Quando Teo le si avvicina, Elena sta pensando in tedesco: Es ist wichting, Ich danke Ihnen für die Gastfreundschaft…
La sera, quando non crolla addormentata sulla poltrona, studia un manuale di conversazione: 4500 vocaboli, dice la copertina, 3000 frasi. Il tedesco è una lingua che le piace. È strutturata, precisa, non lascia spazio all’immaginazione.
Il bambino le tira giù il maglione, la guarda senza sbattere le palpebre, gli occhi tondi come due fanali.
“Facciamo la torta di mele?”, le chiede.
“Certo, amore.”
“E posso leccare il mestolo, dopo?”
Sorride e annuisce. Dal ripiano alto prende la ciotola, dal frigo e dalla dispensa gli ingredienti necessari. Li allinea davanti a sé. Teo, seduto al tavolo, ripete sempre la stessa filastrocca, quella che ha imparato il giorno prima a scuola: Gennaio tanta neve. Januar.
Febbraio col carnevale è breve, Februar.
Marzo spunta una violetta. März.
A
prile con il pesce e la Pasquetta, April.
Maggio per la mamma un grande cuore. Mai.
Giugno dalla scuola siamo fuori, Juni.
Luglio al mare a nuotare. Juli.
Agosto in montagna a passeggiare, August.
Settembre a scuola ritorniamo. September.
Ottobre con la zucca spaventiamo, Oktober.
Novembre è la festa degli ombrelli. November.
Dicembre i regali sono belli. Dezember.
Elena lavora le mele con il coltello di ceramica che le ha regalato Alessio a Natale, facendo un’unica, grande spirale. Teo la guarda rapito, le sorride.
“Sei brava, eh?”, le dice.
Mentre nella casa si diffonde il dolce profumo della frutta, giocano a Nomi, Animali, Cose, Città. Barbara, scrive Teo. Babbuino, scrive Elena. Biberon, scrive Teo. Berlino, scrive Elena. E dal quel momento in poi la sua mente si perde di nuovo.
“C’è la cena da Luca e Sabrina venerdì, te lo avevo detto?”, Alessio è appena tornato dal lavoro.
Elena lo guarda, le mani affondate dentro la pancia di un pollo, la bocca aperta per dire qualcosa, una battuta, magari, solo per fargli capire che si è stufata di queste cene di lavoro mascherate da cene di piacere, a cui, oltretutto, devono portare anche Teo. Che poi il bambino socializzi solo con figli di altri avvocati, a Elena, comincia a non andare giù. Il telefono le blocca le parole, non ancora pronte per uscire. Sempre un po’ in ritardo.
Sua madre. Guarda l’orologio: le otto precise, non sgarra di un minuto. Mai, nemmeno una sera. Le chiede come sta e poi le elenca tutta una serie di dolori che la affliggono da qualche tempo a questa parte. Elena pensa che sta invecchiando. La aggiorna su tutti i casini di Sara, sua sorella, e poi alla fine le dice: “Ti passo papà”.
“Come va soldatina?”
La chiama ancora così, come se avesse otto anni. Ma non è solo quello a irritarla, stasera. Deve dire delle cose a suo marito, ora che ce l’ha sulla punta della lingua, ora che… “Bene, papà”, risponde.
“Il bambino?”
“Gioca con il computer.”
“E tuo marito?”
“Bene anche lui, sta sul divano.”
“Divertiti”, le dice. E aggancia.
Quando Elena si volta, Alessio non c’è più. Dal bagno arriva lo scroscio dell’acqua nella doccia.
Alessio torna dall’ufficio e annusa i capelli di Elena che sanno di buono, di dolce, di casa. Teo arriva di corsa e abbraccia le gambe a entrambi, schiacciando il visetto sul ginocchio di Elena. Alessio ride, fa il verso dell’orso e mette le mani ad artiglio vicino al viso, inseguendo il bambino che corre veloce intorno al divano. Entrambi emettono deliziosi gridolini di gioia. Elena tira fuori dal forno la torta, un po’ bruciata sulla superficie.
Dopo cena, Teo poggia la testa sulla spalla di Elena. È il suo modo per dire che è stanco. Si fa prendere in braccio e, quando lei gli rimbocca le coperte, le afferra una mano. Non vuole che se ne vada dalla sua camera. Affonda le piccole unghie nella pelle, tiene gli occhi chiusi. Elena si siede per terra, accanto al lettino, lisciando il tappeto di Peter Coniglio, e ascolta quel respiro così piccolo. Quando conta un intervallo di tre secondi, si toglie le scarpe per non far rumore ed esce. In soggiorno si siede sul divano accanto ad Alessio. Le figure dalla televisione le corrono sulla faccia senza lasciare segni.
