Luciano tolse la cenere dalla punta delle scarpe. Vedeva le file di alberi spezzati, la terra del Campo sventrata dal centro, gli arbusti e le siepi annerite dal calore. Appoggiò la schiena indolenzita al muro di pietra e rimase immobile per un momento.
Le nuvole avevano lo stesso colore della cenere e scivolavano verso Saldanha. Anche Saldanha era cenere. Era cenere Campo Mártires da Pátria ed era cenere Intendente, e poi da Almirante Reis fino a Martin Moniz, e con lei tutta Lisbona. L’uomo ripeté senza guardare il gesto delle scarpe abbassandosi di lato.
La città era bruciata durante il terremoto e di tutto era rimasto quasi niente. Lui era rimasto. Anche altri erano rimasti, ma lì non c’era nessun rumore. La cenere attutiva i colpi e i suoni.

Aveva piovuto per giorni tra le macerie annerite delle case e ora tra le finestre passavano fasci di luce inclinati. Si infilavano dentro le stanze polverose. Luciano le sbirciava da seduto, ma non riusciva a scorgere niente di interessante.
Il cellulare dell’uomo squillò due volte prima che lui si decidesse a rispondere.
“Dove sei?”, disse la voce dall’altra parte del telefono.
“Vicino a casa mia.”
“A fare?”
“Davo un’occhiata in giro.”
“Io sono già qui.”
“Arrivo.”
Luciano guardò l’orologio, stirò le gambe. Si alzò. La cenere si mischiava alla polvere della ghiaia e il vento la smuoveva in vortici. Si incamminò verso l’uscita del Campo. Proseguì sulla carcassa del marciapiede e aggirò la piazza passando accanto alla statua crollata di Castelo Branco. I piedi dello scrittore erano rimasti attaccati al piedistallo e all’altezza della tibia si apriva una spaccatura. Il resto di lui giaceva al suolo, in frantumi. Li superò e fece lo stesso con ciò che rimaneva dell’ambasciata tedesca. Scese verso i Jardim.
Teneva lo sguardo basso mentre percorreva la collina ripida. Sotto i grandi pioppi morti la cenere era ferma in cumuli che si appiattivano con l’aria. Oltre questi, tutta la città era davanti all’uomo, ma evitò di fissarla. Continuò a scendere per le scale bianche fino alla grande terrazza panoramica. Era rimasta intatta perché riparata dalle pendici della collina e niente, lì, sembrava essere successo.
La donna lo stava aspettando. Si salutarono abbracciandosi.
“Sei sicura di voler venire?”, disse Luciano.
“Sì.”
“Potrebbe essere pericoloso.”
La donna aveva le braccia serrate sul ventre. Era magra e bionda e il suo volto era imbrattato di fuliggine su una guancia. Quando il viso si scostava dall’ombra la striatura era chiara e grigiastra e le attraversava tutta la faccia.
“Non importa”, disse.
“Sì che importa.”
“No, non importa niente adesso.”
L’uomo guardava oltre la terrazza. La collina di Alfama si affossava verso Rossio come un pallone sgonfio. La cima era crollata giù fino alla cattedrale. Da lì l’uomo vedeva il fiume lontano e un pezzo di Praça da Figueira illuminato dal sole.
“Non dire così – disse Luciano – stiamo bene. Possiamo ancora stare bene”.
“Non in questa città.”
“Perché no?”
La donna fece un cenno con la mano.
“Andiamo e basta – disse lei – farà buio”.
L’uomo annuì. Le sfiorò la spalla ma poi ritrasse la mano. La donna lo guardò socchiudendo gli occhi, poi volse il viso verso la fontana e oltre la terrazza. Le case erano crollate molli su sé stesse, squarciate a metà dentro la terra e la cenere. Non c’era nessun rumore.
“Andiamo, ti prego”, disse lei.

“Ti ricordi com’era prima?”, chiese più tardi lei.
I due camminavano svelti lungo l’Avenida, scendendo il fianco destro dell’arteria. Le macchine giacevano bruciate nel centro dell’incrocio e le file di pioppi spogli gli facevano ombra.
“Sì”, rispose lui.
“Io a volte non ci riesco più.”
“L’adoravi”, disse Luciano.
“Già.”
“Un giorno sarà di nuovo uguale a prima.”
“E come fai a saperlo?”
“Deve essere così. Per forza.”
“No. E non è solo questo comunque.”
“E cosa allora?”
“Guarda.”
Indicò lo scheletro di un hotel accanto a una banca. Le vetrate sciolte e frantumate erano ovunque sul marciapiede e la cima dell’edificio era crollata al suo interno.
“Anche se ricostruissi ogni cosa – disse lei – non servirebbe a nulla. Sarebbe comunque diverso”.
Mentre parlava, la donna diede inavvertitamente un calcio a una ferraglia per terra. Il rumore riecheggiò per tutta l’Avenida. Si girò di scatto per controllare se qualcuno li avesse notati, ma non vide nulla.
“Va tutto bene – disse Luciano accostandosi al muro – ora dobbiamo muoverci”.

La casa era arrampicata sul Bairro e la salita per arrivarci era ripida e dissestata. Nel mezzo avevano superato l’elevador bruciato e le faglie aperte nel terreno. Avevano proseguito tagliando la collina senza rifiatare, continuando a salire nei grovigli dei vicoli stretti.
I due badavano a non fare rumore e gli parve che nessuno li avesse seguiti. Nel tragitto avevano incontrato solamente un signore anziano che riposava seduto all’ombra di un albero spoglio. Guardava la città bruciata illuminata dal sole.
Poco più tardi, l’uomo e la donna fissavano ciò che era rimasto della casa. Gli azulejos bianchi e blu non riflettevano più la luce e si erano anneriti per il fuoco. Parte della facciata era scomparsa, mangiata dalle fiamme e distrutta dalle scosse, ma l’edificio non era crollato.
Il vento soffiava fresco dal basso della collina. La donna si scostò i capelli dagli occhi.
“Ci eri mai tornato?”, chiese.
“Sì – rispose l’uomo – ma non avevo fatto in tempo a prendere niente”.
La donna annuì e rifugiò il mento sotto la giacca mentre l’aria sbuffava. Nonostante tutto attorno a loro fosse diverso, il vento non era mai cambiato. Era ancora aria fresca dell’oceano che sferzava da Ovest e planava sulla città. Poi tra le fila serrate delle strade diventava un manto grigio di cenere e detriti.
Luciano si guardò intorno con circospezione, poi sguainò un coltello dalla fodera attaccata alla cintura. La donna era un passo dietro di lui.
“Che ci vuoi fare con quello?”
“Niente.”
“A me non sembra niente.”
“È solo per proteggerci.”
“Ma non c’è nessuno.”
“No, infatti.”
La donna lo raggiunse, poggiandogli una mano sulla schiena. Si avvicinavano all’entrata della vecchia casa, con i piedi immersi nella polvere.
“Facciamo in fretta e andiamocene prima che faccia buio”, aggiunse.
“Sì.”
“E poi scendiamo a Restauradores e torniamo nella zona sicura.”
Il portone era spalancato e oltre quello l’ingresso era buio. Proseguirono fin quando l’edificio fu sopra le loro teste.

