Arrivai lì dopo anni d’attesa, di esercizi d’immaginazione. Una somma di sentito dire, di informazioni recuperate da altri, per interposta persona. Avevo girato attorno a quel luogo come se mi spettasse, senza aver chiaro il perché, e in realtà non sapevo se si trattasse soltanto di una mia fantasticheria. Era un posto arretrato – così si dice – un posto della tradizione, fatto dalle persone che lavorano e vivono per strada più che dai palazzi e dai monumenti, seppur visibili, a volte persino imponenti e memorabili.
Arrivai e mi fermai nella capitale per l’approdo intercontinentale, a qualche centinaio di chilometri di distanza dalla mia destinazione finale. Da sùbito notai che le abitudini, le movenze e le infrastrutture occidentali avevano persuaso il territorio a importare il proprio modello, ma in quel modo un po’ imitativo che lascia da parte la qualità per l’apparenza – se di qualità si può parlare – il dettaglio per l’approssimazione. Le strade strabordavano di vecchi modelli di auto, di taxi in serie e di bus macilenti, i semafori al contrario scarseggiavano. I mercati restavano stipati ovunque sui marciapiedi e i pedoni – come li chiamiamo noi – sfilavano lungo le strade sfiorati dal traffico, attraverso le vie gli incroci le piazze, spericolati e insieme impavidi tanto quanto i cani randagi i topi e le mucche. Le bottiglie di plastica giacevano abbandonate a terra come bucce di banana, accanto agli arrostitori di pannocchie contagiati dallo smog e dalla polvere, ai venditori di patate dolci cotte nei bracieri cilindrici e condite con lime e pepe, o a quelli di polli vivi chiusi in gabbie di bambù.
Molti degli ambulanti, la sera, li vedevi accucciarsi sui propri banchetti, mentre i tassisti si accostavano al bordo delle strade, a un’ora qualsiasi, e dormivano senza badare al buio o alla luce, alla casa, assecondando la stanchezza inappellabile e improvvisa.
Mi sembrava che la tradizione si fosse fatta stretta, per lasciare all’ingombro occidentale lo spazio dell’invadenza. Mi sembrava che fosse simile alla natura e che, come quest’ultima, richiedesse un livello di attenzione altissimo, perché era in grado di rimpicciolirsi, di trasformarsi, di cambiare sembianze.
Arrivai lì per questo, ma lo scoprii soltanto alcuni giorni più tardi. Avevo bisogno di tornare a prima, di tornare indietro, e fortunatamente – pensai – ci sono ancora luoghi che lo permettono. Avevo bisogno di tornare a prima della Rivoluzione Industriale – che ne so – dove il rumore è dell’uomo che fa e non dell’uomo che usa. Era il mio viaggio a ritroso nel tempo, prima dei motori, dei clacson, delle radio, delle tv, dei fischi, degli allarmi, dei telefoni, delle gru, dei trapani. Nella capitale tutti questi rumori si sfogavano, imperterriti; gli abitanti del posto non sapevano nulla delle regole d’uso dell’Occidente, erano come bambini, guastavano e rompevano per istinto qualsiasi cosa dell’importazione gli fosse messa tra le mani.
Mi bastò poco, un volo di qualche ora, per far ritirare le auto come una marea, per ridurle a motorini sporadici incastrati in stradine minuscole, costruite per i piedi e rimaste tali. Sarebbe stato difficile raggiungermi così indietro nel tempo, in un luogo in cui io stesso non esistevo.
Pagai il tassista per il tragitto fino ai confini della cittadella, presi il mio bagaglio e iniziai a camminare. Sempre dritto, mi aveva indicato con la mano, per aiutare il suo inglese farraginoso e la pronuncia sballata. Il fiume, river – solo river –, da lì era facile trovare l’albergo. Lo ascoltai, andai al fiume; trovare il fiume era molto più semplice, più di qualsiasi altra cosa. Ci arrivai da una delle aperture nelle mura che lo costeggiavano, seguendo il sentiero che il tassista aveva scelto per me. Dieci, quindici minuti a piedi ci impiegai.
