Il poliziotto mi mostra di nuovo il vestito bianco, ha uno sguardo ostile. Continua a dire cose che non sento, una lunga fila di parole secche e concitate, che come una processione di formiche fuggono dalla sua bocca e dopo pochi passi si disperdono nell’aria. Come le formiche nell’aspirapolvere di Nadia, mentre aspiravo il formicaio.

Quando vede che non lo ascolto, il poliziotto si arrabbia e fa scivolare il vestito verso di me. Per la prima volta lo osservo da vicino. È bianco, di un tessuto sintetico lavorato con cura per sembrare seta e pizzo. Agli orli si sfrangia in delle piccole trecce, lunghe circa tre centimetri. Alcune sono bianche, altre sono rosse.
Anche il resto del vestito, soprattutto sulla schiena e sul petto, è screziato di rosso.
Il poliziotto ha smesso di parlare e mi guarda. Lo guardo anch’io. Poi, visto che non riesco a sentirlo, tiro fuori il certificato e lo spingo verso di lui.

Io e Nadia non volevamo questo. Voglio dire, non sapevo neanche che si chiamasse Nadia. Sapevo che dovevo chiederle qualcosa e credo di averla sognata per molte notti di fila, ma non ricordo se sia successo prima o dopo la faccenda del vestito. E prima o dopo la storia sul treno.
La storia sul treno, per esempio – adesso tutti pensano che sia stata colpa nostra – ma davvero, noi stavamo solo lì a guardare, come gli altri.
Un uomo con la camicia azzurra, spiegazzata sulla schiena, e un tablet nella mano destra, continuava a dire: “Chiamate la Polfer!”.
Gli altri rispondevano con lamentele generiche:
“Non serve a niente, finché siamo fermi.”
E: “Ogni giorno la stessa storia!”
Stavamo tutti in piedi attorno a quei due posti, formavamo una specie di semicerchio asimmetrico. Ho provato a raddrizzare e chiudere la circonferenza avvicinandomi all’uomo col tablet e cercando di spingerlo più in là, verso una ragazza con il piercing al sopracciglio e un tatuaggio sulla spalla, ma l’uomo col tablet mi ha lanciato uno sguardo furioso e ho lasciato perdere. Se agli altri non piace l’ordine e non hanno senso estetico, non è colpa mia.

In fin dei conti vale lo stesso per la storia delle vespe. Se alla gente non importa di avere fessure nel soffitto e insetti in casa, puzzo d’immondizia e vicini che scavalcano le balaustre dei balconi, come si fa a dare la colpa a qualcuno quando le cose vanno storte? A qualcuno che vuole solo rendersi utile, per di più.
Ma questo non c’entra con il treno, perché sul treno Nadia non ha fatto nulla. Mentre io e gli altri passeggeri discutevamo, lei è rimasta seduta al suo posto, dandoci le spalle, e giocando con il cellulare. Forse è stato in quel momento che mi è tornato in mente. Che la conoscevo e che dovevo parlarle.

Non ricordo quando è stata la prima volta che ho visto Nadia. Forse è stato in quel sogno con i cactus sul davanzale e le case in equilibrio su tralicci di alluminio e cavi del telegrafo. O forse ho visto una donna vestita come lei per strada. Quel giorno o un giorno prima della storia sul treno.
Portava un vestito bianco, molto leggero, lungo circa fino a metà coscia. Era fatto di due strati di stoffa, uno molto sottile, semitrasparente, che stava sotto, e uno di pizzo, un po’ più scuro (forse un po’ ingiallito dall’uso) che stava sopra.
Non so se sia questo. Forse ne aveva molti uguali.
Comunque sia, il vestito era bianco, accecante sotto il sole del primo pomeriggio, e tutto il resto era nero. I capelli, i guanti, i sandali, gli occhiali da sole con le grandi lenti squadrate e la montatura spessa. E una collana che scendeva sul vestito e terminava in un pendente sferico, lucido. Camminava con passo scattante e guardava fisso davanti a sé. Ho pensato subito che dovevo parlarle.
Non l’ho fatto. Non quella volta. Credo di averle parlato per la prima volta dopo la storia sul treno. Eravamo in un campo a pochi metri dai binari e lei cercava delle spighe di mais mature per fare uno spuntino. Aveva ancora gli occhiali da sole, ma dietro le lenti traspariva un’ombra del suo sguardo e l’odore del suo profumo si mescolava a quello di concime che saliva dal terreno umido. Più tardi, nel suo appartamento, fra le formiche, i cactus e le vespe, quell’odore non c’era più.
O forse non lo sentivo più. Molte cose non riesco a metterle a fuoco; vedo i dettagli, ma non l’immagine intera. A volte non vedo neanche i dettagli, la mia mente si fa bianca e non lascia entrare più niente.

