Flavia si era comprata un blocco di legno e aveva iniziato a intagliarlo. Per giorni non sono riuscito a capire che cosa ci stesse facendo e lei si rifiutava di dirmelo. Per tutta risposta, si era rintanata nel garage adiacente il nostro nido e aveva chiuso la saracinesca dietro di sé, lasciando solo un breve spiraglio tra la maniglia e il cemento del vialetto. La luce che filtrava dalla rimessa disegnava strani ghirigori sulla parete esterna della camera da letto, come fossero ombre di demoni balinesi.
Mi sono disteso sul viottolo, tutto aderente alla fessura del garage. Benzina, monossido di carbonio stinto, piscio di gatto mi si incollavano alle narici, mi strinavano i peli delle frogie. La mia guancia non rasata sfiorava il capelvenere che invadeva il pozzetto di scolo e il pietrisco sparso mi tatuava lo zigomo sinistro.
Quando i miei occhi si sono abituati alla lama di luce dell’interno, sono riuscito soltanto a vedere i trucioli che cadevano ritmici sul pavimento, silenziosi, avvitandosi su se stessi, in riccioli biondi come i capelli di Flavia. La polvere di legno sbuffava in pulviscolo iridescente. Ho cercato allora di accostarmi il più possibile alla fessura, ma a quel punto, il mio corpo ha bloccato la fuga della luce, ha sigillato l’antro del mio unico amore, del mio amore unico, ne ha coperto del tutto i trucioli.
“Che fai lì, mi spii? Eh, dillo, dillo che mi stai spiando. Non mi puoi lasciare sola un momento tu, eh? Mai un momento, sempre a guardarmi.”
“Ma amore, sono ore che stai là dentro…”
“Senti, perché non mi lasci un po’ in pace? Eh, lasciami in pace, eh?”
Non riuscivo a vederla, intuivo i piedi dietro i mucchi di scorze leggere di legno. Ma io Flavia la sapevo a memoria, le cosce lunghe e macchiate, la fica a bocciolo incorniciata da oro porpora, il ventre magro, ma con un riverbero di pinguedine, le costole sottili, grissini da spezzare, da leccare con cura e da succhiare uno a uno, spolpandoli, suggendone il midollo. I seni erano due idee, con due capezzoli morbidi e rosa, spuntati quasi per caso. Ma la mia preferita era la linea che univa la spalla al collo, quando raccoglieva i suoi riccioli biondi in una coda alta e trionfante. Solo il pensiero della mia lingua a scorrere sulla sottile peluria bionda, della saliva a colmare la pozza della clavicola, delle mie dita a sciogliere la coda, a farmi ricadere le volute barocche dei riccioli sugli occhi, sul naso, sulle labbra, me lo ha fatto diventare duro. Ma l’erezione non ce la faceva a passare dalla fenditura della serranda.
“Flavia, tesoro, non fare così ti prego. Non piangere. Parliamo, ti va?”
“Non voglio parlare con te, tu non vuoi mai parlare con me, tu vuoi scopare e basta.”
Ho cercato di tirare su la saracinesca, non si apriva la rugginosa, l’aveva chiusa a chiave. L’ho sbattuta, rumore di tuono, di rabbia compressa, di desiderio. Inutile. Ma una mano era passata al di là.
“Amore, ti prego, dammi la mano, amore.”
Sono riuscito a infilare l’avambraccio fin quasi al gomito, scorticandomi pelle e nei.
“Amore, ti prego, avvicinati, inginocchiati, fammi accarezzare i tuoi riccioli. Dai, Flavia, che ti piace, lo so che ti piace”.
