Il sogno di New York funziona così: sono a New York, e non so come ci sono arrivata. Devo aver preso un aereo – anzi – sono sicura di aver preso un aereo, ma non ricordo niente. Un attimo prima ero a casa, tranquilla, e adesso sono a New York. Che di per sé non sarebbe neanche un problema, se non fosse che devo anche tornare indietro, prima o poi, e questo vuol dire prendere un altro aereo, e io non lo voglio fare. Come mi è venuto in mente di arrivare fino a qua, mi chiedo, se poi non sono capace di tornare indietro. Che gran cazzata che ho fatto, dovevo pensarci prima. Sono stata poco attenta, ero sovrappensiero, guardavo le nuvole, e adesso sono a New York e non so come andarmene.
Cerco allora di ricordare i dettagli del viaggio: il colore dei sedili, chi era seduto accanto a me, cosa ho ordinato dal carrello del pranzo, quale film passavano. Non mi viene in mente nulla. Non mi viene in mente neanche cosa ci sono venuta a fare, a New York, come sono arrivata in questa casa. Perché il sogno comincia sempre dentro una casa, una diversa ogni volta. In comune hanno tutte una conformazione inutilmente complicata, corridoi lunghissimi, stanze cieche, passaggi nascosti, e finestre enormi coperte per tre quarti da qualcosa – tende, oggetti ingombranti, cumuli di vestiti – così che fuori non si vede niente, solo qualche dettaglio vago, uno scorcio neanche troppo suggestivo, un parco, dei ragazzi che giocano a basket, edifici alti con le finestre illuminate. Quasi sempre ci sono delle persone, in casa, di quelle comparse che si incontrano nei sogni e che sembrano familiari anche se i loro lineamenti non corrispondono a nessuno di riconoscibile. Sono allegri e gentili, parlano italiano, mi invitano a lasciare la valigia da qualche parte come se sapessero, almeno loro, perché sono lì.
E potrei chiederglielo ma non lo faccio mai, perché il mio unico pensiero è il ritorno: devo tornare indietro, ma non voglio prendere  l’aereo. A quel punto mi sveglio, di solito.

A New York in realtà ci sono stata solo una volta, nel 2005, con i miei genitori, e solo dentro l’aeroporto, aspettando di prendere una coincidenza per Los Angeles o per San Francisco. Della città non ho visto niente, ricordo solo che ci avevano tenuti in fila molto tempo per fotografarci di fronte e di profilo, e forse addirittura per prenderci le impronte digitali. Poi avevamo rischiato di dimenticare lì i bagagli, che dovevano invece essere recuperati e imbarcati di nuovo per il volo successivo.
E una guardia aveva fermato mio padre al check-in per chiedergli se avesse con sé un accendino – d’you have a lighter sir? – lui non aveva capito e io sì, vuole sapere se hai un accendino, gli avevo detto, e mi ero sentita utile, come se per una volta quello che sapevo io valesse un po’ di più di quello che sapevano gli altri. Per anni, poi, fino alla fine del liceo, avrei annunciato varie volte davanti alla mia famiglia riunita, con un tono tra il solenne e il risentito, che da grande me ne se sarei scappata in America e non sarei tornata mai più.

Mi sono fermata, invece, molto prima dell’America. A 1200 chilometri da casa, in un posto che, prima di metterci piede, non sapevo nemmeno esistesse. Ci sono arrivata per caso, per un misto di mancanza di alternative preferibili e dell’incoscienza stupida per cui si fanno le cose a venticinque anni, e ci sono rimasta abbastanza a lungo da permettergli di cambiarmi. È una dote che mi è sempre mancata, l’accortezza di fare le valigie e mollare tutto appena prima di lasciarmi trasformare in una persona diversa. Non saprei dire com’è successo; non è stato difficile, tutto sommato, far passare i mesi in questa città composta, pulita, con tutti i parchi e i canali e i caffè al posto giusto, né ostile né accogliente.
Un luogo come un altro in cui costruirsi una vita accettabile, prendere tempo, accumulare qualche aneddoto divertente da raccontare agli amici quando si torna a trovarli. Un luogo che mi osserva da una distanza cortese, come a dire fai pure quello che vuoi, a me non interessa, basta che lasci tutto come l’hai trovato. D’inverno la luce scende alle cinque, cinque e mezza, e le finestre senza tende illuminate dalla luce gialla e arancione delle lampade a basso consumo fanno assomigliare tutto a un quadro di Magritte.