Mi misi sulle scalinate di pietra che percorrevano la riva. Accanto a me c’erano delle donne, indossavano vestiti locali come quasi tutte le donne che avevo visto. Stavano stendendo al suolo delle lenzuola dopo averle lavate nell’acqua del fiume. Poco più in là, dietro di loro, vedevo ardere le fiamme dei forni a cielo aperto per la cremazione dei cadaveri. Avevo letto che ci volevano all’incirca tre ore per ogni corpo. Nel punto crematorio con più pire, ce n’erano a diversi livelli, a partire dai benestanti in alto, con la legna migliore – abbondante – al coperto sotto una tettoia, fino ad arrivare ai poveri, con la legna donata. Comunque fosse, tutti erano destinati a finire nel fiume. Restai pochi minuti a guardare l’acqua grigia e la sponda orientale deserta dall’altra parte; in qualche maniera mi trovavo ancora in Occidente. C’era foschia, non saprei dire il motivo, forse aria e acqua agivano così, annebbiando il panorama, sebbene la temperatura fosse tiepida e piacevole e l’odore del fuoco annientasse quello dei corpi, rendendoli legno.
Decisi di cercare il mio albergo; mi ero segnato il nome su un foglietto di carta, sia nell’alfabeto autoctono sia traslitterato, per riuscire a pronunciarlo. Le indicazioni dicevano che era di fianco a una delle porte della cinta muraria e che, venendo dal fiume – come se fosse possibile un approdo fluviale – vi avrei trovato il nome scritto sopra, a grandi caratteri.
Approfittai di una delle lavandaie per mostrarle il biglietto. Mi avvicinai piano, tenendo il sorriso fermo sulle labbra. Inchinai di poco la testa per salutare. La donna mi rispose allo stesso modo, restando immobile con il resto del corpo. Aveva le mani ben salde l’una all’altra, avrei detto in segno di preghiera, ma significava ugualmente di non toccarla. Abbassai gli occhi sul foglio e indicai il nome della porta nell’idioma locale. La donna, senza un fiato, liberò le mani e indicò a sua volta la direzione che dovevo seguire. Toccai il mio orologio e segnai con le dita il tempo che ci avrei messo, cinque dita della mano aperta e di nuovo cinque minuti marcando l’archetto sul quadrante dell’orologio.
Ci lasciammo così, senza smettere di sorridere, quasi complici rispetto agli occhi curiosi che ci guardavano. Non avevo sentito nemmeno un suono, e non serviva.
Camminai dritto davanti a me, trascinando il bagaglio a un paio di passi di distanza. Ripensai a cosa ci avevo messo dentro, mi ero preoccupato soltanto del clima, del clima e delle malattie. Uno spazzolino, un dentifricio, un bagnoschiuma, una salvietta, farmaci vari, il caricatore del telefono, una presa universale e un pacchetto di tabacco.
Non fumavo da un anno, avevo smesso perché non ne vedevo più il motivo, ma volevo essere certo che se mi fosse tornato in mente avrei avuto con me il necessario, e così l’avevo comprato all’aeroporto, insieme a una tessera telefonica.
Le indicazioni sulla pagina web dell’albergo erano corrette, Booking non mentiva, bastava attraversare la porta e avrei avuto l’ingresso sulla mia destra. Non c’era nessuno ad attendermi, il bancone della reception era vuoto.
Dissi c’è qualcuno?, nella mia lingua, volevo soltanto avvertire della mia presenza. Alzai il tono di voce c’è qualcuno?, questa volta funzionò.
Comparve un uomo piccolo a piedi scalzi, sembrava un ragazzino. Non serviva che gli parlassi perché capisse cosa volevo e chi ero. Un unico tipo di persona come me entrava lì.
Presi i documenti dal portafoglio e scandii il mio nome. Dubitavo sapesse leggere l’alfabeto della mia lingua, dubitavo sapesse leggere. La mia voce sembrava invecchiata, così lenta e spezzettata, eppure fece tutto quello che doveva fare. L’uomo-ragazzo sorrise e mi diede la chiave numero dieci e, come me sul fiume, estese le dite di entrambe le mani e le fece lampeggiare per tre volte prima di puntare l’indice al pavimento. In mezz’ora dovevo tornare al bancone. Mi accompagnò davanti alla porta della mia camera. Stese il braccio come se fossimo nella Francia del Settecento, mi invitava a entrare, ero un ospite gradito. Non sapevo se aspettarmi qualcosa di pulito o di sporco, le informazioni che avevo preso qua e là erano contrastanti – a parte l’acqua, da evitare senza scampo – ma ero pronto a sopportare un discreto quantitativo di polvere.