I capelli biondi di Flavia erano il motivo per cui mi ero innamorato di lei, avrei passato ore a far scivolare le dita lungo le loro circonvoluzioni, a massaggiarle il cuoio capelluto. A lei piaceva moltissimo, mi si rannicchiava sulla spalla e mi lasciava fare fremendo, schiudendo le labbra in piccoli singhiozzi. Flavia faceva oscillare la sua testa prima piano, poi più velocemente, i suoi riccioli si scomponevano, mi schiaffeggiavano la faccia, profumo di perle di mandorla. Io mi avvolgevo un ricciolo attorno al medio e alla fede e strappavo la ciocca. Flavia gridava, piangeva, io allora la baciavo, lei mi mordeva le labbra. Ci rotolavamo graffiandoci finché non venivamo. Quelle erano le volte che riuscivo ad addormentarmi accanto a lei sul pavimento. Di botto, così, senza parlare.
Non parlavamo quasi mai. Ingrassavamo insieme. Ci ritrovavamo la sera, scongelavamo il Findus di turno. Ma eravamo felici, strette le mani da un lato all’altro del tavolo. Io tenevo aperte tutte le porte per non perderci mai di vista.
Qualche volta Flavia arricciava un labbro, storceva un occhio, sbuffava un poco.
“Cosa c’è, amore, qualcosa non va?”
Mi aveva guardato di sbieco: “Niente”.
“Su, amore, lo vedo che.”
“Non c’è niente che non va. È che tu sei sempre tu, stai sempre là, non mi lasci, non mi abbandoni.”
Quella notte non avevo dormito, ero rimasto seduto con la schiena appoggiata alla testiera del letto. I riccioli si spandevano sul cuscino e io li sollevavo e li facevo cadere, studiandone le spirali elicoidali. Il respiro di Flavia non lo sentivo, non era regolare, non sapevo se dormisse o meno, ma la schiena rimaneva voltata, nei e ombre di nei.
Il blocco di legno da scolpire era arrivato dopo due giorni.
“Sono in ferie questa settimana”, mi aveva comunicato dopo che avevamo terminato gli Spinaci Filanti.
“Che bello, amore. Allora le prendo anch’io, così stiamo assieme tutto il tempo.”
“Non credo.”
E si era chiusa in garage. Mi teneva fuori da lei. Ma adesso la mia mano l’avrebbe raggiunta da sotto la saracinesca; non riuscivo a guardare, ma sentivo lo scalpiccio avvicinarsi.
“Flavia, amore, lo so che sei qui. Dammi la tua mano.”
La lama mi ha lacerato la pelle interdigitale. Dapprima non ho sentito dolore, solo freddo e tristezza. Poi ho urlato. Ho urlato. Ho ritratto la mano. Ho urlato.
Quando sono uscito da casa, la mano fasciata, la saracinesca del garage era sigillata, ma dalla finestrella grigliata sul retro la luce trapelava ancora. Ho appoggiato la scala alla parete, incollato gli occhi al vetrocemento.
Il blocco di legno non esisteva quasi più, colonnina smagrita su un trespolo e trucioli, cuscini, trapunte, arazzi interi di trucioli sul pavimento. E Flavia era distesa nuda in mezzo a loro, i riccioli biondi che si avvitavano ai residui del legno, le gambe appena aperte, trucioli e peli della fica a fare da collana alle grandi labbra. Ho raspato sulla finestra con la mano ferita. L’ho chiamata con voce da oblò, da acquario.
Lei ha sollevato appena la testa verso la mia sagoma deformata da pesce pulitore, con la ventosa della bocca a leccare il vetro. Mi ha sorriso. Meravigliosa, come non la vedevo da tempo.
Si è alzata, senza scrollare via i trucioli, ha preso quel rimaneva del blocco, la colonnina di legno, lo stecchino oblungo, tra le dita e l’ha spezzato a metà.
Poi ha poggiato il mio specchio da barba, quello con il braccio estensibile, su una mensola del garage e, con colpi secchi di scalpello, ha fatto cadere sul pavimento trucioli, riccioli, strisce di cotenna fino a che la sua testa non è diventata un perfetto globo rossastro.
Testo Arturo Belluardo
Illustrazioni Gaetano Dimauro