una lunga morte

Si sa che la barba dei cadaveri continua a crescere per un giorno o due: lo avevano sentito dire tutti. Il fidanzato di Isabella aveva letto che, in realtà, non è tanto la barba a crescere, quanto la carne che, ritraendosi, lascia affiorare in superficie gli spunzoni di pelo sottocutaneo.
All’inizio, quindi, la cosa non era sembrata poi tanto strana. Ma col passare delle ore la barba e i capelli del morto avevano continuato a crescere più lunghi e a crescere ancora, come se non avessero intenzione di fermarsi. Abbondanti boccoli grigiobianchi riempivano già, come imbottitura, la parte superiore della bara. Leonardo là in mezzo sembrava molto più vecchio e saggio di quanto non fosse mai stato. Sembrava un Maestro, ecco cosa veniva in mente a guardarlo: un Maestro.
Avevano già rimandato la chiusura e si interrogavano sul da farsi: troncare sul nascere quella strana situazione, oppure aspettare? E aspettare fin quando, e cosa?

I peli continuavano ad allungarsi, non c’era dubbio. Eppure era morto, inequivocabilmente morto. Anzi, in qualche modo era proprio ciò che stava accadendo a confermarlo.
“Un miracolo!”, scappò detto al prete appena ebbe varcato la porta e fu informato dell’insolita circostanza. Ma poi fu evidente che doveva essersi pentito di quell’uscita: stare dietro a questi affari avrebbe richiesto molto tempo, e non ne sarebbero venuti più fuori.
“Allora? Chiudiamo?”, fece, rompendo il silenzio, dopo qualche minuto di sospensione.
Due chierichetti piccoli e dalla faccia tonda guardavano con tanto d’occhi senza parlare, come bambini che vanno al circo per la prima volta.
“E su, chiudiamo!”, disse ancora il prete dopo un quarto d’ora.
Ma nessuno era intenzionato a prestargli ascolto. Volevano aspettare il dottore, sentire la sua opinione a riguardo. Questi, raggiunto da un impreciso e lacunoso resoconto, all’inizio fraintese e pensò a un rarissimo caso di morte apparente. Aveva spesso fantasticato sulle noie che un frangente del genere avrebbe potuto comportare.
“Oh, mettiamo in chiaro le cose – si affrettò a dire alla persona che era andata a chiamarlo – Il decesso è stato correttamente constatato, le disposizioni di attesa sono quelle regolamentari!”
Giunto poi alla camera ardente, il medico non poteva credere ai propri occhi.
“Perché lo avete conciato così?”, chiese confuso.
“Chi l’ha conciato!”
Il dottore si avvicinò per controllare i peli del morto. Prese il ciuffo che s’allungava da una delle basette tra l’indice e il medio e se lo portò vicino al viso, scrutandolo da sopra gli occhiali.
“Tutto perfettamente normale – disse infine pulendosi le mani sul panciotto – È un fenomeno raro, raro ma possibile.”
Si vedeva lontano un miglio che non ci capiva nulla.

domenico gregorio 1

Adesso la bara era praticamente ricolma, i lunghi ciuffi biancastri formavano come una marea ondosa. Leonardo sembrava immerso in una vasca piena di schiuma da cui emergeva solo il busto leggermente rialzato.
“Ve l’avevo detto, io, che bisognava chiudere prima!”, brontolò il prete.
Forse aveva ragione: non solo i capelli continuavano a crescere, ma avevano preso a farlo molto più velocemente, quasi a vista d’occhio. Un morbido groppo pendeva ora da un lato, arrivando a toccare il pavimento: chiunque volesse passare dall’altra parte doveva sollevare la massa da terra e ammonticchiarla sul petto di Leonardo. Sarebbe stato impossibile pressare tutta quella roba dentro, il coperchio non si sarebbe chiuso. E poi, nessuno avrebbe avuto il coraggio di premervi sopra rischiando di schiacciare il cadavere.
“E se li tagliamo?”, fece Pino, il fidanzato di Isabella, che aveva già avanzato più di una proposta.
Gli altri lo guardarono inespressivamente: nessuno di loro aveva cercato una soluzione, non avevano ancora ben realizzato nemmeno l’esistenza del problema. Allo stesso tempo, però, ciò che aveva proposto Pino era tanto scontato che nessuno provava il bisogno di dirlo, né di sentirselo dire.
“Io non li taglio!”, sbottò Franco, il fratello minore di Leonardo.
Una malsana fantasia aveva sempre tormentato quest’uomo nei suoi vent’anni di attività come parrucchiere: temeva ogni volta che i capelli si mettessero a sanguinare al primo colpo di forbici, resistendo sotto il ferro più coriacei del previsto. Aveva iniziato ogni taglio della sua carriera col cuore in gola e la mandibola tremolante, più di un suo cliente lo aveva notato. Adesso, però, la sensazione nel petto era molto più forte: come se tutte le altre volte non fossero state che una preparazione a questa prova.
“Be’, di che ti preoccupi? – gli disse suo cognato Mario – È già morto, non rischi di fargli male”.
“Io non li taglio.”
“E perché?”
“Tagliali tu, se ci tieni.”
“Io non sono un…”
“Non sarà un problema se gli rovini l’acconciatura.”

