LETTURATORE presenta

 

Mia nonna è rotonda e ha una vestaglia a fiori consumata dal sole e dalla terra dell’orto. Mi prende per il braccio e mi porta giù, nella Casa di Sotto, dove ci sono il forno a legna, il frigo dei gelati e il profumo di latte che si alza dal pelo dei cani appena nati.
“La smetteranno di urlare”, mi dice.
Mi tiene per mano, mi fa scendere le scale e mi porta di sotto. Apriamo il frigo.
“Ecco a nonna, scegli che gelato vuoi”.
Non lo so. Voglio passare altro tempo a scegliere i gusti, non voglio tornare nella Casa di Sopra, non voglio vedere mio padre spaccare sedie sul pavimento.
Il telaio a terra, in due parti nette. La paglia bianca sulle mattonelle di formica. L’ho vista di sfuggita, con la coda dell’occhio, mentre il braccio di mia nonna mi portava via. È tutta colpa della casa, dei tramezzi, della calce invecchiata, dei basamenti, dei muri portanti, delle mani di mio nonno che l’hanno pensata per la prima volta, quando era ancora una baracca.
Avemo faticato tanto però ce la semo goduta”, Dice sempre lui.
Mio nonno è un uomo con la faccia bruna, scura come la notte. Quando mi canta la ninna nanna e arriva la parte dell’uomo nero che lo tiene un anno intero penso che l’uomo nero sia lui e scappo via nella Casa di Sotto a scegliere gelati o a vedere se è nato qualche cane.

Ci sono tanti posti nel mondo dove poter andare ma non per una bambina. E io ho solo sette anni.
Le pareti della Casa di Sotto non hanno intonaco. Sono grigie e negli anni le croste di cemento hanno lasciato spazio a forme ricurve e spezzate, simili alle sagome di una cartina geografica primitiva. Quando risaliamo nella Casa di Sopra un piccolo ragno si agita tra lo stipite della porta e il tavolo della cucina. Non si sentono più voci solo che il grigio dei muri è diventato più scuro e l’interruttore della luce fa fatica ad andare giù.
Cerco nelle stanze mio padre e i suoi fratelli ma li ritrovo solo qualche anno dopo. È estate e sono usciti in veranda.
Serviti in tavola ci sono ravioli con ricotta e spinaci, polpette in umido con patate al forno, crostate alla marmellata di visciole e biscotti di magro, doni caratterizzati dalle impronte di mia nonna, dal movimento della sua pressione arteriosa, dall’umidità del suo respiro, resti di vita con cui cresceremo dentro per i prossimi anni, con quel ritmo di cuore cocciuto e di ossa operose, con quel tono muscolare da femmina autoritaria che non ama essere contraddetta. Finito il pranzo e consumata la ventesima Diana rossa, mio nonno si sdraia sotto una nespolo: le radici hanno spaccato il cemento che ne incorniciava il fusto, ora hanno la forma di piccoli bozzoli marroni che non sanno dove andare.
“Vieni qui, vicino a nonno”. Mi chiama a sé.
“Come stai?”.
All’abbaià dell’onde”.
“Ah…”.
“Perchè mi fanno male le ossa”.
Oggi non si parlerà della casa, oggi è una giornata d’estate, oggi hanno iniziato a cantare le cicale e stasera apparecchieremo la cena di fuori per la prima volta. E poi se saremo fortunati vedremo le stelle brillare.

 

Sul lavandino del bagno della Casa di Sopra c’è un bicchiere pieno d’acqua con dentro una dentiera. La vedo dalla porta socchiusa, la apro poco di più. Sarebbe da mettere dell’olio sulle cerniere, sarebbero da cambiare i controtelai e il bordino. Le porte sono le prime a cedere quando le case invecchiano.
Passo dalla stanza degli ospiti al soggiorno, la luce è più scura e striata dal blu di un fuoco appena acceso.
Sembra quasi che sia inverno e c’è odore di cenere.

Inverno: mio padre, mia madre, gli zii e i nonni sono nel soggiorno che da qualche anno è diventato un tutt’uno con la cucina perché è stato abbattuto il muro che li separava, non essendo portante.
Per ordine di importanza: il nonno è sul divano, la camicia bianca a righe verticali blu è aperta sul petto ancora arrostito dai lavori estivi, come suo solito dorme con la bocca spalancata, di tanto in tanto russa, poi si sveglia di soprassalto, poi continua a russare. Io mi alzo in piedi sperando che nessuno si accorga che mi sta spuntando il seno. Non sono pronta per i loro commenti. Una delle due zie lava i piatti muovendo le braccia con molta fretta e poca convinzione; la più giovane, ma anche la più robusta, è appoggiata col sedere sul tavolo di legno di fronte al lavandino. Si lamenta. Poi porta il caffè in tavola. Ha già deciso che stasera deve sollevare l’argomento. Quando si inizia a parlare della casa le espressioni dialettali aumentano in maniera proporzionale al tono di voce dei fratelli. È come un viaggio a ritroso nelle possibilità del progresso linguistico.

