Il mio nome è Anna Giurickovic Dato, ma mi chiamano TZ241. Sono nata in una città che oggi è completamente sommersa dall’acqua, nell’estate del 2953. Ho trentun anni, mia madre non l’ho mai conosciuta, mio padre è stato ucciso da ignoti. Vivo a Roma, se questa la chiamate vita, ma domani inizierà il mio viaggio verso un luogo migliore. Alcuni sostengono che non esista nessun posto migliore, che la terra, tutta, sia arida, infeconda, consunta, inquinata, corrotta e dilaniata da guerre; che sarebbe meglio starsene qui, nascosti in un lager, a dormire in letti pieni di insetti, a bere acqua sporca, lavorare come schiavi, accettare in silenzio le botte, lasciarsi persino stuprare – se il padrone ne ha voglia – accontentarne gli appetiti incontenibili, accoglierne le lusinghe come un regalo, approvarne gli insulti, sorridergli; applaudire con garbo gli uomini armati mentre, ubriachi e drogati, sparano a vista sui nostri amici innocenti, giocando con loro come si gioca con bersagli mobili e infine, quando i nostri cadono a terra colpiti, gioire, gioire per davvero, perché chi ci odia, per l’ennesima volta, ci ha risparmiato la vita.
Molti giurano che morirò in mare, che non è pensabile attraversarlo senza essere scaraventati in acqua dalle forti correnti, che le barche che ci promettono la salvezza sono esse stesse portatrici di morte, che nessuno, mai, è arrivato vivo sull’altra sponda, che un’altra costa, forse, neanche esiste e che l’ultima porzione di mondo rimasta, l’unica che ancora affiora dalle acque al punto da potersi chiamare terra, è la nostra e fa schifo. A questi rispondo che, almeno, in mare si muore una volta sola.
Sono morta a Roma, già migliaia di volte.
TZ è il nome della mia casta, la penultima; si dice l’abbiano chiamata così perché ricorda il verso di alcuni insetti: non soltanto perché è di insetti che ci nutriamo, ma soprattutto perché è così che Loro ci vedono. Ci guardano come insetti, ci trattano come insetti, ci schiacciano come insetti e nessuno ci piange, come nessuno piange per la mosca che rimane impigliata nella trappola che le ha teso l’uomo e si dimena, cercando invano di staccare le ali dalla griglia elettrica che, in pochi secondi, la friggerà. Mi sono sempre chiesta se gli insetti sappiano piangere, almeno, l’uno per l’altro; noi sappiamo farlo, con parsimonia, quando la paura non ci raggela, quando un vigliacco istinto di sopravvivenza non ci sottrae la pietà e con essa la dignità, quando ci è concesso il tempo di retrocedere nel nostro esiguo spazio interiore, di rintanarci nel cantuccio di dolore che conserviamo ben saldo, per ribadire a noi stessi che abbiamo ancora il diritto di chiamarci umani.
La società che abito, ma alla quale non partecipo, si è costruita sull’assenza, anziché sulla presenza, sul criterio dell’individuo, anziché su quello collettivo, sulla frode, anziché sulla spartizione, sull’abuso, anziché sulla carità. Il principio che la guida è la penuria di risorse: l’acqua ci manca – quella che abbiamo è salata e radioattiva -; la terra ci manca – il nostro paese è, ormai, soltanto una costa sottile che il mare sovrasta -; lo spazio ci manca – siamo costretti a vivere in milioni su una piccola cresta, per questo ci calpestiamo, ci odiamo, ci defraudiamo di ogni bene, posseduto o immaginato, e per questo è un reato mettere al mondo figli.