A Mario fu messo in mano un paio di forbici. Lui si guardò intorno disorientato, poi si avvicinò alla bara ingoiando saliva. Si fermò davanti all’altro suo cognato, che dormiva serenamente, l’espressione seria e chiusa. Gli avevano messo sugli zigomi uno spesso strato di fard, sotto al quale si notavano comunque dei larghi pori.
Mario si voltò a guardare i parenti in attesa dietro la propria spalla, lanciando uno sguardo supplichevole a sua moglie Lisa e a sua figlia Isabella.
“Non ce la faccio”, disse. Ma subito dopo afferrò un ciuffo e tagliò velocemente.
Non accadde nulla. La ciocca recisa cadde sul pavimento, il moncone pareggiato fu abbandonato sul bordo della bara. Aspettarono quindici minuti osservandone l’orlo dritto e setoso: non sembrava essere ricresciuto.
“Su, su! – disse il prete agitandosi sulla sedia – Tagliamo la parte che fuoriesce e chiudiamo una volta per tutte. Avete sentito il dottore…”
Il dottore se ne era andato da un pezzo e in realtà non aveva detto niente di interessante. I parenti si guardarono negli occhi l’un l’altro, un po’ indecisi e un po’ indispettiti.
“Con tutto il rispetto, padre – disse infine Franco – se ha tanta premura vada pure”.
Il prete non rispose. Fece passare una decina di minuti, poi uscì alla chetichella tirandosi dietro i chierichetti e borbottando qualcosa tra i denti. Che se la sbrogliassero da soli, quella matassa!

Intanto i capelli continuavano a crescere. Anche il ciuffo tagliato da Mario sembrava essersi allungato irregolarmente: avanzava più lento degli altri, ma avanzava. Senza dirsi nulla e senza sapere cosa, decisero di aspettare. Dando le spalle alla bara, se ne stavano raccolti in un angolo a conversare e a commuoversi, come se non avessero già fatto la veglia o ci fosse qualcuno in punto di morte anziché un morto bell’e pronto.
Ricordarono le sue ultime parole, la storia del parrocchetto.
“L’unica cosa di cui ho rimorso – aveva detto Leonardo sul letto di morte – è di aver passato la vita a leggere romanzi sul mare e di non sapere ancora cosa sia il parrocchetto”.
Diceva che sarebbe bastato andare a guardare una volta sola sul dizionario per levarsi quel dubbio che si trascinava dietro da una vita: una cosa da due minuti che non si era mai potuto risolvere a fare. Eppure aveva trovato quella parola di continuo senza mai capirla, rimuginando a vuoto sul suo significato e su scene di cui non riusciva a formarsi in testa un’immagine precisa.
“Non è il pappagallo del capitano?”, aveva chiesto Pino, presuntuoso come al solito.
Pretendeva di risolvere tutto lui, senza nemmeno aver mai sentito nominare il parrocchetto, credendo che l’intuito fosse sufficiente per ogni cosa. Non capiva che un intuito qualunque ce l’hanno tutti, ma che gli altri sanno semplicemente tenere chiuso il becco.
Naturalmente il parrocchetto non era il pappagallo del capitano, Leonardo almeno di questo era sicuro. Si trattava di qualcosa che aveva a che fare con la velatura, qualcosa che per lui era destinato a rimanere tormentosamente vago. Franco gli aveva detto che, se voleva, potevano andare a cercarglielo loro il parrocchetto sul dizionario, ma Leonardo aveva scosso la testa. Ormai era troppo tardi, non sarebbe servito a nulla: che se ne faceva all’altro mondo di sapere cos’è il parrocchetto? E poi non era solo il parrocchetto, il parrocchetto era un esempio…
“Che dite, delirava?”

domenico gregorio 2

Già non era più possibile avanzare verso il fondo della stanza: i piedi guadavano a fatica gli intrichi di capelli bianchi, che arrivavano fin quasi alle ginocchia. L’ultimo ad andare al di là del catafalco era stato Mario, per spegnere i ceri, ed era riuscito a malapena a scavalcare la barriera sorretto dagli altri. Un ammasso informe e ispido sormontava ora la bara, di Leonardo non si vedeva quasi più nulla.
“Che facciamo se non smette?”, chiese Mario.
Non ci fu risposta. Quando infine andarono a dormire — una seconda veglia non l’avrebbero fisicamente retta — nessuno si era posto seriamente il problema. Forse pensavano inconsciamente che la cosa si sarebbe risolta da sé, che l’indomani avrebbero trovato tutto pronto per la sepoltura e avrebbero potuto richiamare il prete. Ma il giorno seguente la stanza era inaccessibile, durante la notte era stata completamente riempita. Aprendo la porta si vedeva soltanto un muro compatto di materia morbida, come quando una tormenta di neve copre la casa fino al tetto.
“Avremmo dovuto dare ascolto al prete – disse Mario – Adesso che facciamo?”
Temevano che i capelli, continuando a crescere, avrebbero sfondato la casa.
“Va’ a chiamare il geometra”, ordinò Franco a Pino.
“No, è presto”, disse Mario.