“Potremmo dividere la Casa di Sopra in due, costruire un altro piano sul solaio e dividere anche questo in due parti uguali.”
“Bisogna sentire il geometra. A me non va di aspetta’ tutto sto tempo.”
Ao’ chi la vo’ cotta e chi la vo’cruda. Oltre che sci pure sissignore…”
“Altrimenti io mi prendo tutta la casa di sopra e vi do i soldi.”
Sci e quannu ce li redai.”
A trovatu Cristo a mete e la madonna a restregne e gregne.”
La conversazione va avanti fino a quando mio nonno non si sveglia per il casino:
Tenti nì che co na notte ce nasce un fugnu”, minaccia, poi stremato si siede sul divano e si riaddormenta. Stanotte dormirà lì. Non gli sono mai piaciute le soluzioni comode.
Si sdraia a letto solo due o tre ore, alle quattro si alza per bere un caffè, poi ricade addormentato sul divano fino alle sei del mattino.
Lo strato di intonaco che copre la cappa del camino sta diventando nero per il fumo. Le mattonelle del pavimento non si lucidano più, nemmeno con lo Spik & Span.
La federa del divano è strappata, la fantasia dei colori non si distingue più, è piena di peli di gatto.Da quando nessuno gli vieta più di entrare, hanno preso l’abitudine di dormire dentro, dove capita, perché in fondo i letti non servono e i gatti lo sanno bene.
Cammino per le stanze della Casa di Sopra e vi cerco. Qualcuno ha spostato i mobili o ha iniziato a portarli via, da un’altra parte, lontano da qui. Sulle pareti bianche si vedono i buchi lasciati dai chiodi e le tracce dello scotch con cui mi zio attaccava i suoi poster. Il mio corpo è in controluce, metà nel buio della stanza e metà nel sole che arriva dalla finestra del soggiorno, nel grigio della penombra ho le mani di una vecchia e le mani di una bambina.
Sento odore di fumo. Mia nonna è nella Casa di Sotto che inforna le pizze. Se solo uno dei fratelli si accontentasse di prendersi tutta la Casa di Sotto il problema dell’eredità sarebbe risolto facilmente invece tutti vogliono la Casa di Sopra e il suo solaio edificabile.
C’è chi avanza anche pretese sul bosco dietro casa ma mio nonno ricorda che quello non è mai stata nostro, a dire la verità non si è capito bene di chi sia. Forse di un vecchio padrone che nessuno ha mai conosciuto. Ma a primavera è bello andare a farci una passeggiata perché si riempie di fiori.

Primavera.
Si litiga fino agli insulti, fino a spaccare i bicchieri a terra, fino a digrignare i denti e a farsi salire l’adrenalina in bocca, fino a sbavare come cani con la rabbia, poi stremati si cerca una frase per indietreggiare, per non rischiare di cadere a terra e svenire, la richiesta di un bicchiere, una battuta finita per sbaglio fra le spine di un’imprecazione e il fango di una bestemmia; si fa un po’ di silenzio e poi si comincia a ricordare il passato. La mia famiglia dopo le liti diventa sempre molto nostalgica.
“Ti ricordi di quella volta che ce facisti incollà tutti i matarassi pe’ dormì de fori?”.
Stessi ricordi, anno dopo anno. E intanto io mi sono sposata. Mio nonno annuisce divertito, e ancora trascura di raccontare che dopo poco era venuto a piovere ed erano dovuti tornare di corsa dentro casa con tutti i matarassi. Che poi questa mania di dormire all’aria aperta, chissà da dove gli veniva. Mia nonna annuisce. Quando si ricordano certi episodi è sempre contenta.
La pelle sulle sue guance somiglia al muro rigato di vecchio della Casa di Sotto.
La vestaglia a fiori è macchiata di sugo e terra, sporca di recinto di bestie e cene preparate troppo in fretta, odora di sudore e borotalco, di stoffa consumata, di pelle grigiorosa umida di vecchiaia.

Sul tavolo della credenza una volta c’erano le foto di lei e mio nonno insieme. Non si sa che fine abbiano fatto. Qualcuno deve averle portate via.
Sono di nuovo nella penombra della sala degli ospiti. Ci sono tanti posti nel mondo dove poter andare ma non per una bambina. Loro, i miei, sono sempre dentro, in sala da pranzo, o almeno io li vedo lì.
È di nuovo domenica e sono ancora i vivi, nonostante le incazzature abbiano consumato la bile a tutti, meno che a mio nonno che il fegato ce lo ha già a metà per fatti suoi, per un’operazione che glielo ha consumato da ragazzo. A volte le liti iniziano tra il primo e il secondo, a volte ancora prima che le fettuccine riscaldate vengano servite. Quelli sono i momenti peggiori perché la discussione inizia controvoglia e finirà per essere ancora più accesa perché spiriti già per natura iracondi sono stati disturbati in un momento di prevista tranquillità. Ma resisteranno. Il cibo preparato da mia nonna è pieno di proteine e contiene tutte le energie necessarie per sostenere un corpo zuppo di rabbia fino al caffè o all’amaro, dipende se sia estate o inverno e se mio padre e mio nonno siano in vena. Oggi l’argomento principale è la cantina.
La cantina per i due fratelli minori è un altro nome per la Casa di Sotto. La situazione è talmente penosa che mia zia avanza pretese perfino su quelle quattro mura senza intonaco, odorose di peli di cane e cenere: “Potremmo prendercela noi”.
Siccome sono troppo vecchia per certe cose esco e scendo nella Casa di Sotto. Lo scorso inverno il forno è stato chiuso. Una manata di calce e via, niente più forno, niente più pizze. Mia nonna è diventata troppo vecchia per scendere le scale fino alla Casa di Sotto, col risultato che questa è diventata inutilizzabile ma divisibile. Come tutte le cose, che solo da morte diventano sezionabili.