Dopo aver percorso ciò che era rimasto delle scale in legno i due erano dentro la casa. L’uomo trovò la porta aperta, esattamente come l’aveva lasciata, entrarono senza fare rumore. Avevano deciso di dividersi e lei si era diretta dove una volta c’era la sua stanza. Spostava i cumuli di polvere e cenere, i vecchi oggetti carbonizzati, i libri anneriti e ogni cosa potesse nasconderne un’altra e poi un’altra ancora. Rimescolava e guardava attenta. Tutto era sedimentato e la donna con le mani imbrattate di nero continuava a cercare.
“Trovato?”, chiese l’uomo urlando dall’altra stanza.
“No.”
“Merda.”
“Sono certa che sia qui – disse lei – devo capire dove”.
“Se c’è è a posto – aggiunse – era sigillata”.
L’uomo spostò con il piede un pezzo di tavolo carbonizzato che rotolò a lato. Aveva caldo e faticava a respirare. Con un colpo di manica si pulì la bocca e coprì parte del volto sotto la giacca.
Si guardava attorno, ma non sapeva dove cercare. Niente di ciò che vedeva gli sembrava familiare, anche se una volta lo era stato. Cercò di non farci caso, ma non ci riuscì. Non era rimasto nulla. Solo odore di bruciato. Luciano sentiva come se la morte avesse bussato e qualcuno l’avesse fatta entrare. E ora se ne stava in piedi nel vecchio salotto divorato dal fuoco, con un coltello in mano, alla ricerca di una cosa che molto probabilmente non c’era più. Si sentì esausto, ma sapeva che doveva resistere.
Spostò dei brandelli di una rivista dal tavolino al centro della sala e si guardò ancora attorno. Lasciandosi cadere a peso morto, si sedette sulla vecchia poltrona ricoperta di polvere.
La donna intanto era ancora nella sua vecchia camera e continuava a cercare. La scatola non era nell’armadio, dove avrebbe dovuto essere, e nemmeno accanto alla scrivania dove a volte la lasciavano.
Sentì di avere bisogno d’aria e si avvicinò alla finestra per cercare di aprirla. La persiana era pericolante, ma con uno scatto lento e morbido riuscì a muovere la maniglia senza farla crollare. La scostò di un poco, e poi di un altro poco. La luce fulgida si infilò dentro la stanza illuminando il vecchio materasso e la cassettiera dietro.
Si girò di scatto dirigendosi verso quella, ma la sua gamba urtò un tavolino nero accanto alla scrivania. Riconoscendolo, si piegò per terra di scatto, e da sotto sfilò uno scatolone logoro.
La donna esultò nel semibuio, trattenendo il fiato. Ruppe le alette che lo chiudevano con uno strappo e iniziò a tirare fuori tutto ciò che conteneva: vecchi maglioni, barattoli sottolio, libri marciti dall’umidità. Sfilava ogni cosa da dentro e la lanciava per terra alla rinfusa. Tastando alla cieca, sentì poi un rumore metallico famigliare rimbombare dallo scatolone. Si bloccò d’istinto. Poi infilò il braccio più in profondità, e da dentro sfilò un piccolo contenitore metallico.
Lo riconobbe subito nonostante la polvere e tirò il fiato. Lo passò sotto la luce che calava giù dalla finestra e lo lasciò scintillare per qualche secondo. Era una scatola rossa e bianca ricoperta di polvere, con delle vecchie illustrazioni sgualcite disegnate sulla parte superiore. La scosse nel vuoto, vicino all’orecchio, e udì il rumore che voleva sentire.
Teneva la scatola salda tra le dita. Con un sorriso che le attraversava la faccia si rimise in piedi e si incamminò verso la sala.