Lisa, che fino a quel momento si era limitata a singhiozzare in silenzio, iniziò a farsi isterica. Era stata la prima a opporsi alla chiusura, ma ora era anch’ella dell’avviso che avrebbero dovuto seguire il consiglio del prete, procedere alla sepoltura finché erano in tempo: con i morti è così che si fa. Adesso, invece, avrebbero dovuto dar fuoco alla casa, non c’era altra soluzione.
Franco era perso nei propri pensieri. A un tratto realizzò di avere da qualche tempo la sensazione che Leonardo fosse insieme a loro nel corridoio. Era come se percepisse il fratello alle sue spalle: sbarbato come era sempre stato, e come pareva ora che non si fosse mai visto, guardava concentrato verso la porta, anch’egli intento a cercare un modo per uscire da quella situazione. Franco si voltò e dietro di sé non trovò nessuno.
“Potrei andare a procurarmi un machete”, propose Pino.
“Per far cosa?”
“Potremmo farci largo fino a lui. Liberarlo, portarlo via e tapparlo nella bara subito prima che i capelli ricomincino a crescere. Poi saranno affari del cimitero.”
Nessuno commentò quella proposta. Pino rimase dov’era. Qualche ora dopo era ben visibile una lunga crepa che andava dal telaio della porta della camera ardente fin quasi al soffitto, mentre una slavina biancastra già occupava per metà il corridoio.
“Verrà giù la casa”, piangeva Lisa.
“Lasciate la porta aperta.”

Di lì a non molto dovettero uscire sul giardino. Da fuori si notava poco di anomalo, ma la pressione aveva già fatto esplodere i finestroni del piano inferiore. Perfino dal comignolo spuntava un ciuffo bianco.
“Quando si fermerà?”
“Ormai la casa è persa. Va bruciata”, diceva la gente.
“Con le lesioni che ho visto sarà difficile recuperarla, in ogni caso”, diceva il geometra.
Sembrava che tutti avessero una fretta discreta e ossequiosa, ma allo stesso tempo insistente. Nessuno ebbe però il coraggio di incendiare la casa senza il permesso della famiglia. Eppure il fuoco sembrava l’unica soluzione possibile: come avrebbero impedito, altrimenti, che il pelo di Leonardo invadesse pian piano l’intero quartiere? E poi la città, e il mondo, l’universo, forse, andando avanti all’infinito?
“Aspettiamo ancora un poco – disse Franco – Quando inizierà a decomporsi, la barba e i capelli smetteranno di crescere. Niente dura per sempre”.

domenico gregorio 3

Era già notte inoltrata e non capivano se la crescita si fosse arrestata o meno. Ogni tanto sentivano qualche squarcio nella muratura, una specie di scoppio improvviso di travi e mattoni, ma il geometra diceva che poteva trattarsi di assestamenti, cedimenti già in corso da prima. Verso le dieci di mattina sembrò che la spinta si fosse finalmente arrestata. Lo capirono dal fatto che la massa che si era riversata fuori dalle finestre non avanzava più sull’erba del giardino: il geometra aveva fatto man mano dei segni a terra e aveva notato prima un rallentamento, poi più nulla.
“Credo che sia finita.”
“E adesso?”
C’erano più di venti operai a lavorare insieme ai familiari. Faceva strada il geometra, che aveva il ruolo di accertare se fosse sicuro o meno andare avanti. Disse che perlomeno non ci sarebbero stati crolli, perché per fortuna i capelli avevano trovato una larga via di sfogo sfondando un pezzo di tetto sul retro, attraverso la mansarda: questo aveva evitato il prodursi di grosse crepe strutturali. Riparare i danni, comunque, sarebbe stato senz’altro oneroso.
Avevano già riempito quatto o cinque camioncini quando raggiunsero la camera ardente. Era il punto in cui i capelli erano più densi e compatti, come gli atomi nel cuore di una supernova. Di Leonardo non c’era traccia: disfecero e sminuzzarono tutta l’imbottitura che riempiva la stanza, ma non trovarono nulla.
“L’avevo detto, io! – fece Pino – Non è la barba a crescere. È la carne che si ritrae”.

Testo Pietro Verzina
Illustrazioni Domenico Gregorio

 

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