Giovedì scorso è venuto John. Volevo che desse un’occhiata a Katie.
Ho preso due sgabelli e li ho messi in un angolo della stanza, perché al centro si era formata una pozza d’acqua. Le scarpe di John erano due blocchi di fango.
“Katie sarà qui a momenti.”
“Va a scuola anche con questa pioggia?”
“Sì.”
“Non le fa male?”
“Avrà tutto il tempo per stare a casa con me.”
John ha tirato fuori uno yo-yo.
“Per Katie.”
“Grazie.”
“Di lavoro non ce n’è, così mi sono messo a costruire giocattoli.”
Fuori la pioggia picchiava sui mucchi di fango, talmente fitta che non vedevamo nemmeno la baracca di fronte alla mia, da cui proveniva un odore forte di cassava bollita. Katie è comparsa sulla soglia, aveva il fiatone.
Ha guardato John. Gocce d’acqua le colavano dal mento e dalle dita contratte nei palmi. È rimasta lì, indecisa.
“Lui è John, un amico di papà.”
È entrata. Mi sono tolto la maglia, le ho asciugato il viso e i capelli. Katie ha alzato le braccia e le ho sfilato l’uniforme. La camicetta sotto era umida ma calda.
“Per te”, ha detto John, e ha lanciato lo yo-yo.
Katie ha seguito con gli occhi e la testa la rotella che scendeva e saliva, poi ha allungato le mani e John gliel’ha data. Katie ha mugugnato e si è seduta sulle mie gambe. Ha rigirato lo yo- yo tra le mani tenendolo alto sopra la fronte. Le è caduto per terra e si è messa subito a piangere. Ho raccolto lo yo-yo e gliel’ho riconsegnato, sperando che facesse un sorriso, o qualcosa che assomigliasse a un sorriso, ma le è uscito solo un ghigno strano.
“Lancialo”, ha detto John.
Stringendo il filo nel pugno destro, Katie ha abbassato bruscamente l’avambraccio. La rotella è caduta nel vuoto.
“Non così, ti faccio vedere”, John ha allungato le mani verso Katie, ma lei si è stretta lo yo-yo al petto e ha fatto un ringhio.
“Lasciala fare – ho detto – Katie, ringrazia John”, Katie teneva la testa abbassata.

“Si vede molto”, ha detto John.
“Bimba, per favore, alzati un attimo.”
Katie si è sollevata, lentamente.
“Si vede molto – ha ripetuto John – hai parlato con la famiglia del ragazzo?”
“Sarebbe inutile. Nessuno si prende in casa una ragazza così, tantomeno una ragazza così con un neonato.”
“E i vicini? Vi daranno una mano?”
“Nessuno ci rivolge più la parola, per questo ti ho chiamato”, Katie si è messa a percorrere il perimetro della baracca col suo passo sciancato, ogni tanto si fermava e lanciava lo yo-yo come fosse una canna da pesca.
“Come va giù da voi?”, ho chiesto.
“Ieri una donna è morta nei cessi pubblici. Stava facendo le sue cose quando la trave si è rotta, era fradicia. L’hanno trovata poco dopo, nella fossa, soffocata da quello schifo. I figli hanno radunato un po’ di gente e sono andati alla stazione della polizia a protestare. Li hanno bastonati.”
“Voi nuovi arrivati pensate che si possano cambiare le cose.”
“Non ci siamo ancora arresi.”
“Nicolas come sta?”
“Vorrei iscriverlo a scuola.”
Abbiamo sentito il rumore di lamiere che crollavano e voci che discutevano in un dialetto dell’ovest.
“Cosa farai con Katie?”
“Andrò a parlare con la preside.”
John si è alzato, ha salutato Katie con un cenno ed è uscito nella pioggia.