Lui si avvicina, le bacia il collo, le posa una mano in mezzo alle gambe. Elena rovescia la testa all’indietro, chiude gli occhi e si lascia accarezzare, cercando di ricordare quali erano le sensazioni prima, quando il cuore accelerava al primo sguardo e sul seno ci doveva posare una mano lei, per calmarlo. Quando lui le viene dentro sente l’odore della polvere accumulata sui cuscini, conta i giri della centrifuga della lavatrice, pensa alla camicia che ha dimenticato di stirare. Sotto la doccia non riesce a distinguere l’acqua che le scorre sulla pelle del viso dalle lacrime.
Alle quattro del pomeriggio ha già guardato l’orologio dieci volte. Ma è lì solo da venti minuti.
Sabrina le mette davanti una tazza di caffè.
“Grazie per essere venuta prima – le dice – E grazie di aver accettato di darmi una mano. Queste cene tra avvocati mi mettono in agitazione!”
“Mi piace cucinare”, mente Elena.
Bevono in fretta il loro caffè, iniziano a tagliare le verdure. Fianco a fianco. Elena riconosce l’odore del detersivo per il bucato e di un profumo costoso.
“Sai, mi sa che non me lo hai mai detto come vi siete conosciuti, tu e Alessio.”
Sabrina vuole fare conversazione. Elena parla di università, di corsi che entrambi hanno frequentato, ma la mente le torna alle scale. Alle scale lucide, nell’atrio della facoltà di Giurisprudenza. Alle scale dove per la prima volta vede Alessio, mentre le percorre su e giù, ripetendo a memoria un articolo del Codice Civile a pochi giorni dagli esami. Le stesse scale dove, dopo due mesi, lui la ferma per chiederle gli appunti, mentre lei si guarda le scarpe per nascondere le fiamme sulle guance. Quel giorno aveva creduto che non potesse essere più felice di così. E aveva ragione.
“Non sapevo che anche tu ti fossi laureata”, dice Sabrina, insinuandosi nei suoi pensieri.
“Ho sposato Alessio l’anno dopo – le dice secca – Non ho finito”.
“Io non ho nemmeno iniziato, invece. Luca mi aveva già chiesto di sposarlo quando ho finito il liceo. A che mi serviva la laurea?”, Sabrina ride.
Elena vorrebbe unirsi a lei, ma non ne ha la forza.
“Io vorrei ricominciare, prima o poi – le confessa alla fine – Sai, quando Teo sarà un po’ più grande”.
Non sa perché lo ha detto. È la prima volta che una frase del genere esce dalla sua bocca. Sabrina la guarda, sorride senza denti.
“Brava”, le risponde.
Poi riprende indicando un punto sul piano della cucina: “Senti, secondo te quei bicchieri da vino li possiamo usare per lo spumante?”
Quando si salutano, Elena sa che rivedrà quella casa da lì a due ore e le viene una repulsione improvvisa. Per la strada respira profondamente.
Era successo proprio dopo quella cena. Tornata a casa, si era tolta le scarpe nel bagno e aveva vomitato. Poi, la notte, aveva sognato il suo funerale. Si era vista vestita di bianco, accucciata sul marmo brillante di una tomba. La sua gonna, sospinta dal vento,andava a coprire e scoprire la foto di un uomo dagli occhi stanchi. Osservandola, Elena aveva pensato che è quello l’unico modo di morire, quando si è troppo stanchi per vivere.
Attorno a lei il prato era di un verde brillante, gli alberi filtravano la luce del sole. Passerotti dal collo nervoso le saltellavano attorno. A pochi metri, la sua famiglia: un cerchio nero attorno a una bara lucida: la sua. Li aveva osservati curiosa. Aveva osservato suo padre. Le lacrime che gli dividevano il volto in quattro, come piccoli affluenti, e la faccia raggrinzita come quella di un neonato. Era la prima volta che lo vedeva piangere. E per un momento era riuscita a vedere tutto, aveva visto attraverso suo padre: il cuore che pompava, lo sterno che si contraeva, il suo corpo di vetro finissimo. Aveva avuto l’istinto di abbracciarlo, quel corpo trasparente, di affondare le mani tra gli spazi delle sue vene, circondarlo con tutta se stessa, come non ha mai fatto in vita sua.
Un uomo dalle mani e dal volto callosi aveva calato la bara nella fossa. Qualcuno aveva riso, sbucando da dietro un albero. Elena aveva riconosciuto Sara. Vestita di rosso, sembrava una diva degli anni ’50. Era avanzata a grandi passi, aveva rotto il cerchio in due. La gente le aveva incollato gli occhi addosso. Poi si era diretta verso di lei, le si era seduta accanto, coprendo con le scarpe gli occhi stanchi dell’uomo nella foto.
