una nave

Quando sei una ragazzina e sogni il tuo futuro non ci pensi mai. Credi che le cose saranno sempre morbide, gli angoli smussati. La stoffa rossa con i fregi dorati delle poltrone, le tende spesse ma morbide che non fanno passare la luce; l’odore gradevole degli uomini, i colletti puliti delle camicie. Entrare e scoprire che aspettavano solo te; quel profumo, quei colletti puliti, il silenzio: solo per te.
La donna che già ti porti dentro sa che stai dedicando gli anni migliori a quell’ideale irraggiungibile che è il riconoscimento del tuo valore.Ride di te e neanche te ne accorgi.

Lo specchio osserva le tue labbra scolpite dal rossetto cremisi sul marmo del tuo viso. Le venti e nove minuti, immobili dentro un orologio da parete in plastica azzurra. Il presentimento che le cose vadano bene, anche oggi come ieri e come domani e sempre, le cose vanno bene ed è la tua condanna.
L’appartamento in cui ti sei trasferita ha delle macchie scure sul soffitto, negli angoli. Lavatrici, tubi e cessi che perdono acqua in questa città d’acqua. E ti sembra di essere liquida pure tu, che riesci ad adattarti a quei pavimenti che fanno rumore quando cammini e al cielo grigio e ai cinesi, che sono come le macchie di vino, e non li togli.
Le piante dei piedi aderiscono al parquet mentre veloce ti muovi fra le stanze. La spazzola che hai lasciato sul frigo, le mutande sul divano.
Entri nell’abito rosso dalla testa, un parto al contrario. La collana che ti ha regalato Sara prima di partire la nascondi sotto il vestito; l’espressione seria è la tua mascherata da indigena che ti protegge dagli sguardi degli altri.

Michela Salvagno 1

Cammini di fretta come tutti, in questa città che si crede una nave e galleggia sull’acqua senza affondare.
La vetrina del Trequarti è sempre perfetta, mai l’impronta di una mano o qualcosa che interrompa lo scorrere dello sguardo di chi sta fuori sul menù, sui tavoli e sul cibo che viene servito dentro.
Questo a Massimo non lo hai mai detto. Pensi che a parlarne le cose belle si rovinino, che le parole servano a mettere in ordine ciò che un ordine non ha, come i pensieri, e che invece sporchino la perfezione delle cose che sono belle senza sforzo.
“Ciao tesoro”.
“Ciao Massi”.
“Come stai?”
Ti guarda. Apre le braccia come se volesse stringerti ma poi rimane fermo dietro il bancone, come sempre.
Arricci le labbra e porti la testa verso la spalla.
“Bene”, dici.
Eccolo il tuo rifugio per l’inverno, il tuo nido.
“Stai benissimo vestita così”, dice Massi.
Sorridi, ma senza imbarazzo.
Alessia sbuca dalla porta della cucina e ti dà un bacio su una guancia. Porta un piatto con dei crostini a un tavolo in cui sono seduti due ragazzi. Poi torna indietro, ti poggia una mano sul braccio e ti osserva. Sorride, non dice niente.

l cielo si sta colorando con i toni della sera. Ragazzine truccate passano ridendo forte, con i vestiti corti che lasciano scoperte le curve del sedere. I piccioni setacciano la via come spazzini attenti. Bevi un bianco del nord Italia che profuma di fiori.
Massimo prepara il locale all’assalto delle dieci. Svuota la lavastoviglie, appende i bicchieri alla rastrelliera, mentre ti racconta le notizie che ha letto sul giornale.
Tu i giornali non li leggi, non hai il televisore in casa e non vuoi sapere niente delle barbarie del mondo.
Massimo, però, te le racconta con leggerezza; le rende delicate, come se le filtrasse per te affinché non ti possano far male.
È il padre che la vita ti ha consegnato in ritardo, smarrito in qualche magazzino o in fondo a un furgone.
“Quand’è che mi canti La Regina della notte?”
“La prossima volta te la canto. Promesso”, rispondi, come sempre. Lui annuisce e finge di crederti.

Avevi sette anni quando ti sei fermata in via dei Tribunali, hai alzato la testa e sei rimasta immobile, come quando nei film sparano a qualcuno e quello ci mette un po’ ad accorgersi che lo hanno centrato nel petto.
Non l’avevi mai sentita quella cosa, che era un misto fra una preghiera e un grido; come una creatura che, mentre muore, canta.
“Come Pavarotti”, disse tua madre, e pagò un corso di un anno alla scuola di musica.
Lì hai imparato che quella cosa che sembrava sgorgare naturalmente dal corpo era in realtà una questione di equilibri. Hai imparato che accogliere dentro di sé qualcosa di tanto forte rende fragili.
Vieni richiamata sulla terra da uno schianto e una bestemmia di Massi.
“In questi giorni devono stare attenti quando mi vedono”, dice, rivolto alle pile di bicchieri a testa in giù.
Sorridi e pensi a quei periodi in cui rompi sempre i bicchieri, a quelli in cui calpesti le lumache, e chissà cosa vuol farti capire il destino. Forse che dobbiamo stare più attenti, perché siamo circondati da cose tanto delicate.
Anche Massimo è uno che in questa città si è dovuto ritagliare il suo posto e adesso è obbligato a sentirsi a casa. Viene dalla Toscana, viveva in un paese nel Casentino con Alessia. Quando lui aveva trentanove anni e lei trenta hanno perso un figlio, allora sono dovuti scappare in un posto più grande, che facesse più rumore dei loro boschi.
Ti allunghi sulla vetrina e indichi un piatto che contiene due crostini con del pesce. Massi sorride e te li scalda nel fornetto elettrico.
Se ti vedesse il tuo insegnante di canto direbbe: “fai come vuoi, ma non pretendere di cantare come dio comanda”.
Lo diceva sempre quando mangiavi prima di una lezione o di un concerto.
Li mangi in fretta, per avere qualcosa nello stomaco ed evitare di svenire come ti è già capitato perché non senti la fame.
Quando tiri fuori il portafogli Massi ti guarda: “Stai buona”.
“Dai”, provi a replicare.
Lui scuote la testa. “La prossima volta”, dice, come sempre. E tu fingi di credergli.
Alessia si affaccia dalla cucina e ti manda un bacio.

Sono le nove. La luce si è nascosta dietro le case e se ne vedono solo gli ultimi riflessi spalmati sull’acqua scura dei canali.
Martin fuma una sigaretta seduto sulla panca, con la maglia a strisce rosse e bianche. Ti fa un cenno col capo e come sempre hai la sensazione che riesca a scorgerti addosso i quarant’anni che provi a nascondere. Siedi accanto a lui.
“Arrivano tra mezz’ora”, dice, con quell’accento inglese che schiva le doppie consonanti.
Tu annuisci. Ti togli le scarpe da ginnastica e metti i tacchi, mentre lui tira fuori il cellulare dalla tasca e ride guardando lo schermo.
Ti chiedi perché Alessio non sia ancora arrivato, ma non hai voglia di parlare e rimani nel tuo nido di silenzio. Alessio suona la fisarmonica e ti accompagna mentre canti. È la tua orchestra in miniatura. Pensare a lui ti ricorda che sei lì per cantare. Allora respiri, ti concentri, non hai voglia di fare esercizi di riscaldamento. Il canto lirico ai turisti stranieri sembra una cosa tanto esotica che ti puoi permettere di usare le prime due canzoni per scaldare la voce.
“Ale non c’è stasera. Ho portato lo stereo”, dice Martin.
Lasci passare quelle parole e quando sono abbastanza lontane da te riprendi a muoverti, a respirare.
Gli chiedi una sigaretta. Lui ti porge il pacchetto e te la accende.
Senti il fumo caldo scivolarti nel corpo, le lacrime che invece vorrebbero salire ma tu respiri e le spingi giù.
Chiudi gli occhi e sei nel teatro di Torino, quello che sembra un’enorme grotta naturale e dal soffitto pendono lampadari come stalattiti. Quello in cui tua madre ti portò per i quattordici anni. La stoffa rossa delle poltrone, le tende spesse ma morbide e gli applausi che sembrano stormi di colombe che volano via.
Ci vollero nove ore di viaggio. Lei guidò senza mai dire di essere stanca. Dormiste in macchina e ti sembrò un’avventura. La mattina sveglie presto e via di nuovo verso Napoli, ché era domenica e il giorno dopo tua madre rientrava a lavoro.
Martin si alza e sale sulla gondola. Sistema le corde, mette in acqua il remo, e tu resti immobile, lo guardi muoversi e senti il rumore dei suoi passi sul legno.

Schiacci la sigaretta col tacco e quando alzi lo sguardo li vedi. Ormai riconosci il tipo. Si tengono abbracciati per i fianchi e sorridono facendo vedere i denti. Ti chiedi se davvero ci siano persone a cui vivere piaccia così tanto. Martin scende dalla gondola e va incontro alla coppia.
“Welcome to Venice”, dice, e sembra la guida turistica di un viaggio organizzato.
La donna si guarda intorno, come se davvero fosse appena arrivata. Ha i capelli schiariti fino alla più tenue sfumatura di biondo, un trucco che le allunga gli occhi. Porta un abito verde, sobrio ed elegante. L’uomo è grasso e con pochi capelli. Indossa un completo scuro senza giacca. Australiani, forse. Ti alzi in piedi, sorridi e porgi la mano a lei e poi all’uomo
“Caterina”. Lo dici due volte.
La coppia si accomoda sul trono rivestito da stoffa rossa e cuscini. L’uomo si siede per primo, da vero cavaliere. Tu aspetti che siano pronti e sali.

Martin ha acceso lo stereo, che inizia a elencare le note di un piano. Ti fa un cenno con la testa e tu con gli occhi dici: sì, sono pronta. Il remo taglia la superficie dell’acqua e muove la vostra piccola nave.
La terraferma ti lascia scappare; la vita rimane a guardarti dalla riva e come un cane fedele aspetta il tuo ritorno. Il violoncello entra a sostenere il peso di quella melodia. Chiudi gli occhi, respiri.
È sempre la prima, la porta d’ingresso al tuo mondo; il veleno che dissolve la bugia della realtà e ti riporta a casa: Charles Gounod, Ave Maria. E non sapresti spiegarlo a nessuno.
La prima nota è la freccia che viene scagliata e vibra nell’aria.
Le gambe sono il primo obiettivo. Sentirsi stabili. Lo hai imparato in tutte le ore passate a rimanere immobile, a prepararti ai millesimi di secondo che danno il nome a quella disciplina.
Hai iniziato a tirare con l’arco quando la gola ti ha fatto quello scherzo assurdo e poco divertente; quando hai dovuto smettere per un po’ con il canto e avevi un eccesso di energia che dovevi riversare su un altro sforzo di concentrazione.
La giusta posizione del bacino, la fermezza delle braccia; la decisione con cui la mano tiene il filo, il coraggio con cui lo lascia andare. Tutto si dissolve lì. Da lì in poi quello che accade non è più sotto il tuo controllo.
La freccia vibra in aria ed è una cosa strana: come se dopo averla scagliata tornasse indietro, perché il bersaglio sei tu. Sei lo spettacolo e lo spettatore.
E quelle note sono il solo momento, l’unico, in cui potresti ammettere senza nessuna incertezza di essere viva.

Bastano pochi secondi. Non ti accorgi mai del momento preciso in cui accade. Inciampi e in un attimo sei caduta da quel filo che hai teso sopra la realtà.
L’uomo e la donna ti guardano come si guarda un animale bizzarro in un documentario, un pezzo di arredamento eccentrico che nessuno metterebbe mai in casa propria. Poi guardano la città, con le sue luci fioche, il rumore dell’acqua che urta il fondo della gondola e le persiane chiuse. Ti guardano e non si accorgono che sei caduta.
Parlano piano, si baciano sulle labbra. L’uomo tira fuori dalla tasca il cellulare, vuole che quel momento viva in eterno, allora lo affida alla memoria temporanea del suo telefono. Ti punta addosso la luce di un flash che quasi ti fa perdere l’equilibrio.
Le casse dello stereo sputano fuori un suono graffiante, troppo piccolo per resistere al peso della tua voce, troppo arido per assorbirne il nutrimento. Martin guarda di fronte a sé. Non si accorge che sei caduta.Ti guardano e ridono. La tua voce è il richiamo stravagante di un vecchio uccello esotico.
Quella luce ti fa lacrimare gli occhi. C’è una bambina, dentro di te, che sta piangendo.

C’è la festa di compleanno di qualcuno, e uomini ubriachi e ragazzine che squittiscono, musica techno, passi che rimbombano nei vicoli e ogni cosa copre l’orchestrina che esce storta da quello stereo e la tua voce sempre meno intensa, sempre più instabile, come una collina di arenaria, come un vecchio ponte che nessuno attraversa più. La musica si interrompe. La coppia non applaude.
Dopo pochi secondi di silenzio, l’aria di un arrangiamento per pianoforte de La Regina della notte ti raggiunge e ci provi di nuovo. Respiri.
Attraversate un ponte che proietta la sua ombra su di te, inghiotte la nave e poi la lascia andare.
Una scalinata in pietra si arrampica paziente dal fondo del canale per riemergere sulla riva, come rovine di un vecchio palazzo sommerso. Dietro, una piazza vuota, illuminata da pochi lampioni.

Seduti lì, sull’ultimo scalino, una coppia di ragazzi sta mangiando una pizza da una scatola di cartone. Bevono una birra in bottiglia e stanno vicini. Sono giovani, avranno sì e no venticinque anni. E sono immobili.
Hanno lasciato a metà i loro gesti, interrotto le risate, la loro fame, il loro amore, per un attimo. Hanno sentito la tua voce e si sono fermati.
Adesso ti seguono con gli occhi per il breve tratto in cui potranno vederti prima che la gondola passi sotto un altro ponte e si perda nelle vie d’acqua della città.
Allora li guardi. Li guardi e dedichi loro quella canzone. Li guardi e vuoi che lo capiscano, vuoi che quel momento sia tutto per loro, come se un sogno lungo solo un attimo li avesse condotti in quel grande teatro che sembra una grotta naturale. La stoffa rossa con i fregi dorati delle poltrone, le tende spesse ma morbide che non fanno passare la luce; l’odore gradevole degli uomini, i colletti puliti delle camicie.
Li guardi e scopri che aspettavano solo te. Quel silenzio: solo per te.

Testo Pietro Santini
Illustrazioni Michela Salvagn

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *