Con Anna ci eravamo già incontrati altre volte, avevamo scambiato giusto qualche battuta, ma non ci eravamo mai veramente incontrati.
Quella sera, invece, avevamo passato la serata a elencare con schiettezza e compiacimento spudorati le nostre comuni fisime e ossessioni. C’era una certa frenesia nella nostra conversazione, quasi come se le cose da dire fossero troppe e non avessimo avuto abbastanza tempo per affrontarle tutte quante nel dettaglio; avevo sentito il bisogno di prendere appunti, segnarmi le cose che avrei voluto chiederle in un secondo incontro. Quando glielo dissi lei rise scuotendo i capelli e incrociando le gambe.
Verso le due ci salutammo, un bacio sulla guancia all’angolo della bocca.
È stata Anna a invitarmi a cena, oggi pomeriggio. Mentre cercavo un pretesto per ricontattarla mi ha scritto un messaggio: “Ehi. Ciao. Come va?”.
“Ciao – le ho risposto – bene, e tu?”.
“Bene anche io, che fai?”, mi ha scritto.
“Cazzeggio”, le ho risposto, e siamo andati avanti così per un po’,  a rimpallarci l’onere di rispondere all’altro, e mentre aspettavo il momento giusto per proporle di uscire lei mi ha invitato a cena. Ora mi ritrovo a uno spiazzo di distanza da casa sua, lo sto attraversando, accelero il passo e cammino nelle zone più illuminate. Per la cena ho scelto una bottiglia di rosso, senza molto impegno. Ero troppo concentrato sulle cose che avrei dovuto dire per far colpo, anche se sapevo di non averne più bisogno, per pensare a un vino più sofisticato. Ero terrorizzato dall’eventualità che l’euforia che aveva animato le confidenze di quella sera fosse frutto di condizioni del tutto particolari e irripetibili, e non riuscivo a smettere di pensare che la cena sarebbe stato un completo disastro e sarei stato costretto a salutare subito dopo aver mandato giù l’ultimo boccone per sottrarmi a una conversazione condotta a suon di colpi di tosse, sorrisi stirati e rumore di cibo masticato oltre il necessario. Avrei dovuto prepararmi almeno un paio di aneddoti di repertorio.
Mentre attraverso lo spiazzo vedo una sagoma, a cinque cofani da me, che armeggia con una portiera in maniera troppo rumorosa per non destare sospetti. Sento rintocchi e raschiamenti, mi blocco per paura di essere visto, ma scelgo il punto sbagliato perché sono proprio sotto il cono di luce di un lampione, e vedo la sagoma alzare la testa dai suoi smaneggiamenti e guardarmi. Con un gesto quasi tenero per la sua infantilità la sagoma nasconde dietro la schiena le mani occupate da attrezzi che nella penombra non riesco a distinguere. Rimaniamo entrambi fermi in un disperato tentativo di mimetizzazione. Penso di essere ancora in tempo per allontanarmi come se niente fosse, non è un pensiero nobile ma, in tutta onestà, non sono minimamente intenzionato a farmi coinvolgere in una situazione del genere.
Accenno a continuare per la mia strada, ma la sagoma evidentemente lo interpreta come un    tentativo di avvicinamento e muove un passo indietro: “Non chiamare la polizia, per favore”, implora.
Mi guardo intorno perché non so cos’altro fare; non posso dirgli che l’unica cosa che mi interessa è raggiungere Anna, è vero che non ho intenzione di fermarlo, ma non voglio nemmeno essere complice della sua fuga.
“Ti prego, lasciami andare”, piagnucola come se per davvero lo stessi trattenendo fisicamente.
Penso che rimanendo fermo e in silenzio prima o poi se ne andrà, ma sbaglio: “Se mi lasci andare non torno”.
Sono costretto a negoziare: “Non chiamo la polizia, ma devi pagare i danni”.
“Non ho fatto niente, questo c’era già. Lasciami andare, per favore.”
Mi passo una mano sul volto, guardo di sfuggita l’ora, si sta facendo tardi: “Se ti lascio andare come faccio a sapere che non torni?”.
“Te lo prometto.”
Sbuffo per esprimere il mio scetticismo, ma la sagoma lo interpreta come una risata e ride anche lui.
“Dai alla fine non ho fatto niente di male, a nessuno.”
È tutto sbagliato, è una conversazione che non voglio intrattenere, con una persona con cui non voglio solidarizzare, su un argomento che non mi piace affatto.
“Va be’, vattene dai”, gli indico con la bottiglia la direzione da prendere, la sagoma si muove, dapprima lentamente, all’indietro, scivola lungo la carrozzeria, poi si volta e inizia una corsetta leggera, si gira per assicurarsi che non abbia preso il cellulare e poi si mette a correre a perdifiato. Lo seguo con lo sguardo finché non sparisce.
Esco dall’ascensore, Anna mi accoglie con un sorriso aperto, mi invita a entrare nell’appartamento caldo di roba che cuoce. Ci baciamo sulla guancia, all’angolo con la bocca, Anna mi prende la giacca e la bottiglia di vino. Le pentole sobbollono e fumano, i coperchi tremolano, Anna mi chiede come sto, per la seconda volta, e per la seconda volta dico bene, le sorrido, mi sorride, sono agitato e non riesco a pensare a niente, sgranocchio un grissino, mi sembra un secchio di petardi, lo poso e tiro su col naso come per introdurre un argomento, Anna mi punta gli occhi addosso come due riflettori, non ho niente da dire ma sento di non potermi tirare indietro e mi metto a raccontare di quello che mi è successo al supermercato.
“Facevo la spesa e, be’, arrivo al reparto del cibo in scatola e vedo un vecchietto, tutto curvo, che fa così”, mi alzo e inizio a ficcarmi sotto la maglietta quello che trovo sul ripiano della cucina, l’interpretazione del vecchietto che furtivamente si imbosca le scatolette di tonno è magistrale e strappa ad Anna una risata a testa reclinata, “io mi blocco e penso di andarmene, fare finta di niente, capisci? Non volevo farmi coinvolgere in una situazione del genere, ma il vecchietto mi vede ed è la classica situazione da io so che tu sai, eccetera, e il vecchietto ha in mano una scatoletta e se la nasconde dietro la schiena, così”, passo la mano tremolante con la scatoletta di tonno dietro la schiena.
“Che tenerezza”, dice Anna.
“Già – le faccio eco io – e rimaniamo fermi a guardarci finché il vecchietto dice: ‘Non chiami la polizia, per favore, mi lasci andare, la supplico, mi lasci’ – faccio una vocetta stridula e tremante, con il sibilo delle bocche senza denti – sono paralizzato, il vecchietto si comporta come se lo stessi trattenendo fisicamente, per qualche motivo mi sento in colpa, non voglio essere implorato, non mi piace quel tipo di potere”.
Anna ha smesso di rimestare nella pentola e mi guarda.
“Cos’hai fatto alla fine?”, lo dice con il viso sorretto da entrambe le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le punte dei piedi piantate in terra. Mi prendo il mio tempo per rispondere, alzo la maglietta e lascio cadere sul ripiano della cucina le scatolette, riprendo posto e la guardo, sorrido. “Cos’ho fatto. L’ho lasciato andare, ovviamente.”
Anna tira un sospiro di sollievo e io bevo un sorso di vino per calmarmi. Il suono di un antifurto mi fa
sussultare, sbatto una gamba contro il tavolo, Anna se ne accorge e, voltando solo la testa, mi chiede se va tutto bene.
“Sì.”
“Sicuro?”
“Forse dovremmo andare a controllare perché, ecco, prima di salire ho… be’, c’era un tipo che stava cercando di scassinare un’auto.”
Anna spegne il fuoco sotto la pentola e si gira con tutto il corpo asciugandosi le mani su uno strofinaccio: “Cosa?!”.
“Ehm, sì era lì che armeggiava e…”.
“E non hai chiamato la polizia?”
“Be’ no, ma…”
Lascio in sospeso la frase, che tanto non avrei saputo continuare, perché lei è già fuori    dall’appartamento, la seguo nell’ascensore. Anna chiude gli occhi, inspira profondamente e si strofina la faccia con entrambe le mani.
“Ma si può sapere perché l’hai lasciato andare?”
“Me l’ha chiesto per favore.”
“E gli hai dato retta?”

“Aveva promesso che se ne sarebbe andato, avevo paura di fare tardi, la cena.”

Anna apre la bocca per dire qualcosa ma ci rinuncia, ritira le labbra dentro la bocca, l’ascensore si ferma e lei corre fuori dal condominio verso lo spiazzo. La seguo. Anna si mette a urlare, dall’auto esce maldestramente una sagoma che si mette a correre, Anna si sfila una scarpa e gliela lancia, manca il bersaglio, io da dietro urlo: “Me lo avevi promesso, avevi promesso che non saresti tornato!”
Raggiungo Anna davanti alla macchina aperta.
“Ma perché non me l’hai detto subito?”
“È più complicato di quanto pensi”
“Allora spiegami.”
Anna respira affannosamente per la corsa e per l’agitazione, non riesco a non guardarle il seno che le si gonfia, ha i capelli che le coprono una parte del viso e ha la bocca semiaperta, le labbra umide. Le scosto i capelli e mi avvicino per baciarla.
“Ma che cazzo fai?!”
Mi ritraggo, spaventato: “Pensavo fosse, insomma, era la spiegazione”.
“Credo che te ne dovresti andare”, me lo dice con il piede nudo poggiato sopra l’altro, la scarpa che Anna ha lanciato è finita sul tettuccio di un paio di auto più in là.
“Mi dispiace”, mormoro a testa bassa.
“Chiamerai la polizia?”, non so perché me ne preoccupi, con un’espressione sconvolta mi dice: “Davvero?”.
Mi allontano, mi giro per vedere se mi stia guardando mentre me ne vado: no, non mi sta guardando. Dopotutto perché dovrebbe? Si è accovacciata all’altezza del nottolino e sta passando un dito sulla carrozzeria.
Testo: Simone Traversa
Immagini: Giulia Pex

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