Luciano era in piedi girato verso la porta. La poca luce che illuminava la stanza entrava dalle fessure delle finestre sbarrate e tutto era opaco. Teneva il coltello saldo tra le mani rivolto verso l’intruso. Era immobile vicino all’ingresso e nascondeva il volto sudicio sotto il cappuccio della giacca.
La donna entrò nella sala a passo svelto con la scatola in mano. Gridò spaventata, irrigidendosi di colpo, e i due si girarono verso di lei. Luciano approfittò del momento e si lanciò addosso all’intruso, che capitolò per terra. Ora vedeva il suo volto da vicino, e la sua faccia non era niente più che una faccia comune ricoperta di polvere. I due lottarono per qualche secondo e nello scontro il coltello scivolò dalle mani dell’uomo.
“Luciano!”, urlò la donna.
Luciano colpì al volto l’intruso, che incassò bene e con un movimento di anca riuscì a liberarsi dalla presa dell’altro scivolando a lato. Con un gancio percosse Luciano a sua volta e poi, spalle a terra, si sporse con il braccio sinistro verso il coltello che era caduto non lontano dai due. La donna se ne accorse e con uno scatto raggiunse l’arma e la calciò più forte che riuscì verso il centro della sala.
I due erano immersi nella polvere e tentavano di immobilizzarsi a vicenda. Luciano sentiva l’orecchio dove era stato colpito fischiare e pulsare per il sangue e oltre quello più niente. Sapeva che doveva colpire a sua volta, ma non riusciva a dare forza ai movimenti. L’intruso scalciava impazzito, poi con uno scatto si scostarono l’uno dall’altro e si alzarono in piedi.
“Lascialo!”, gridò disperata la donna.
Luciano ora era in piedi davanti all’intruso, l’orecchio continuava a fischiare. Sentiva il sangue caldo scendere lento verso la guancia. Si mise in posizione e decise che avrebbe aspettato. L’intruso gli si scagliò di nuovo addosso e Luciano alzò la guardia con le ultime forze che aveva e colpì forte e pulito dove l’altro si era scoperto. L’intruso si accasciò in avanti e Luciano picchiò ancora con inerzia. Barcollando, l’uomo incappucciato cadde all’indietro sbattendo sui resti del tavolo collassando per terra.
La donna corse verso Luciano e lo scosse. L’uomo sentiva la voce di lei ovattata nella stanza. Aveva caldo ed era madido di sudore.
“Dobbiamo andarcene!”, disse la donna.
Luciano la guardava, senza dire niente. Poi diede un’occhiata alle sue mani e a ciò che rimaneva della casa.
“Forza! – scosse l’uomo, e questo si accorse di ciò che l’altra teneva tra le mani – Muoviti. Andiamo!”.

Erano usciti dalle rovine del palazzo e avevano continuato a correre mentre la luce baluginava dietro i tetti del Bairro. Scesero rapidi dalla collina senza voltarsi. Correvano uno accanto all’altro senza rifiatare nei polmoni l’odore stantio della muffa del legno e della polvere di cemento. Raggiunsero Rossio e poi continuarono per Restauradores. Tagliarono dietro l’Avenida e salirono di nuovo verso Estefânia nella zona sicura.
Arrivati, si stesero per terra sotto i vecchi alberi dei Jardim do Torel. La donna era esausta. Fece rotolare la scatola accanto a lei. Luciano la guardò contento, ma non si mosse. C’era ancora luce e la città devastata era spianata davanti a loro.
“L’hai trovata”, disse l’uomo con un filo di voce.
“Sì.”
“E dentro c’è tutto?”
La donna raccolse il fiato prima di rispondere.
“Non l’ho ancora aperta, ma credo di sì. C’era solo quello dentro. C’è sempre stato solo quello.”
“E ora che hai ciò che ti serve te ne andrai?”
La donna si fece seria e annuì. Il vento intanto batteva oltre il fianco della collina. Luciano sentì un brivido di freddo.
Avvertì il bisogno di alzarsi, ma non ci riuscì. Aveva la nausea. Decise quindi di rimanersene sdraiato, la schiena contro gli ispidi fili d’erba bruciata. Pizzicavano. Guardava la luce muoversi scintillante tra i rami secchi degli alberi. Quello che ne rimaneva, almeno. Si tastò la parte del costato dove avvertiva ancora dolore e sentì il sangue caldo appiccicargli le dita.
“Cosa farai ora?”, chiese lei.
Luciano non rispose. Sentiva la luce bollente battergli sulle guance e sulla fronte. Si mischiava al tepore che gli inondava il costato e la schiena, e gli parve come di svuotarsi. Era un fiume. Chiuse gli occhi per stare al gioco e improvvisamente non sentì più assolutamente nulla. Sparita ogni cosa, rumore nei rumori. Eppure poteva vedere la luce tra le foglie degli alberi ancora vivi.

Testo Gianluca Ferrittu
Illustrazioni Ileana Elle

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