Ho fatto il giro della Casa di Sopra ma non ho trovato nessuno, nemmeno nella veranda dove apparecchiamo la tavola d’estate. Le stelle che brillano mi mettono tristezza, le inghiotto una a una, una per ciascun ricordo, come tanti piccoli spilli. Arrivo fino al cancello, per vedere se per strada passa qualcuno a cui chiedere che fine hanno fatto tutti quanti. Sulle scale di marmo che portano alla Casa di Sopra c’è una data: ottobre 1999. Si legge poco perché è stata incisa con un piccolo chiodo. Mio nonno è fermo su quelle scale che fa il gesto di richiamarci indietro, vorrebbe dire qualcosa ma non sa nemmeno lui bene cosa, né come. Vorrebbe trattenere suo figlio dallo scomparire per mesi in un mutismo teso e violento ma non sa bene cosa dire.

I guai li fanno le donne, pensa, che io a parte sgobbare da mattina a sera e attaccare la calce non ho mai contato un cazzo e forse è per questo che ogni tanto scappo e costringo gli altri a fare cose assurde, come portare i materassi fuori dalle camere per dormire sotto le stelle, che alla fine sono talmente distanti da non appartenermi oppure da appartenermi completamente, come tutte le cose lontane e inconsistenti, o me la prendo con me stesso, resto sveglio tutta la notte a camminare con una sigaretta accesa e penso che tutti gli errori fatti in fondo non contano nulla quando sai che sarebbe potuta andare solo peggio.

Mio nonno rimane fermo sulle scale, la pelle tostata dal sole dei cantieri, scura come la notte, una notte che brucia di pneumatici usurati dalla velocità di chi scappa, e non riesco a distinguere bene dove finiscono i suoi capelli neri e inizia il cielo senza luna.
Sono uscita e sono rientrata ma non ho trovato più niente. Solo ciuffi di erba tra gli infissi e due alberi di fico a crepare il muro della cucina. La casa è un continuo scricchiolare. Quando ci entri dentro hai paura che ti si richiuda addosso come un castello di carte. È così spoglia di tutto che i muri sembrano ostie della domenica, che se ci soffi sopra fai un buco e ci vedi attraverso e magari dall’altra parte ci sono ancora loro, a mangiare sulla veranda e a discutere per la Casa di Sopra per poi ricordarsi di quando erano bambini e ancora riuscivano ad essere disinteressati.
Due tronchi sottili hanno squarciato anche il muro della Casa di Sotto, quello dietro il frigo che una volta era pieno di gelati. Ora non ci sono più né la coppa dei campioni bigusto panna e cioccolato né il forno, né il puzzo dei cani appena nati. Qualcuno deve aver portato via anche i cani.

I corpi si dileguano in fretta e le forme cadono a pezzi. Mio nonno si è nascosto dietro una pennellata di calce una mattina di fine giugno, poi nessuno lo ha più visto. Gli piaceva talmente tanto attaccare la calce che alla fine ci è rimasto chiuso dentro. Nessuno si sposta più nelle stanze. Per questo la primavera è rimasta uguale all’autunno e l’inverno uguale all’estate perché il cibo di mia nonna non riscalda più la pelle e non ci alza la pressione, in cucina si sente solo l’odore dell’intonaco che cade. Mio nonno non è con lei nemmeno con il pensiero, come al solito è impegnato dentro quattro pareti di cemento solo che ora la sua mano non ha più spazio per dare lo stucco, né per aggiustarsi i capelli neri sulla fronte, né per prendere una Diana rossa dal taschino della camicia a strisce blu.

La Casa di Sotto ormai non esiste più. Come si dice da queste parti s’è sbragata.
La Casa di Sopra sta messa male: il soffitto del soggiorno ha ceduto, il tetto è crollato e porte e finestre non esistono più. Non ci sono più né divani né letti. Qualcuno deve averli portati via.
Solo due materassi, lerci di peli di gatto, abbandonati nella camera da letto dei miei nonni. La casa è a tutti gli effetti un rudere.
Ci siamo guardati e non c’è stato nemmeno bisogno di dircelo. Da stasera siamo finalmente liberi.
Stasera dormiamo fuori perché non è rimasto più niente.

Testo: Martina Tiberti
Fotografie: Giulia Mangione

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