Neanche si era voltata a guardarla, le aveva detto solo: “Da morire dal ridere, vero?”.
Si era svegliata con il lenzuolo attorcigliato alle caviglie, i capelli umidi e freddi sul collo.
Era andata nel bagno senza guardarsi allo specchio. Si era tirata su la maglietta, si era toccata il seno, la pancia. Aveva avvertito sotto le dita una pelle non sua. Questo non è il mio corpo, aveva pensato. Non lo è più o non lo è mai stato?
Dal buco dietro al lavandino aveva estratto la scatolina quadrata, quella dei biscotti. I biscotti danesi. “Ma la roba che contiene è olandese”, aveva detto il tizio del bar.
Quanto si può credere alle parole di un tizio conosciuto in un bar?, aveva pensato mescolando il tabacco alla marijuana. Quanto posso fidarmi di uno che non ho mai visto prima?
Aveva aperto la finestra e aveva tirato una boccata. Due. Tre. Il corpo nudo aveva iniziato a rilassarsi. Ed Elena aveva ricominciato a pensare in tedesco: Es ist wichtig.
Danke. Guten Morgen. Auf Wiedersehen. Hilfe. Seduta sul divano, in mano un bicchiere di bianco freddo. Tocca il vetro che trasuda le sue gocce, le fa cadere sulla gonna di velluto che indossa. Calcola che ha bevuto molto. Facciamo troppo. Osserva gli occhi spaesati di Teo: in ginocchio su un tappeto, ascolta le conversazioni segrete delle figlie grandi di Sabrina. Se sono quelle, le sue figlie. Elena non riesce a ricordarlo. Le gira la testa. Lo stomaco si contrae in continuazione. Dall’altra parte della stanza una donna ride, rovesciando la testa all’indietro.
Elena ha l’impressione che il suo corpo si contorca come quello del lombrico che ha visto la settimana scorsa in giardino. Un lombrico grasso, roseo. Allungava la sua coda, la voltava bruscamente a destra e a sinistra, incapace di nuotare nell’acqua di una buca. Incapace di fuggire. Elena lo ha fissato con le braccia strette al petto. Movimenti sempre più lenti. È rientrata in casa e dopo mezz’ora è tornata in giardino. Il lombrico era immobile. L’ha afferrato con due dita e l’ha gettato oltre la siepe.
Si alza ed esce sulla terrazza. Accende una sigaretta. Nel buio l’unica luce è quella del tizzone. Il punto rosso e intermittente del suo vizio. Lo trova riflesso nell’anello che porta al dito. Pensa a Sara, che adesso serve salsicce e birra a Berlino. Dopotutto anche a lei piacciono le salsicce. Il respiro di Alessio si fa pesante. Quando è entrata nel letto, lui stava ancora sfogliando il giornale. Gli occhiali calati sul naso. Il profumo di menta tra i denti. Non è riuscita a ricordarsi che scarpe portava, quel giorno, sulle scale della facoltà. Si è raggomitolata al suo fianco, il viso nascosto sotto il suo braccio. Lui si è chinato a baciarle i capelli senza distogliere lo sguardo dai fogli.
“Buonanotte, amore.”
“Buonanotte a te.”
Buio. Silenzio. Allunga una mano sotto il letto e tocca la borsa. La tela ruvida accelera il battito del suo cuore, le fa soffocare un sospiro. Lentamente si alza, fa scivolare con un piede la borsa fuori dalla stanza, chiude la porta. Prende la lettera per Teo. La posa sul suo comodino. Si ferma sul tappeto di Peter Coniglio, sussurra ai suoi occhi chiusi: ci vediamo presto. Ma non si muove. I muscoli sono deboli, il respiro cede. La pelle di Teo che riflette la lucina notturna sembra porcellana. È porcellana. Delicata, preziosa. Gli accarezza una guancia.
“Mamma?”
“Ssth – sussurra Elena – torna a dormire”.
“Mamma, hai fatto un sognaccio?”
“Sì, tesoro, un sognaccio. Ma torna a dormire.”
Sente il dolore in fondo alla gola. La busta per Teo sparisce dal comodino. La borsa scivola di nuovo sotto il letto. Elena si chiude in bagno e tira fuori la scatola dei biscotti. Poi strappa la lettera. Mentre aspira le prime boccate ne fa tanti piccoli coriandoli che lascia cadere dalla finestra. Neve di carta. Un lampo illumina le imposte della casa di fronte. Per un attimo tutto è candido: le sue mani, i piccoli pezzi di carta, i muri degli edifici. Poi, di nuovo, il mondo si spegne. La pioggia, più tardi, laverà ogni altra traccia.
Testo: Giulia Romoli
Immagine: Silvia Marchetti