Non è stata mia e di Nadia l’idea. È stato un signore tarchiato, basso, rosso in faccia. Ha detto che si era rotto il cazzo, che lui tornava a piedi. Che tanto erano sì e no ottocento metri e vaffanculo le Ferrovie di merda. Sudava tantissimo. Sudavamo tutti, ma su di lui il sudore si notava di più. Gli colava a perle dalla fronte e si accumulava nella barba. Da lì scorreva a rivoli giù per il collo e spariva nella camicia. E poi ricompariva in due grandi macchie, una sul petto e una sulla schiena. La camicia era a righe verdi, non era facile vederle. Le macchie, intendo. Non era facile vedere le macchie. Avevano una forma strana, in alcune zone aderivano al corpo, in altre no. Dove toccavano la pelle, avevano formato delle pieghe nella stoffa, e la fantasia a righe era diventata irregolare.
Sì, lo so che non è interessante, ma è una cosa che ricordo bene.
L’ha aperta lui. È facile, basta azionare una maniglia sopra la porta. Non scatta nessun allarme, non nelle carrozze almeno.  E il binario accanto era libero, quando siamo scesi.
Sì, il treno veloce è passato subito dopo, avevamo appena staccato e sbucciato una spiga nel campo di mais. Nadia rideva.
Ovvio che l’abbiamo sentito. Non il treno, il fischio e tutto il resto. Le urla. La frenata e l’impatto.
Nadia non voleva andare a vedere. Nemmeno quelli che avevano raggiunto il sentiero fra i binari e il campo sono tornati indietro. Si sono girati, hanno visto cos’era successo e se la sono svignata.
Abbiamo fatto quello che hanno fatto loro. Io avevo fame e Nadia voleva cambiarsi.
Quando abbiamo sentito le sirene eravamo già nel suo appartamento.

La storia del sangue è strana. Io ero fuori casa da sei o sette ore, non avevo preso i farmaci e Nadia era scossa. È stato tutto molto complicato e ne ricordo poco. È successo perché avevamo fame. Io avevo fame.
Nadia ha una casa bellissima, un attico all’ultimo piano di una palazzina poco distante dalla ferrovia. È poco lontana dai campi ed è la più alta del quartiere, e quando si guarda dalle finestre, sembra sospesa nell’aria o immersa nelle campagne. Dal balcone sul retro si vedono i binari in lontananza sbucare fra gli alberi e le case basse, e quella sera si vedeva anche il treno fermo. Il sole stava per tramontare.
Nadia per prima cosa ha aperto tutte le finestre perché c’era una puzza tremenda.
“Mi dimentico sempre di portare fuori la spazzatura”, ha detto. Poi, dopo un po’, non mi ricordo dove l’ho messa e comincia a puzzare.
C’erano sacchetti e scatole ovunque, impilati lungo i muri e sparsi qua e là sul pavimento. Mentre Nadia apriva le finestre e liberava il divano da un mucchio di cianfrusaglie per farmi sedere, il mio sguardo si è posato su una fila di formiche che correva da un angolo del soggiorno alla portafinestra, passando sotto il divano, il tavolino e un paio di sacchi neri abbandonati in mezzo alla stanza.
“Hai delle formiche”, ho detto.
Nadia si è fermata e mi ha guardato:
“Ti danno fastidio?”
“No.”
“No?”
“Un poco.”
“Se vuoi ho un’aspirapolvere, puoi aspirarle.”
“Non posso, non uccido gli animali.”
-“Sei buddhista?”
– No –  ho dovuto fermarmi e riflettere. Nel mio cervello si stava espandendo un vuoto bianco, che lentamente, a balzi irregolari, inghiottiva i miei ricordi – No – ho detto, dopo un po’ – ho lavorato in un mattatoio per sei mesi. Da allora, certe cose mi danno fastidio”.
Nadia mi ha guardato. Aveva in mano l’aspirapolvere. L’ho attaccato alla presa, l’ho acceso e ho iniziato ad aspirare le formiche, una alla volta, partendo dal divano, finché a metà della fila ho trovato il formicaio, sotto una mattonella smossa e ho aspirato anche quello. Nadia continuava a guardarmi. Sembrava che stesse aspettando qualcosa, allora ho detto la prima cosa che mi è passata per la mente:
“Ho fame. È da stamattina che non mangio.”
“Se vuoi ti preparo dei wurstel.”
“Non mangio carne.”
“Ah, già. Aspetta”, si è girata ed è andata in cucina, poi mi ha chiamato.
Era ferma davanti alla porta spalancata del frigorifero e ne fissava il contenuto. Di fronte a lei, tre scomparti strabordanti di rosso. Sacchetti e confezioni di bistecche, braciole, salsicce, frattaglie, teste di maiale, costole d’agnello, carne macinata, tagli per bollito. Che esalavano un odore penetrante di carne marcia.
“Ho solo questo”, ha detto alzando le spalle.
“Non posso mangiare carne.”
Il mio sguardo, per evitare il suo, si è spostato sul pavimento. Nell’angolo vicino al frigorifero, c’era una crepa nelle mattonelle gialle. Sembrava profonda, ma non riuscivo a capire se attraversasse tutto il solaio fino al piano inferiore, perché in parte era nascosta da un grosso sacco di plastica. Tutto attorno al sacco e alle mattonelle spaccate, guizzavano gruppi di scarafaggi neri.
“Vuoi che ti faccia un fritto d’insetti?”, ha ghignato Nadia, seguendo il mio sguardo.
“Non posso mangiare animali”, ho detto, sforzandomi di stare allo scherzo. La voce mi è uscita fredda e monocorde.
“Ma le formiche le hai aspirate”, ha risposto Nadia, con lo stesso tono.
“Le ho aspirate, non le ho mangiate”, ho balbettato, cercando di sorridere.
“Sei una seccatura!”

