazzina, Cleo, aveva diciassette anni. Dice che è nel pozzo assieme alle altre due. Da tempo, Abel ha perso il conto. La contabilità non è mai stata tra i suoi interessi, e noi non siamo persone inclini a prestare attenzione a qualcosa che non stuzzichi il nostro interesse. Chiede se mio padre abbia scucito qualcosa. La latitanza costa, anche quando non ci sono segugi alle calcagna. Certo, mio padre ha scucito, come sempre. I genitori sono i genitori. Incredibile quanto orrore possano fingere di sopportare, quando si tratta dei figli. Fingere, sì, perché nessun padre potrebbe sopportare tutto questo se ne conoscesse i dettagli. Ti ricordi quelle due, a Roma? Sì? Tu ti facevi la figlia mentre io mi facevo la mamma. Sei stato tu a proporlo, ricordi? Quella tua ragazza. Almeno quelle hanno potuto raccontarlo, anche se non credo l’abbiano mai fatto. All’inizio aveva tutto un non-so-che di filosofico, non trovi? Abel rivanga ogni abominio con naturale disinvoltura. Mi dispiace dover deludere un amico, il giorno di Natale. Sono onesto con lui: non ce la farà. Il fatalismo è quella cosa che ti fa sorridere per la morte della mamma. Abel, adesso devo ucciderti. Perché?! Abel, è finita. È durata abbastanza? Sei pronto a fare due passi? La Walther è abbastanza piccola da starmi in tasca. Scarrello velocemente e gliela punto in faccia. Si volta con cautela proprio mentre premo il grilletto, il proiettile fora la guancia ed esce sotto lo zigomo sinistro. Mi chiede se sia nuova. Regalo di Natale. Biascica qualcosa a proposito della nostra storia, del fatto che debba essere raccontata con sincerità, come se il calibro sette e sessantacinque avesse attraversato un barattolo vuoto. Le favole non raccontano mai la storia dei cattivi. Non credo possa trovare epitaffio migliore di questo. Gli altri due colpi lo fanno cadere, per qualche ragione non lo ammazzano. Due buchi in testa, uno allo stomaco, rimango in attesa che il suo cervello si gonfi e che muoia soffocato. Guardo l’orologio: un minuto e quaranta interminabili secondi. Arraffo tutto quello che posso, lo accartoccio dentro una borsa e salgo in macchina. Non ci metto molto a trovare una caserma dei Carabinieri.
Qualcosa mi dice che il corpo di guardia non ami ricevere visite, il giorno di Natale. Ne sono certo, così come Nietzsche era certo che nessuno avrebbe mai replicato ai suoi biglietti. I fili logici hanno il solo scopo di far inciampare quelli come me. Come noi. Esistono persone che passeggiano lungo il corridoio di un reparto oncologico infantile pensando a cosa manca nella dispensa. Puzzo ancora di fuliggine quando premo il bottone del citofono. Chi è? Un assassino.
La serratura della porta blindata scatta, azionata da uno sfrigolio elettrico seguito da un klang, da qualcuno che vuole farsi aspettare. Un carabiniere piuttosto giovane mi chiede cosa voglio. Rispondo che ho ammazzato parecchie persone. Mi accusa di oltraggio a pubblico ufficiale e mi prende per un braccio. Chiedono se ho bevuto? Non ultimamente.
E chi avresti ammazzato, tu?! Un sacco di gente, un sacco di stronzi e un sacco di brave persone. E dove sono tutti ’sti morti?! In giro, qua e là. Ci sono quattro zoccole ammassate dentro un buco a ridosso della statale a Padova est. Ma vaffanculo, va’! Mi buttano in uno stanzino e mi mollano un paio di schiaffoni. Mi prendono il portafoglio. Sono Tommaso Orfani, nato a Verona ventitré anni fa. Ho ammazzato la prima volta il 26 febbraio del 1979, perché era il giorno in cui Bonaparte è scappato dall’Elba, mi pare. Ho contribuito a inviare una serie di biglietti alle redazioni di giornali locali in cui si nascondevano le indicazioni per ritrovare i corpi, ma la maggior parte non sono mai stati pubblicati, forse neanche letti. Ho incendiato io il cinema Pleiades di Milano, due settimane fa. Nel mio portafoglio c’è il biglietto d’ingresso della discoteca Norman di Utrecht, il giorno di un altro incendio. Lo stesso abbiamo fatto anche a Monaco, in un ricovero per senza tetto, ma non siamo riusciti a farlo come si deve.
Il racconto termina con una scarica di botte; non tanto per i contenuti, quanto per l’obbligo di starmi ad ascoltare. Trovano l’assegno, i soldi, mi fanno togliere i pantaloni e il giaccone e mi ammanettano a un termosifone per non farmi crepare di freddo. E questi chi te li ha dati!? Mio padre per Natale. Hai un padre generoso. Ho un padre ricco, era un prefetto. Addirittura!? Tu ci stai solo prendendo per il culo!? Ti buchi!? Dicci la verità, imbecille! Ve l’ho detta. Posso aggiungere altri dettagli se vi fa piacere, ma il senso non cambia. E quanti omicidi staresti confessando? Forse una ventina, ma dovrei pensarci a lungo, credo che si possa arrivare facilmente a trenta. Povero stronzo! Quale studente universitario figlio di papà ammazza trenta persone e si costituisce la notte di Natale?! Sei un disagiato del cazzo, e stanotte la passi qui! Stanotte!? E quante Ave Maria?
Abbassano le tapparelle, escono e chiudono a chiave la porta dell’ufficio. Li sento bestemmiare e ripetere la parola prefetto come fosse una specie di maledizione. Nessuno dei presenti ha intenzione di vedersi rovinate le feste da un mucchio di cadaveri presunti.
D’altro canto, quale prova a discarico della mia follia potrei presentare? Sono un folle, e come tale privo del diritto di essere ascoltato. Dopo quattro ore aprono le manette e mi invitano a rivestirmi in fretta. Mi spintonano fino all’uscita e mi accompagnano alla macchina costringendomi a partire. Ingrano la prima e rilascio la frizione: non c’è un altro modo di farla finire. Punto la pistola al petto, appena sotto la gola, e sparo. L’abitacolo funge da cassa di risonanza, i miei timpani esplodono assieme ai finestrini. Vedo nello specchietto i carabinieri che corrono verso la mia Giulietta che ormai procede senza pilota. Singhiozzo un po’ di sangue nell’abitacolo, arrivano davanti al finestrino, accenno un occhiolino.
Eccomi, all’inesorabile epilogo di un’altra storia priva di ragioni evidenti. L’ineluttabile finale, faticosamente rincorso e, infine, raggiunto. La mia faccia si riflette in obliquo nello specchietto, una pessima inquadratura finale. Ho il tempo di rammaricarmi di non poter trattenere il momento, di indugiare sulla sfortuna che accomuna gran parte degli esseri viventi. La condanna di dover morire senza poterselo ricordare.
Testo Giacomo Cavaliere
Illustrazioni Vincenzo Ventura