Quando la porta si aprì, prima dell’arredo, vidi la finestra, dritta in faccia, e di là di nuovo il fiume. Bisbigliai un paio di parole, un’esclamazione di quelle volgari, cazzo, ma al ragazzino arrivò che ero contento e basta, gli bastava il mio tono meravigliato. La stanza era perfetta. Mi salutò e nell’allungarmi le chiavi gli mostrai il dieci stampato sopra e rifeci il gesto delle due mani spalancate. Mi buttai sul letto e attesi che passasse mezz’ora. Non feci nulla. Rimasi con lo sguardo fermo sul soffitto, non dovevo fare niente prima di tornare alla reception. Pensai che non avrei dovuto fare niente finché non mi fossi deciso a comprare un biglietto per tornare a casa. Pensai che quel momento sarebbe pure potuto non arrivare.
Il proprietario dell’albergo era un uomo normale, anzi, anche fuori misura: alto, con la barba, possente. Mi costrinse a parlare inglese, credo che lo ritenesse una cortesia, e un dovere. Mi consigliò dove andare a mangiare e dove trovare qualche souvenir. Lo ringraziai, nonostante le reputassi informazioni superflue. Gli chiesi invece delle bottiglie d’acqua, l’unica cosa rilevante ed essenziale. Come noi, per l’acqua, si limitò a usare un braccio, traducibile con un banalissimo qui. L’uomo-ragazzo me ne diede due. Tornai nella mia camera e continuai a restare sdraiato fino ad addormentarmi.
Lasciai l’orologio sul fuso di casa e le rare volte che mi ritrovavo a cercare di capire l’ora aggiungevo sei in automatico – tanta era la differenza. Mi piaceva l’idea di essere avanti e insieme indietro nel tempo.
Mi risvegliai dopo dodici ore. Ne erano passate quattordici da quando il tassista mi aveva lasciato all’imbocco del sentiero per il fiume. Era mattina presto, fuori dalla finestra lo spettacolo continuava identico, solo privo di gente simile a me, magari ancora nella propria stanza o stordita dalle droghe che giravano nel luogo. In una trasmissione radiofonica di anni addietro che avevo ripescato per prepararmi al viaggio, un esperto d’Oriente aveva detto che i turisti che fumano le sostanze di qui sono destinati a morire; non eravamo uguali agli abitanti. Ne faceva una questione religiosa, diceva che soltanto gli adepti del Dio della cittadella potevano godere dell’ebbrezza e dei suoi doni; non era possibile improvvisare o fingere o scegliere uno scopo a caso, arbitrario, doveva esserci devozione. Seguii il suo consiglio più elementare e mi lavai i denti usando l’acqua delle bottiglie di plastica. Quel giorno ricordo che insistetti nel non fare nulla e che non fare nulla corrispose a stare seduto o sdraiato accanto al fiume. Mangiai con così pochi soldi che fu come non aver mangiato – secondo i miei parametri, la mia città, il mio stato, il mio continente.
Trascorse così una settimana, credo. Dormivo in albergo e dormivo fuori, nessuno mi rivolgeva la parola o mi toccava. Nessuno voleva sapere qualcosa da me e i rumori erano così radi e ripetitivi che a volte mi concentravo sugli odori, quelli stabili e quelli che arrivavano a zaffate. Il curry, il curry lo riconoscevo, e lo zenzero riconoscevo, e se sentivo lo zenzero sapevo che vicino, molto vicino a me, stava passando uno di quegli uomini magri che servono il té in piccoli bicchieri di vetro. Sentivo l’odore dei cani, dei numerosissimi cani randagi. In alcuni momenti, quando ero irrequieto, immaginavo le pulci saltarmi addosso, saltare dai cani a me. E poi sentivo l’odore degli oli, dell’olio di bambù, o di gelsomino, o di magnolia, e immaginavo il suono dell’acqua. Rientrai in albergo e l’uomo-ragazzo mi prese per la manica e appoggiò il mio gomito al banco della reception. Aprì i palmi e li molleggiò sospesi nell’aria due o tre volte, attendi qui mi stava dicendo. Il proprietario mi ricordò, sempre nel suo inglese masticato, che la prenotazione era scaduta, e che potevo restare se volevo – if you want – la stanza era libera. Imitai il ragazzino con le mani aperte a fingere di palleggiare e andai in stanza a prendere i contanti. Pagai per la settimana successiva, ma gli dissi di riservarmi la stanza per un mese, i soldi glieli avrei portati una volta terminati i giorni appena saldati.