Il giorno dopo, la preside, in piedi dietro la scrivania impolverata, sembrava sollevata di vedermi.
“Signor Njeni, ha fatto bene a venire.”
L’ho lasciata proseguire.
“Come immaginerà, non possiamo più accettare Katie.” Le parole che mi aspettavo.
“Qual è il problema? Che è speciale o che è incinta?”
“La pancia.”
“Almeno quella non durerà per sempre”, ho detto fissando il pavimento sporco di terra. Si sentivano le urla acute dei bambini nel cortile.
“Quindi per Katie questo è l’ultimo giorno di scuola?”
“Mi dispiace.”
Mi sono alzato e sono uscito. Nel cortile, vicino alla cisterna dell’acqua, un’orda di bambini si accalcava attorno a una ragazza coi capelli ricci e urlava: Mzungu, Mzungu!. Ho riconosciuto Hillary, la responsabile del progetto di inserimento. Mi sono fatto strada tra la calca. Molti bambini si sono allontanati, alcuni sono rimasti lì a fissarci.
“Buongiorno signor Njeni.”
“Ho parlato con la preside.”
“Purtroppo non ha voluto sentire ragioni – ha detto Hillary – dice che la scuola ha fatto già molti sforzi per accogliere gli studenti speciali, accettare anche le ragazze incinte sarebbe troppo”.
“È meglio se non vi fate più vedere.”
Hillary è diventata rossa in viso.
“Lei ci accusa…?”
“No. Ma se non foste venuti voi non avrei mandato Katie a scuola, non sarebbe stata violentata sulla strada del ritorno e ora non dovrei tenerla chiusa in casa per nasconderla ai vicini.”
“Capisco la sua rabbia, ma…”
“Crede che un anno e mezzo di scuola abbia cambiato la vita di mia figlia, o la cambierà di più avere un figlio a tredici anni?”
Mi sono vergognato della mia rabbia e ho abbassato la testa. Siamo rimasti fermi così per qualche minuto, la ragazza bianca e l’uomo nero, senza parole.
“Ha sentito del muro?”, ho chiesto.
“Sì.”
“Dove passerà?”
“Vogliono isolare la zona dei nuovi arrivati, perché è lì che spesso ci sono proteste. Così possono controllarli meglio.”
“Ieri ho visto John, dice che vorrebbe mandare Nicolas a scuola.”
“Il muro glielo impedirà, i lavori finiranno la settimana prossima. Il governo vuole tagliarli fuori da tutti i servizi: vuole che questa baraccopoli non esista, che la gente se ne vada, sparisca da qualche parte.”
“Ce ne saremmo già andati da questo schifo se davvero ne avessimo la possibilità.”
All’improvviso Hillary è scoppiata a piangere. Fino a quel momento avevo pensato che le persone bianche fossero tutte felici e ricche e contente. Mi sono ricordato la prima volta che ci siamo incontrati: era così fresca e entusiasta che mi ha conquistato all’istante.
Sono stato uno dei primi a decidere di mandare la propria figlia speciale a scuola. Ho preso Hillary tra le braccia e l’ho stretta a me, mentre intorno i bambini ridevano e correvano via. Quando l’ho lasciata, si è asciugata le lacrime, ha scosso la testa, poi è sparita nell’ufficio della preside.

Ho cercato l’aula con il numero sei: la porta era socchiusa. Katie era in prima fila, la pancia nascosta sotto al banco, lo yo-yo tra le mani. Si è voltata a sinistra e ha fatto cadere lo yo-yo sul banco della sua vicina. Quella lo ha raccolto e lo ha fatto andare su e giù un paio di volte, poi Katie l’ha abbracciata e ha fatto un sorriso bello e largo. La voce dell’insegnante ha avuto un guizzo acuto di rimprovero. Katie ha sciolto l’abbraccio, ha afferrato lo yo-yo e si è ricomposta. Lanciava occhiate d’intesa alla vicina. L’altra rideva e ammiccava di traverso. Dal banco dietro, dove erano sedute tre ragazzine, proveniva un brusio divertito e partecipe. Una di loro ha sbirciato oltre la porta e mi ha visto. Ha allungato una mano, ha toccato la spalla di Katie e mi ha indicato. Mia figlia si è voltata e ha seguito la direzione del dito, ma non mi ha visto. Si è sistemata sulla sedia e ha raccolto una matita che stava sul banco con le dita contratte della mano destra. Ha fatto dei segni su un foglio che aveva davanti, stringendo forte la matita.
Quando ha finito, ha osservato per un po’ i segni sulla carta, poi ha chinato la testa ed è rimasta lì, ferma e serena, come un germoglio. Ho sentito un piccolo dolore all’angolo destro della bocca e ho capito che stavo sorridendo.
Sono uscito dal cortile e sono sceso verso il settore dei nuovi arrivati. Il muro aveva superato la casa di John di un bel pezzo: l’ho costeggiato per una decina di minuti prima di trovare un varco. Tre operai stavano discutendo con dei poliziotti. Non hanno badato a me e ho proseguito lungo il muro, in direzione opposta. Nicolas stava giocando sulla soglia di casa: il braccio sinistro, l’unico che aveva, scavava nel fango. Gli ho passato una mano tra i capelli, mi ha guardato incuriosito.
“Ciao Kenneth!”, ha esclamato.
“Ciao Nicolas, cosa fai?”
“Scavo una buca che passa sotto il muro.”
“Bravo, c’è il papà?”
“È dentro”, John era già fuori dalla porta.
“Prendiamo le vostre cose”, ho detto varcando la soglia. “Ma come…”
“Fidati.”
Abbiamo raccolto quello che c’era in casa. Poca roba: una pentola, un fornello a gas, mezzo pacco di riso, vestiti. Nicolas portava un secchio con dei giochi. Abbiamo attraversato il varco nel muro, poi su per la salita, fino a casa nostra. Katie era lì, con lo yo-yo.
“Katie – ho detto – l’uniforme”.
Katie ha abbassato la fronte e alzato le braccia verso l’alto. Le ho sfilato prima le maniche, poi il collo. Ho stiracchiato l’uniforme e l’ho passata a Nicolas.
“Provala”, Il bambino era perplesso.
Ha guardato suo padre, che ha fatto un cenno di assenso. L’uniforme era troppo grande.
“Vi trasferite qui.”
John guardava Nicolas dentro quel vestito.
“Grazie”, ha detto John.
Siamo entrati in casa e ho raccolto le nostre cose, mentre Katie lanciava lo yo-yo e Nicolas faceva l’imitazione di un pesce che abbocca. Katie rideva. Abbiamo salutato John e Nicolas e ci siamo incamminati verso la nuova casa.
Katie continuava a giocare con lo yo-yo.

 

Testo: Davide Coltri
Immagini: Resli Tale

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