Siamo quello che ci è concesso mangiare: larve, mosche, ragni e termiti. Tra tutti, noi, non siamo i più sfortunati; c’è chi ci è inferiore e di questo, talvolta, siamo persino capaci di rallegrarci. L’ultima casta, infatti, è quella degli ignobili: coloro che hanno osato farsi vettori di idee e ideali, coloro che hanno anche solo pensato di disobbedire, coloro che hanno avuto l’audacia di custodire un punto di vista o che hanno provato a difenderlo, coloro che non posseggono più nulla perché hanno dovuto pagare i propri debiti, materiali e morali, con lo Stato, e sono considerati meno della spazzatura. Come la spazzatura si ammassano sui marciapiedi e ai lati delle strade, dormono seduti o sdraiati l’uno sull’altro, su giacigli di plastica: quella che buttiamo in mare e che il mare ci restituisce perché ne è stracolmo. Gli ignobili non vengono considerati nemmeno come forza lavoro; il nostro territorio è così ridotto, la nostra presenza così dirompente, le nostre risorse così scarse, le nostre carceri così piene, che più utili degli schiavi sono diventati i morti.
Il nostro Presidente, il nostro Re, il padrone dei padroni, il capo assoluto e soluto da ogni legge, il capitano di un Parlamento in avaria, il comandante di un governo dei pochi, ha saputo abilmente gestire i miseri mezzi rimasti applicando la selezione, anziché la distribuzione. Esiste, così, una categoria di transumani che pratica, ogni giorno, l’ingiustizia: sono coloro che svettano sulla gerarchia sociale, cui sono riservati più diritti che doveri, coloro cui è concesso abitare, mangiare, dormire, riprodursi, amare, lavorare, celebrare, ritualizzare i momenti chiave della loro vita, progettare, sbagliare, correggersi, curarsi o anche solo avere un nome. Noi, i transumani, non li incontriamo mai; si dice siano le donne e gli uomini più belli della terra e che non gli sia concesso di essere altrimenti; si narra vivano molto a lungo senza che, però, abbiano il tempo di invecchiare, che tendano all’immortalità materiale e spirituale e abbiano abbattuto ogni frontiera tra le macchine e l’essere umano. Nel gergo, quando ci è permesso parlare (loro sono gli esseri che parlano, non gli esseri che vengono parlati) li chiamiamo i “pionieri dell’umanità”; sono coloro che si sono imposti di varcare i limiti congeniti della natura, coloro che predicano il potenziamento dell’uomo non solo come un’opportunità, ma soprattutto come un obbligo; sono al contempo vivi e statici, la migliore versione del migliore tra loro, i sempre felici, i trascendenti, coloro che hanno scollegato il concetto di salute dal concetto di malattia, che vivono sconnessi dal mondo e in continua connessione con la rete, coloro che hanno dimenticato ogni giustizia sociale, che hanno confuso il normale con il patologico e oggi, rinnegandolo, rinnegano anzitutto l’identità umana.
Noi, intanto, moriamo di cancro, di scorbuto, di infezioni respiratorie, di epidemie, di disordini sociali, di genocidi, di influenza, di raffreddore e non sopravviviamo, quasi mai, oltre i quarant’anni: per chi resta, la consapevolezza di questa scadenza diventa, a volte, una consolazione.
Abbiamo smesso da tempo di seppellire i nostri morti: troppi cadaveri e poco spazio, troppi corpi e poca terra. Li abbandoniamo nell’acqua, con un gesto che più si ripete più ci rende imperturbabili; il mare, a seconda delle correnti, ce li riporta ed è un via vai di morti lasciati andare e di morti che ritornano, di colpe affidate all’abisso e di abissi che non accettano deleghe di responsabilità.