È difficile dire come sia successo. Non avevo visto i cactus finché non ho dovuto estrarre le spine dalla schiena di Nadia, una a una. Eravamo sul balcone del vicino, ma di quello sbagliato.  Nadia, stesa a terra, imprecava, e attorno a lei erano disseminati vasi rotti e cactus schiacciati. La terra con le radici e i cocci del vaso erano sparsi ovunque, le spine erano quasi tutte nella schiena di Nadia.
“Mi dispiace – ho detto – è colpa mia. Adesso entriamo e chiediamo aiuto”.
“Idiota!”, ha sibilato Nadia fra i denti.
“Lo so, mi dispiace.”
“Non tu, io. Lo sapevo che non dovevo voltarmi. Perdo sempre l’equilibrio quando non vedo dove sto mettendo i piedi.”
“Mi dispiace – ho detto di nuovo. – Lo fai spesso?”
“Un paio di volte a settimana.”
“E il vicino non se ne accorge?”, ho chiesto, mentre le sfilavo una spina dalla scapola sinistra.
“Ahia! Non credo. Non ha mai chiuso la finestra. Se se ne accorge, vuol dire che non gliene importa.”
“Perché non compri semplicemente delle verdure, ogni tanto?”
“Me ne dimentico.”

Continuo a vedere Nadia in piedi sull’unità esterna del condizionatore che separa il suo balcone da quello del vicino, arrabbiata perché non ho il coraggio di seguirla. Quando si è girata e mi ha teso la mano per aiutarmi è caduta. Ho dovuto fare un salto sul balcone sottostante.
È stata una sua idea, rubare delle verdure dal frigorifero del vicino. Ha detto che lascia sempre la finestra sul balcone aperta e rientra tardi la sera, alle nove o alle dieci. Ha detto che è molto facile e che il balcone è così vicino al suo che non ci vuole niente. Dal condizionatore alla balaustra, sono due passi. Avevo paura, ma non volevo deluderla.
Non l’ho spinta, se è questo che state pensando. Ma non ho neanche cercato di trattenerla.
Nadia non se l’è presa più di tanto. È rimasta seduta per un po’ sulle piastrelle in cotto del balcone, con lo sguardo fisso nel vuoto, poi mi ha detto: “Sai cosa facciamo ora?”.
Non ho risposto.
“Prendiamo quello e chiediamo al vicino di farci entrare.”
“Quello cosa?”
“Quello!”,  ha detto Nadia indicando il lato destro della portafinestra.
Ho guardato meglio e ho visto che c’era una formazione giallognola, come una piccola spugna, fra il telaio e il muro. La superficie traforata sembrava percorsa da un movimento frenetico.
“Un vespaio?”
“Sì – ha annuito Nadia – così abbiamo una scusa. Diciamo che stavamo inseguendo le vespe. E poi non c’è niente di meglio che essere gentili con qualcuno per far sbollire la rabbia. Giusto, no?”
“Può darsi.”
Nadia non mi ha ascoltato. Si è tolta il vestito, l’ha piegato in quattro, si è avvicinata al telaio e con una mossa rapida e precisa ha afferrato l’intero vespaio, l’ha staccato e lo ha avvolto nella stoffa, stringendola bene fra le mani. Un paio di vespe sono sfuggite alla presa e hanno cercato di attaccarla in volo, ma lei le ha scacciate imprecando.
L’inquilino a cui avevamo schiacciato le piante non si era ancora accorto di nulla, così abbiamo bussato alla portafinestra per farci aprire. Abbiamo continuato a bussare per un po’, ma non è arrivato nessuno. Poi ho premuto il palmo della mano contro il vetro e la porta si è aperta da sola. Dentro c’era silenzio.