Il mattino seguente mi sedetti molto vicino alla riva, di fianco a una famiglia; credo che ci fossero quattro o cinque generazioni ammassate lì accanto a me, con la pelle bruna e dorata da sempre, pronta a ricongiungersi all’ardore del fuoco. Le donne erano nell’acqua vestite, sbucavano con il busto cangiante e filato, il capo coperto da un velo trasparente. Gli uomini, gli uomini scherzavano coi bambini, sentivo più che altro dei versi, delle esclamazioni, delle risa. Mi resi conto che tutto, non soltanto i cadaveri, sembrava fatto per finire nel fiume. Il bucato, gli scarichi delle sparute imbarcazioni a motore per turisti, gli animali morti, i resti dei corpi carbonizzati, gli uomini e le donne immersi per lavarsi con saponi e oli. Mi avvicinai piano all’acqua con una bottiglia in mano; ne raccolsi un po’. Dentro il contenitore trasparente anche l’acqua era trasparente e non più verde e marrone come sembrava guardando il fiume.
In stanza, dopo aver mangiato il mio riso sdraiato sul letto, mi misi a giocare con la bottiglietta. La facevo rotolare sulle lenzuola, la capovolgevo, la scuotevo. La lanciai in aria un paio di volte, finché la aprii e annusai il contenuto. Non aveva un cattivo odore, non aveva odore, e pensai che la parte fondamentale del fiume non era stata raccolta, perché non poteva essere raccolta. Mi tornarono in mente le pire e il fatto che non avevo distinto in esse altro odore che quello del fuoco; nessuna carne, come se si fosse dissolta con la morte.
Cominciai a portarmi dietro la bottiglietta ovunque; la tenevo stretta per il tappo mentre camminavo. Guardavo le persone nell’acqua, un giorno dopo l’altro. Non soltanto si sentivano pulite, purificate, rafforzate, doveva essere così. Non gli succedeva niente di quanto si ipotizzava potesse succedere a me o a uno come me. L’esperto alla radio aveva ragione. Mi tornò in mente per un secondo il mio studio di casa, dove avevo ascoltato la trasmissione. Per un istante mi ricordai che sulla scrivania avevo lasciato un biglietto per la donna delle pulizie; un biglietto di quelli vecchio stile, scritti a mano, in cui dicevo che avevo bisogno di allontanarmi per qualche tempo, che avrei fatto un viaggio e che ero d’accordo con un amico – senza specificare il nome – di farmi sentire con regolarità e che quindi lui l’avrebbe informata in caso di necessità. Quest’ultima parte non era vera, non avevo messo al corrente alcun amico. Lo stesso messaggio lo inviai anche via posta elettronica, in maniera seriale, ad alcuni colleghi. Avevo scritto prima quello a mano e poi l’avevo copiato sul computer, modificando un paio di frasi, rendendole un po’ più professionali. Non sapevo se fossi stato efficace, se avessero capito le mie parole. Bastava inserire la tessera nel telefono per controllare.
Entrai in una guest house con il ristorante sul tetto, aveva grandi tavoli e una vista sull’intera cittadina con il fiume. Ordinai indicando la pietanza sul menù, il cameriere fece un cenno con il capo; poi gli mostrai la bottiglietta d’acqua, ne volevo un’altra – capì anche questo. Me la portò identica, credo fosse la marca del luogo. A quella dell’acqua da bere strappai l’etichetta in modo da non confonderla con l’altra. Puntò il dito al cielo, e questa volta finsi di comprendere cosa voleva che vedessi. Mangiai senza più alzare gli occhi dal piatto. Fu l’odore di fumo a incuriosirmi. C’era un gruppetto di turisti americani accanto a me, della mia età, o qualcosa di simile. Parlavano, ridevano, parlavano del negozio di yogurt dove avevano comprato da fumare. Dicevano che bastava entrare e chiedere un tipo particolare di yogurt, lime e limone, lime and lemon. C’era un buon profumo. Li sentivo euforici, il tono di voce era allegro, non avevano di certo sentito nessuna trasmissione sul Dio locale e il suo legame con le droghe. Fumavano qua come fumavano a casa, o forse fumavano soprattutto qua perché erano in vacanza. Una scelta saltuaria, legata alla pausa dalla loro vita quotidiana, qualsiasi essa fosse. Dicevano che era forte ma che si potevano tenere le dosi classiche. Al massimo ci si divertiva di più. Erano un bugiardino orale in una lingua simil franca. Girai la testa verso di loro, pochi centimetri, senza sollevarla. Avevano dei visi divertiti, spensierati. La ragazza che stava fumando, una mora con un foulard colorato avvolto attorno ai capelli, portò la canna in mezzo al cerchio e mentre scriveva dieci nell’aria con le dita si accorse di me. Mi guardò e allungò la mano nella mia direzione, mi stava offrendo da fumare. Lo fece sorridendo. Anche il resto del gruppo si voltò seguendo il suo braccio. Le chiesi se era forte, in inglese, e intanto feci ondeggiare la testa da destra a sinistra tenendo una mano dritta perpendicolare al mio volto, e lei sorrise di più – era come se mi dicesse di non preoccuparmi. Rifiutai agitando l’indice della stessa mano e sorridendo di riflesso, a labbra strette. Lei sollevò le spalle, una volta, lentamente, e il cerchio di amici si richiuse escludendomi.
Finii di mangiare in silenzio, sentendo le loro risate alzarsi e abbassarsi, i loro bisbigli diventare versi goliardici. Prima di andarmene sporsi una mano in segno di saluto e la ragazza mora del foulard me la prese. Ci mise una cartina, un pezzo di cartoncino e un accendino. Non le dissi niente e i ragazzi che erano con lei mi salutarono unendo i palmi come in preghiera. Lasciai che la loro ironia rimanesse un punto di domanda.
Nel tornare al fiume, seguendo la solita stradina, notai la yogurteria – qualche volta c’ero di certo già passato davanti. Appeso al muro, all’esterno, c’era un elenco in inglese di frutti, di possibili combinazioni. Lime and lemon era quella giusta, e non compariva tra le altre. Mi fermai a guardare all’interno della stanza.
Il negozio, la bottega, era una stanza aperta sulla strada. Tutto attorno lungo le pareti c’erano delle panche in legno e foto attaccate sui muri – credo delle persone passate di lì – con scritte in alfabeti diversi, nomi, saluti – per quello che riuscivo a decifrare – e date. Un tavolino di plastica con tovaglioli e cucchiai stava invece nel mezzo. C’era un ragazzo, assomigliava all’uomo-ragazzo del mio albergo, basso, magro, a piedi nudi, che distribuiva e ritirava penne e pezzetti di carta, su cui bisognava scrivere lo yogurt desiderato. Chiesi comunque a uno che assomigliava a me, gli chiesi a cosa servissero i pezzetti di carta.
Excuse me. Yes. Why this?, toccai il suo foglietto. You write the number and the name of your choice. Puntò alla sua scelta sul tabellone. Alzai un pollice in segno di ringraziamento e mi sedetti tra gli altri. Il ragazzo della yogurteria mi si avvicinò come se non ci fosse altro da fare. Presi il mio foglietto con la penna e restai a fissare il pannello dei gusti per qualche tempo. Come potevo scrivere lime e limone? Lime and Lemon. Mi feci notare tirando su un braccio. Lampeggiò anche lui con la mano spalancata davanti alla mia faccia. Dovevo aspettare. Risposi ok mettendo il pollice e l’indice a cerchio. Ci eravamo intesi.
Lasciò la stanza, scomparì dietro una tenda tirata che fino a quel momento non avevo visto. Guardai il mio orologio – per contare i minuti d’attesa il fuso orario non faceva alcuna differenza. Quando tornò, mi sfilò la penna dalle dita e scrisse dollari, solo con il simbolo, $, e mi ripassò la penna. Io scrissi dieci e feci dieci anche con le mani. Dovevo aspettare ancora.
Non feci neanche in tempo a tornare con gli occhi sull’orologio che mi stava invitando a seguirlo dietro la tenda. Vidi, o immaginai, la stanza girarsi verso di me, chiudersi alle mie spalle. Vidi gli occhi del turista cui avevo chiesto cosa dovessi fare con il foglietto guardarmi – credo che pensasse che fosse stato un gesto di copertura, il mio, la mia domanda, che l’avessi preso in giro. Vidi la curiosità chiara nella stanza con una propria forma.