Il mio appartamento è l’unico del condominio che sa sempre, sempre, di cibo appena cucinato. Aglio, cipolla, spezie, un odore dolciastro che si inizia a sentire già dal pianerottolo e che mi fa incazzare, mi rende subito riconoscibile. Un po’ come quando, a casa, mi ero trasferita in un appartamento in cui aveva vissuto una famiglia di indiani e, come nel peggiore dei cliché, l’odore del curry era rimasto attaccato ai mobili per mesi. Allora accendo le candele profumate, che però non servono a niente; qualche volta ho provato con l’incenso ma ho paura che il fumo faccia scattare l’allarme antincendio, e finisce sempre che butto lo stecco sotto il getto del lavandino.
Torno a casa due o tre volte all’anno, durante le vacanze, e puntualmente c’è qualcosa che si rompe – la lavatrice, la macchina, la borsa dell’acqua calda che riversa il suo contenuto sul materasso una notte di dicembre all’improvviso – come a dimostrarmi che la precarietà vera non è questione di chilometri o di aerei o di borse di studio. È una questione di abitudini, e di case.
Nel terzo cassetto in basso della cucina tengo un metro a nastro con cui prendo le misure della libreria immaginaria che vorrei comprare quando tornerò, quando avrò abbastanza soldi e un lavoro vero; misuro l’altezza dello schienale del divano, immaginario anche lui, con cui rimpiazzerò quello vecchio di pelle scrostata; misuro la percentuale della cucina che dovrei demolire per farci entrare una lavastoviglie. Prendo le misure di tutti gli angoli, delle pareti, degli spigoli, e mentre riempio le valigie penso alla cena che organizzerò quando finalmente la nuova cucina sarà montata, e dopo non ci sarà neanche bisogno di lavare i piatti a mano.
Il sogno di New York è l’unico in cui non mi accorgo mai di essere in un sogno. Questa volta è vero, penso sempre, cazzo, questa volta è vero, devo tornare indietro, come faccio a tornare indietro, e dopo invece mi sveglio. Tutte le volte.
A dicembre la città diventa una specie di enorme mercatino natalizio. Ci sono bancarelle dappertutto, renne impagliate, improbabili presepi postmoderni e un odore costante di dolci fritti. È una specie di versione nordeuropea della Festa dell’Unità, non c’è modo di evitarla. Una sera cedo all’ennesimo invito di un gruppo di amici, e usciamo alla ricerca di un chiosco di vin brulè.
Quando lo troviamo è troppo dolce e poco caldo, e un bicchiere piccolo costa due euro e cinquanta. Siamo al secondo giro quando si avvicina un signore sulla sessantina, vestito di nero, chiaramente ubriaco ma in modo non eccessivo, quasi elegante.
Ci ha sentito parlare italiano, si vede, e comincia a camminarci intorno cantando “Va Pensiero”.
La conosce tutta, anche le strofe che vengono dopo i colli ove olezzano tepide e molli, che io non ho mai saputo. Si presenta senza dire il suo nome, ma stringe la mano a tutti, poi recita l’incipit dell’Iliade in greco antico. Non si riesce a fermarlo in nessun modo: da giovane ha studiato teologia qui, poi ha viaggiato per il mondo, conosce quattordici lingue, dice,  racconta cinque o sei barzellette sconce di fila, in un accento inglese un po’ troppo marcato.
La punch line è quasi sempre un gioco di parole – il parossismo delle onomatopee, dice – quindi dopo averle raccontate ci chiede se abbiamo capito, e se non abbiamo capito spiega tutto daccapo. Gli offriamo un bicchiere di vino sperando che si allontani, ma lui lo butta giù in un sorso e ricomincia.
Parla delle streghe che bruciano, dice qualche frase in ebraico biblico, e se si accorge di aver detto qualcosa di particolarmente divertente, fa una piroetta girando su se stesso, accenna qualche passo di danza, e riprende a parlare. Intanto fa freddo, il chiosco del vino sta chiudendo, e due vigili in tuta catarifrangente ci fanno segno di allontanarci.

Quando decidiamo che è veramente arrivato il momento di salutarsi è passata quasi un’ora e mezza. Prima di separarci, però, dice che ci vuole lasciare un pezzo della sua anima. Si fruga nelle tasche del cappotto (e per un attimo abbiamo tutti paura), tira fuori un cellulare vecchio modello, di quelli a conchiglia, armeggia un po’ finché non parte una canzone.
“Amalia Rodrigues – dice – la regina del fado”.
La canzone è in portoghese, si chiama “Barco Negro”, e il ritornello fa: lo so, amore mio, che non sei nemmeno riuscito a partire, e tutto, intorno a me, mi dice che sei sempre rimasto con me.
Se non capite il testo siete stupidi, dice il vecchio. La ascoltiamo tutta, in silenzio, le teste in cerchio intorno al cellulare. Qualche passante si gira a guardare cosa stiamo facendo.
“Quando vi manca fortissimo qualcuno – dice – basta prendere il telefono e ascoltarla. Io l’ho fatto per dodici anni.”

La canzone nel frattempo è finita e ricominciata e lui non riesce a premere stop, si agita per qualche secondo, finché uno di noi non si fa avanti e gli mostra come spegnere la musica. Lui si tranquillizza, rimette il cellulare nella tasca del cappotto, poi si fa accompagnare fino al bancomat dall’altro lato della strada, e lo lasciamo lì. Siamo tutti stanchi, ci sembra di essere usciti da una specie di apnea prolungata, e andiamo a bere le ultime birre della serata in un locale con la musica troppo alta.
“Barco Negro”, scopriamo nelle settimane successive, è anche la marca di un vino rosso da discount, di quelli che si trovano al pakistano sotto casa e che, pure se sa di succo di frutta andato a male, a turno continuiamo a comprare ogni volta che qualcuno organizza una cena.

Per mesi, dopo che eravamo tornati dalla California, quando mia madre mi veniva a prendere a scuola dopo il lavoro per riportarmi a casa, rallentava sempre all’altezza della rotonda di via Sante Vincenzi, dove ancora non c’erano gli studentati futuristici con le finestre che di notte si illuminano di giallo e verde e arancione, ma solo un campo infangato, un vecchio magazzino di arredamento di bassa qualità e le case popolari dietro il passaggio a livello, e sospirava: dai, non sembra un po’ di stare in America? No, mamma. Proprio per niente.
E ripartivamo, in silenzio, verso casa.

Testo: Elisabetta Mongardi
Immagini: Maria Storiales

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