Voi non potete capire, ma da quando esiste Nadia, io non esisto. La storia sul treno – come poteva sapere cosa sarebbe successo? Voleva solo dare un senso a quel viaggio. Renderlo interessante. Lo stesso vale per quel che è capitato al vicino. Nadia sa che evitare i giorni in cui va tutto storto, significa sprecare la propria vita. È solo quando accettiamo la paura e la rabbia e troviamo un modo per renderle interessanti, che impariamo a vivere.
No, non erano ordigni incendiari. Erano dei semplici incensieri con due o tre bastoncini d’incenso per ciascuno. Al profumo di lavanda, sandalo e vaniglia nelle carrozze di prima classe; rosa, patchouli e cannella in quelle di seconda classe. Dovevano solo produrre un po’ di fumo e far scattare il sistema antincendio del treno. Ma il sistema antincendio non è scattato. La plastica dei sedili ha iniziato a bruciare e i passeggeri hanno spento le fiamme con delle bottigliette d’acqua. Poi il treno si è fermato per gli accertamenti e non è più ripartito.
Nadia aveva fatto il giro di tutte le carrozze prima della partenza, e in ciascuna aveva nascosto un’incensiera nell’incavo fra il fianco di un sedile e la parete del treno. Nella mia era un sedile al centro della vettura. Non c’era nessuno attorno e ha fatto in tempo a prendere fuoco anche il posto accanto.
Ma Nadia non voleva fare del male a nessuno. Voleva solo che fosse un viaggio meno noioso del solito.

So che devo spiegare anche quel che è successo nella casa del vicino, ma è la parte di cui ricordo meno. La portafinestra si è aperta e la stanza era ancora immersa nel silenzio.
Davvero non sapevo che il vicino fosse allergico. A me era simpatico e anche a Nadia, penso. Ma quando è arrivato dalla cucina e ci ha visti in piedi nel suo salotto, nudi e mezzi insanguinati, ha afferrato una lampada da tavolo e si è messo a urlarci contro. E Nadia si è arrabbiata – lei voleva solo essere gentile, in fin dei conti – e gli ha lanciato in faccia il fagotto con le vespe.
Non lo sapevamo che era allergico, finché non l’abbiamo visto rotolarsi in terra con le mani alla gola.
Anche l’idea della tracheotomia è stata di Nadia, ma se non l’avessimo fatta sarebbe morto, probabilmente. Ha usato il vestito per tamponare il sangue, mentre le vespe continuavano a ronzare per la stanza, poi non so dove sia finita.
Ricordo che c’erano delle urla, ma forse ero io che gridavo. Quando i poliziotti hanno sfondato la porta non sentivo più niente, riuscivo solo a leggere le labbra. Tenevo il vestito appallottolato nella mano sinistra e continuavo a passarlo sulla ferita per evitare che il sangue coagulasse.
Poi non ricordo più niente. No, non ricordo cosa sia successo prima e cosa sia successo dopo. Non so nemmeno quante di queste cose siano successe realmente. I vicini hanno chiamato per le urla, questo l’ho capito.

Non so che fine ha fatto Nadia e perché l’appartamento nel palazzo risulti intestato a me. Non so neanche perché ero in piedi davanti allo specchio con addosso solo la biancheria intima e i guanti neri, quando siete arrivati. È freddo senza vestiti, su questa sedia di plastica, ma potete chiamare il mio medico, se volete, i contatti sono sul certificato. Adesso ho mal di testa, ho bisogno dei miei farmaci e voglio dormire.

Testo: Margareta Nemo
Immagine: Enrico Pantani

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