Mi avevano detto che non ci sarebbero stati problemi, potevo prenderne quante volevo, avrei pagato tutto alla fine. La luce, è la luce che dà alla testa in questo posto. La percezione degli spazi è alterata, sembra tutto incredibilmente a portata di mano, non c’è orizzonte, o forse ce ne è troppo.
Chi cresce qui sembra si porti dietro questa onnipotenza da sempre, assenza di limiti, che si risolve esattamente nel suo contrario, si risolve in paralisi, se posso tutto, se tutto mi è assolutamente concesso, che senso c’è, che bisogno c’è, che io faccia qualcosa.
Me lo diceva oggi lui, con quella faccia scura, ma come ha fatto il sole negli anni a modificare così la pelle, pelle che impara a non scottarsi, a imbrunirsi, di generazione in generazione, o forse questo è il colore originale, siamo noi a esserci sbiaditi, lentamente, all’ombra, me lo diceva con la faccia scura e larga, gli occhi di pece, i denti bianchi come in una pubblicità di un dentifricio, ma fra poco probabilmente gli cadranno, sembra avere la mia età, ma sicuramente è molto più giovane, invecchiano presto qui, come cuoio al sole, per l’appunto, e il cuoio è di fatto pelle, mi diceva che potevo fare qualsiasi cosa, tutto quello che volevo, e quando gli ho chiesto cosa, per esempio, mi ha risposto sdraiati e prendi il sole.
Mi sdraio, mi sdraio e prendo il sole e questa carnagione leggermente porcina si brucerà in un attimo, a meno che non mi metta le costosissime creme di protezione che ho comprato in aeroporto. L’aeroporto sembrava quello di una grande città europea o statunitense, pochissime facce autoctone, tutte persone felici di una vacanza. Vacanza costosa, da sfruttare fino all’ultimo, vedere tutto, conoscere, mangiare, parlare, abbronzarsi cosicché qualcuno chieda al ritorno, ma dove sei stato, io no, preferisco che nessuno me lo chieda, vengo qui troppo spesso perché sia felice di dirlo.
Perché mi sono così affezionato a questo posto, avevo anche io la frenesia di girare e conoscere più posti possibili. Sta fermo e guarda il mondo che ti gira attorno, diceva qualcuno, io no, non capivo, mi sembrava che realmente viaggiare, se gli spostamenti asettici degli aeroplani si possono chiamare così, avesse un senso, un fine, un andare e un tornare, e non girotondi su se stessi, a caro prezzo.

La prima che ho scelto mi guarda con grandi occhi scuri, sembra quasi curiosa, deve essere molto giovane. Non voglio spaventarla, non voglio che abbia una cattiva impressione, una cattiva sensazione. So cosa altro fa nella vita, temo, posso immaginare, in fondo sono qui per questo, ma non voglio averne la sicurezza. Non mi va neanche di utilizzare le poche parole che conosco della sua lingua, mi sentirei un deficiente, forse è orgoglio, e poi lei sembra conoscere qualche parola di inglese. Non le migliori, forse. Ignoro le sue domande, cerco di non arrossire, di non giudicare tutti quelli, europei bianchi ricchi e grassi che sono venuti prima di me. In fondo non sono tanto diverso. In fondo non ha senso fare paragoni. Vorrei si levasse i pochi stracci che ha, ma non riesco a chiederglielo, non voglio accelerare, c’è tutto il tempo.

 


Inizio a fotografarle il viso, è stranamente pulita e curata, i capelli raccolti con un nastro colorato. Allungo una mano per scioglierli, dando il via, involontariamente, a un cerimoniale che non voglio sapere come abbia imparato. È bellissima, scrupoli e coerenze interne vacillano facilmente.
Mi concedo una carezza su una spalla, sperando di non scatenare nulla, sento il rischio alle spalle, di lasciarmi andare. No, sembro essere in grado di controllarmi, in fondo fare foto ha una sua carica erotica, catturo immagini e messaggi e desideri. Finti. Vorrei poterla fotografare dopo, a fine giornata, quando torna a casa per consegnare i soldi della giornata.
Le foto stanno venendo bene, ha una sensualità naturale, è a suo agio davanti all’obiettivo. Luce, c’è troppa luce, ubriaca. Un altro sorriso e queste foto saranno inverosimili, da studio con i riflettori. Provo a dire qualcosa, so che non mi capisce, cerco un tono minaccioso, che le levi quell’espressione dalla faccia. Uno sguardo, eccolo, uno sguardo impaurito.
Ha un braccio sempre aderente al corpo, cerco di spostarlo, di vedere cosa c’è sotto. Cicatrice, ampia, senza segno di punti. Un bel taglio deve essere stato. Ora puoi anche sorridere, voglio un tuo sorriso e la cicatrice accanto. Voglio le bruciature di sigaretta della tua amica. Voglio che ti rivesti quanto più in fretta possibile. Voglio che il tuo amichetto venga anche lui, qui, che ti stia vicino. Voglio capire chi sarà il destinatario di queste foto. Cosa farci. Soldi. Denunce. Voglio non farmi vedere dal tizio a cui devo pagare tre ragazzini mentre vomito. Sulle loro cicatrici, e sulla mia erezione.
Testo: Domitilla Di Thiene
Immagine: Massimo Cotugno

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