Di là della tenda, lo scambio durò pochi istanti. Il ragazzo mi fissò immobile, senza gesti, finché la mia testa capì che dovevo prendere i soldi. Sfilai il portafoglio dalla tasca davanti dei pantaloni ed estrassi la banconota – per i soldi, in questo tipo di acquisto, non valeva il cambio come per l’attesa non valeva il fuso. Sollevò la tenda e mi lasciò andare per primo.
Oltrepassato l’uscio mi voltai verso di lui ma la tenda l’aveva oscurato. La gente tornò con gli occhi su di me.
Mi rimisi subito a camminare e raggiunsi la strada, speravo che il movimento impedisse loro di possedere una mia immagine sicura. Gli sguardi dentro al negozio e il fumo mi fecero venire voglia del mio tabacco. Deviai, e invece di andare al fiume tornai in albergo.
L’uomo-ragazzo mi accolse fissandomi mentre spazzava il pavimento e sollevava la polvere nell’aria. Anche lui pareva incuriosito – doveva essere un orario insolito rispetto ai miei rientri. Erano bastate una manciata di giornate per farlo abituare, e l’abitudine, come tutti i sostituti della natura, era visibile prima all’esterno che all’interno. All’interno anche mai.
Chiusi la porta della mia stanza, il fiume fuori dalla finestra mi assicurò di essere esattamente dove pensavo di essere, dove avevo voluto andare. Presi il tabacco ancora nel bagaglio, le cartine e il cartoncino per il filtro. Mi appoggiai al ripiano del tavolino accanto al letto. Le mie mani fecero da sole, ammaestrate. Bevvi un sorso d’acqua. Ero indeciso se portare avanti il mio esperimento in camera, da solitario, o se immergermi fuori.
Scelsi il fiume, mi sedetti davanti alla finestra della mia camera, solo pochi metri di distanza, di differenza. Non capii se desiderassi essere un adepto del Dio o un turista. Era un gesto che avevo già fatto centinaia di volte, per anni, ma lo avvertii lentamente, questa volta. Le mani aperte del ragazzino, il simbolo dei dollari, lime e limone. Accesi la mia canna.
Il fumo si spostò verso il fiume, insieme a quello delle pire, e raggiunse la nebbia che vi aleggiava sopra; un paesaggio aereo dai passaggi invisibili, e dovevo essere invisibile anch’io per accedervi. Sentii la presenza dell’orologio sul polso come un’àncora a terra. Segnava le sei. Due lancette consecutive stese a linea retta. Seguii la nebbia davanti a me come un arco verso il cielo, abbassando la schiena, anch’io identico a una lancetta, lasciandomi andare all’indietro di novanta di gradi fino alla pietra del gradino.
Chiusi gli occhi. Mi sembrò di stare su una barca, di ondeggiare; il sole premeva sulle palpebre, uniforme. Restai immobile come se qualcosa mi trattenesse, ma niente mi tratteneva, né l’acqua né il calore. Dovevo sembrare addormentato. Sentii una specie di stretta attorno al braccio sinistro, nello stesso modo in cui l’orologio mi stringeva il polso. Uno due tre quattro cinque, contai quante volte quella stretta premeva sul braccio; era di nuovo una mano.
Non c’era il cielo sopra di me quando aprii gli occhi, c’era il volto di un uomo. Parlava veloce, le sue frasi erano un’unica catena sonora. Era la lingua autoctona, questa lingua sconosciuta che, senza significato per me, era tornata al suo splendore musicale. Da sdraiato il suo volto mi apparve rovesciato, una visione sottosopra, a capofitto e allo stesso tempo rivolta in su. Mossi le labbra, ma uscì soltanto un mugolio infantile, primordiale, qualcosa di poco articolato e delle sillabe strascicate e grasse. L’uomo sopra di me prese una delle mie bottigliette e mi versò dell’acqua in bocca; un’inondazione che sciolse e portò via quello che c’era sul cammino. Come il fiume, dissi nella testa.
Testo Federica Patera
Illustrazioni Littlepoints
Lettura Veronica Rivolta
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