2984

Il mediatore promette che la terra dove spero di approdare esiste davvero e che è, realmente, un luogo migliore. Gli ho spiegato che io non bramo il paradiso e nemmeno so se lo merito. Quel che cerco è un Paese che accolga la mia speranza, che sancisca il mio diritto di autodeterminazione, che mi riconosca nella mia unicità, che mi rispetti nella mia differenza, che mi attribuisca, oltre a dei doveri, anche delle libertà e che le ritenga fondamentali; un Paese che abbia la vocazione di affratellare i popoli, tutti i popoli; un Paese che non sia regolato dalla forza, dalla violenza, dalla guerra, dalla sopraffazione, dalla paura né dall’inganno, ma dalla ragione, dalla misericordia, dalla giustizia e dalla trattativa; un Paese che costruisca ogni giorno la pace, non solo con la politica, la diplomazia e la contrattazione, ma soprattutto con lo spirito e le idee. Questo luogo esiste e si chiama Africa: me lo assicura lo scafista, al quale ho affidato i pochi soldi che ho saputo racimolare in una vita di elemosina e piccoli furti; me lo assicura il mio cuore che mai avrebbe il coraggio di mentirmi.
La notte in cui ho consegnato al mediatore la mia miseria, che era anche tutta la mia ricchezza, lui mi ha raccontato che, lì, dove mi porterà, vivono, brucano, pascolano un’infinità di animali. Non solo di insetti o di piccioni onnivori e malati sono ricche le foreste, la savana e le steppe: lì, nel cuore verde dell’Africa, dimorano meravigliosi uccelli rossi, che pesano più di duecento chili, rettili dalle dimensioni impressionanti, elefanti, cavalli, leoni, ghepardi, cammelli, i moa, i lemuri giganti, gli ultimi esemplari di dodo, il rinoceronte lanoso, e grosse oche capaci di sfamare intere famiglie; lì, il mare offre pesci e molluschi in abbondanza, nei laghi nuotano miriadi di anguille e gli alberi danno i propri frutti maturi. Mentre qui da noi, in Europa, l’arrivo dell’uomo ha dato il via all’estinzione di ogni altra specie, la megafauna africana non soltanto non è stata distrutta, ma si è incredibilmente rafforzata. Io no, ma il mediatore ha studiato su molti libri (Dio, quanto darei per poterne leggere qualcuno anch’io!): se le nostre terre sono oggi sommerse, a causa dello scioglimento dei ghiacci nel mare, l’Africa è il luogo dove si trova la maggiore diversità genetica e varietà di popoli; e diversità – dice il mediatore – significa anche un maggior numero di progressi e di invenzioni. Così, mentre noi non riusciamo a produrre eccedenze alimentari e, per questo, non abbiamo saputo mantenere la nostra struttura sociale di partenza (le persone, una volta, in Europa facevano i mestieri più vari, non erano costantemente impegnate nella produzione del cibo), gli africani hanno potuto costruire un’organizzazione sociale sempre più complessa: grazie all’assortimento di risorse naturali e alla sovrapproduzione alimentare esistono lì persone slegate dal ciclo produttivo, che hanno sviluppato capacità artistiche e tecnologiche per noi impensabili. Per esempio, le tecnologie che gli permettono di preservare e moltiplicare le fonti d’acqua dolce, di depurare l’aria, di fabbricare materiali che siano capaci di auto-trasformarsi in modo da non diventare mai un rifiuto.
Perché – domando al mediatore – non le abbiamo fatte noi europei queste invenzioni? Perché la ricchezza si è distribuita in questo modo e non in un altro? In quegli stessi libri ha letto che le differenze tra noi e loro potrebbero essere tutte ricondotte a un problema di linguaggio: secoli fa, un utilizzo spropositato della rete e dei social network, avvenuto solo in alcune zone del mondo, ha trasformato il linguaggio, ha portato alla disintermediazione, alla riduzione del senso, alla semplificazione del ragionamento, alla digitalizzazione della mente di una parte dell’umanità, alla formattazione del nostro pensiero, sino a renderci totalmente incapaci di creare. L’ho pregato di raccontarmi ancora, ho chiuso gli occhi per immaginare quel luogo, così accogliente, che sta per diventare la mia nuova patria. Lì – ha continuato – non sono capaci di fare la guerra e non conoscono armi, perché non ne hanno bisogno. Le coste sono regolari e gentili, e son lambite da un mare quieto; non esistono onde anomale e assassine, perché il fondale marino non si è mai innalzato e non vi sono faglie né fratture in quel tratto di costa oceanica.
Timidamente ho chiesto al mediatore: il nostro mare, in fondo, non è lo stesso mare vostro? Perché, allora, si comporta nei nostri confronti in maniera così crudele?
Ha risposto che il mare non lo si può interrogare, ma soltanto contemplare; che un tempo proprio questo mare, che è di tutti noi madre e padre, fu inclemente con il loro popolo al punto che lo chiamarono “inferno”, al punto che il mondo gli parve una cruda talassocrazia e per centinaia di anni pensarono alla morte come all’unica organizzatrice della vita. Ci ha tenuto a precisare che noi uomini siamo esseri di terra ed è questo quello che, davvero, più di tutto il resto, ci accomuna; che soltanto la terra è fatta per ospitarci e per questo, noi, dobbiamo averne cura; se il nostro paese d’origine ci sevizia e ci rifiuta il mare potrà essere il nostro ponte o la nostra tomba, mai la nostra casa. Notando che ero confusa di fronte alle sue vaporose parole, mi ha guardato intensamente e ha aggiunto: bastano pochi uomini per portare il peso delle colpe dell’intero genere umano, questa distribuzione non risponde a nessuna ragione e a nessuna equità, né v’è alcuna giustizia nel mare. La giustizia è solo umana e va costruita sulla terra. In quel momento mi è sembrato provasse, per me, della compassione e d’un tratto mi sono sentita compresa; mai mi era capitato prima, mai nessuno aveva mostrato di avere a cuore i miei desideri e la mia sorte. Così ho estratto dalla tasca tutto ciò che mi era rimasto, la mia piccola promessa, l’unica fonte di sostentamento, l’unica cosa in grado di tenermi legata alla vita, a quella vita, l’ho stretta per l’ultima volta e gliel’ho consegnata: il mediatore è andato via con la mia busta senza mai voltarsi indietro, come mai si volta – ho pensato – chi ha la coscienza pulita e sa di aver detto soltanto la verità. Ho sostituito il denaro con queste parole che son pronta a riporre, adesso, nella mia tasca vuota: siano da monito a me stessa per quando perderò il coraggio e dimenticherò la forza da cui scaturiscono le mie azioni, quel che mi guida non è la paura, ma la speranza.

Domenica 4 ottobre 2984

Questa lettera è stata ritrovata nello scafo di una barca senza superstiti; se chi l’ha scritta avesse avuto diritto a un epitaffio, vi avremmo inciso: “In mare si muore una volta sola”.

Testo Anna Giurickovic Dato
Illustrazione Gabriele Grassi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *