Una volta Ivan mi disse, con un certo dispetto, che i morti sono tutti uguali e che facevo meglio a rendermene conto il prima possibile. Per dirmelo mi aveva convocato nel garage, dove passava un sacco di tempo a potenziare marmitte e occuparsi di carburatori con i suoi amici. Gli chiesi cosa intendesse dire.

“Non ti aspettare che Leo continui a proteggerti da lassù, nessuno gli ha conferito poteri speciali. Probabilmente neanche esiste un lassù. È ora che cominci a cavartela da solo.”
Questo avvenne precisamente un anno dopo la morte di Leo, il fratello maggiore di noi tre. Ivan era entrato nella fase in cui si prefiggeva l’obbiettivo di impartirmi dure lezioni formative e tenermi alla larga dai suoi giri. Aveva quattro anni più di me ed era stato il fratello di mezzo fino alla morte di Leo.
Feci spallucce e me ne andai. Col cazzo caro Ivan, pensavo, io non lo so dove sta Leo o se è uguale agli altri, ma io voglio continuare a pensare che lui mi protegga.
In quel periodo mi ero legato a un vicino di casa di nome Nicolas. Un mezzo skater con i capelli lunghi e i genitori molto anziani. In realtà non ce lo avevo mai visto sullo skate, indossava un sacco di magliette a tema ma sospettavo non avesse mai imparato ad andarci. L’estate aveva svuotato la città fino all’osso, e noi ciondolavamo in giro per il quartiere tutto il giorno. Rientravamo a casa solo quando la luce era quasi scomparsa e i pipistrelli svolazzavano talmente bassi da farti impensierire per via di quelle storie secondo cui si attaccano ai capelli o cose del genere.
“Ti fanno la pipì in testa – aveva asserito Nicolas l’ultima volta che Ivan ci aveva permesso di unirci ai suoi amici in garage – C’è gente che è rimasta pelata”.
Tutti l’avevano presa a ridere, tranne mio fratello che mi aveva fatto cenno di levarci dalle scatole.
I miei genitori non erano anziani come quelli di Nicolas ma erano ancora depressi e confusi per la morte di Leo e non facevano troppo caso a me. Si limitavano a qualche vaga raccomandazione.
A inizio estate Nicolas e io avevamo rimediato per pochi spicci una bicicletta da un suo zio rigattiere.
Era una vecchia Peugeot Helium bianca, di quelle pieghevoli.
“Può ancora dire la sua”, ci aveva assicurato lo zio. In realtà era un catorcio. Ci andavamo sempre in due, alternandoci alla guida.
Una sera mentre costeggiavamo le serrande abbassate dei negozi fummo braccati da un’altra coppia di ragazzini in bicicletta. Venivano in senso contrario e appena ci adocchiarono puntarono dritti verso di noi. Il ragazzino che era in piedi dietro scese al volo, con un balzo suggestivo, mentre l’altro, con una sterzata, mise la bicicletta di traverso, a sbarrarci la strada. Nicolas fu costretto a fermarsi.
“Non si passa”, sentenziò quello alla guida.
Aveva un sorrisetto affilato ed era abbronzato, a differenza di noialtri. L’altro teneva un lecca lecca stretto tra le labbra. Avevano tutta l’aria di provenire dai casermoni popolari più a nord.
“E chi lo dice?”, rispose Nicolas.
“Lo dico io – rispose il ragazzo abbronzato – Dovete tornare indietro”.
“Non credo proprio.”
“Può passare uno soltanto. Lui torna indietro, a piedi – indicò me con il mento, senza levare le mani dal manubrio – Che ne dici, verdepisellone?”, chiese con chiaro riferimento al colore della mia maglietta.
“Dico che ti scureggia il cervello”, risposi.
Nonostante le apparenze non sembrava esserci un vero e proprio astio tra noi. Serpeggiava, invece, una certa eccitazione per quella sfida. Tanto valeva protrarla più a lungo possibile prima di tornare ai nostri infruttuosi giri in bici.
Il ragazzino con il lecca lecca continuava a tacere ma aveva iniziato a svitare il campanello della nostra bicicletta. Mentre lo allentava fissava Nicolas con calibrata indolenza. Adesso la cosa sembrava seria.
Avrebbe continuato fino a far cadere il campanello a terra? Nicolas avrebbe reagito? Con la risposta di prima ero stato in grado di reggere la scena ma se avessero fatto a botte come mi sarei comportato? Sarei intervenuto? Forse sarei semplicemente andato in iperventilazione. Era già successo.
“Facciamo una gara – disse il ragazzo abbronzato – A chi arriva prima al parco. Ce lo avete il coraggio?”.
Il ragazzo del lecca lecca si fermò e andò a sedersi dietro di lui.
“Ce l’abbiamo”, rispose Nicolas.

“Chi perde è una lurida merda”, fece il ragazzo abbronzato mentre cominciava già a pedalare.

Nicolas non mi lasciò neanche il tempo di sistemarmi meglio che prese anche lui a spingere sui pedali.
Dopo pochi metri le biciclette oscillavano scomposte ai lati della strada. Infilammo una serie di incroci senza concedere niente alla segnaletica. Io sobbalzavo selvaggiamente a ogni buca. Incurante dei rischi, Nicolas pensava solo a prodursi nel massimo sforzo per non essere sconfitto.
Alla prima svolta gli altri sbandarono paurosamente sfiorando l’impalcatura di un ponteggio, noi ne approfittammo tuffandoci giù dal marciapiede e immettendoci sulla loro rotta. Ora però li sentivo alle spalle, spaventosi come predatori famelici.
Un primo rossore aveva intriso l’aria. Mi immaginai Leo che faceva da spettatore. Immersi in quella luce sottomarina, dovevamo sembrare una specie di pesci saettanti. Sulla salita finale i nostri avversari ci affiancarono.

Il ragazzo abbronzato allungò una mano in cerca del nostro freno destro. Dietro, il ragazzo con il lecca lecca ciucciava con rabbiosa concentrazione. Eravamo gli uni a ridosso degli altri. Io tentai di allontanarli spingendo con il piede sulla loro ruota ma qualcosa andò storto. Non so dire bene dove si infilò il mio piede fatto sta che, tra i raggi e la forcella, qualcosa prese a scavarmi la caviglia ferocemente. Ritrassi il piede urlando. Nicolas arpionò i freni e dall’asfalto si levò un coro di suole trascinate. Scesi dalla bici e galoppai verso la fontanella, tallonato da Nicolas. Gli insulti dei nostri avversari non tardarono a raggiungerci. Il ragazzino con il lecca lecca, quello che non aveva detto ancora una parola, era sceso della bicicletta e si stava sgolando. L’altro sanciva la vittoria destreggiandosi in una serie di impennate trionfali.

Schiaffai il piede sotto il getto d’acqua. Il sangue usciva di brutto. Così rosso e denso, a vederlo sulla mia caviglia sembrava finto. Quello che mi preoccupava, più che altro, era la reazione dei miei genitori. Si sarebbero turbati e avrebbero deciso di cambiare registro. Quindi era meglio non sapessero niente.
Di lì a poco entrammo furtivi a casa di Nicolas. In bagno mi innaffiò la ferita con dell’alcool e attese che depotenziassi un paio di bestemmie con un asciugamano, poi ripeté l’operazione. Avvolgemmo la caviglia con una benda. Al posto dei miei bermuda, Nicolas mi prestò un paio di pantaloni lunghi dei suoi, da occultamento prove. I genitori non si mossero dalla cucina, da dove proveniva il volume delirante della televisione.
Al rientro a casa, Ivan mi intercettò fuori dal garage. Mi disse che non c’era alcun motivo di avere un cavallo dei pantaloni così basso.
“Torna sulla terra, ciccio”, mi incalzò.
Poi mi lasciò andare.  Dopo qualche giorno avevo una cicatrice lunga almeno mezza spanna.
Era bella a vedersi così in rilievo, gonfia e rosa. La osservavo inorgoglito e immaginavo fosse opera di Leo. Mi figuravo che lui avesse passato invisibilmente il suo dito lungo la ferita, rimarginandola in quel modo artistico. Aveva sistemato le cose per bene, come al solito. Mi aveva visto esplorare sconfitte che erano imprese memorabili. Tra impellenze ed espedienti affiorati nella lenta trama di quei pomeriggi assolati e inaffidabili. Mi aveva visto felice. E ci aveva messo un sigillo. Altro che morti tutti uguali, pensavo.

Testo: Daniele De Serto
Immagine: Bernardo Anichini

One thought to “Una cicatrice ben fatta”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *