pesce friddo

Alla Loggetta comandavano in due. C’era: Sabatino, detto “la Merda”, e Mario Cafasso.
Il primo aveva tredici anni e un naso che pareva una grossa patata piena di bitorzoli. Il secondo aveva mani larghe e piatte e presto o tardi avrebbe ereditato la pizzeria del quartiere, di proprietà della famiglia da tre generazioni. I due si odiavano e trovavano nelle partite di calcetto il giusto metodo per decidere chi fosse il più stronzo, almeno fino al giorno successivo. Il campo era lo spiazzo davanti alla chiesa dell’Immacolata di Lourdes.
Il ventisette luglio di quell’estate del 2006, Don Pasquale arrancò fino agli scalini che delimitavano la parrocchia, ultimo baluardo del suo potere temporale. Con un dito tondo sollevò il sudore che gli brillava ai lati del naso e lanciò un Teamgeist Berlin dorato dell’Adidas, quello della finale della Coppa del Mondo.
“Uagliò – disse ai ragazzi – pigliatavell, è un regalo”.
La palla rimbalzò sull’asfalto con degli st’nk metallici provocati dalla valvola nuova. I ragazzini la seguirono con lo sguardo fin sotto alla suola della Merda.
Alessandro Fanara, “Pesce Friddo” per gli amici, li guardava dal tetto dell’edificio a cinque piani alla fine di via G.V. Capitone. Fumava una sigaretta e tirava su la bretella della salopette di jeans. Il piede sinistro era per metà nel vuoto, il tallone destro toccava il parapetto alle sue spalle.

anna follesa 1

Quella mattina si era svegliato presto, ma era rimasto steso a lungo con le luci spente. In cucina aveva trovato il caffè già nella tazzina, freddo. Si stava passando la lametta sulle guance asciutte, tirate come vecchi tendoni da circo sugli zigomi, quando si era accorto che il figlio lo stava fissando da sotto lo stipite della porta.
Aveva sciacquato il Gillet nella palude di peli e schiuma del lavandino.
“Te la sei messa la maglietta che ti ho portato?”
“Domani dove vai?”, aveva chiesto il ragazzino.
Alessandro aveva stirato la pelle del viso puntellandola con tre dita sulla mandibola. Aveva spinto poi la guancia premendola con la lingua da dentro la bocca.
“A Modena”, aveva risposto.
“È bella?”
“Non ci sta il mare”, aveva detto Pesce Friddo.
Il figlio, usando la spalla come appoggio, aveva preso a spingersi con dei colpi dati coi fianchi sulla porta. Teneva le mani infilate nelle tasche della tuta e pareva un pesce agonizzante caduto fuori dal secchio pieno d’acqua.
“E che porti?”, aveva chiesto al padre.
“Un drago. Un drago blu scozzese.”
Il ragazzino aveva continuato a dimenarsi contro la porta, sempre più agitato.
Pesce Friddo aveva messo a posto il rasoio e richiuso il mobiletto di fianco allo specchio. Si era abbottonato la camicia marrone a quadri, coprendo il petto che mal celava le curve delle costole. Aveva infilato la stoffa nella salopette e tirato su le bretelle. Una gli era subito ricaduta.
“La maglietta te la devi mettere, hai capito? – aveva detto al figlio – Fatti rispettare, diventa uomo”.
Il ragazzino era corso via verso la sua camera e il padre aveva preso l’asciugamano dalla sbarra di plastica bianca attaccata al muro. Si era tamponato il viso dove già compariva qualche alone arrossato e si era avvicinato alla piccola finestra sopra la lavatrice.
Un pepeeee prolungato arrivava dalle auto in via M. Gigante. Guardando in basso riusciva a vedere i ragazzini giocare davanti alla chiesa.

Il pallone dorato aveva subito dato vita a una sfida tra la Merda e Mario per il possesso dell’oggetto. Le squadre si formarono in seguito a un continuo Io con quello non ci gioco pronunciato dai presenti. Con Sabatino c’erano Gino, detto “A pret’”, Salvatore Bellopede e Nunzio, figlio del macellaio. Col primogenito dei Cafasso giocavano Andrea Esposito, Gianmarco, il più piccolo del gruppo, e Rosa, rigorosamente in porta.
Dal calcio di inizio le ombre dei pini ai lati della piazza si erano raggrinzite fino a diventare merletti alla base dei tronchi. Le squadre erano sul tre a tre, con i gol segnati solo dai capitani. Prima uno e poi l’altro, i due ragazzi avevano esultato ripetendo un solo nome: Cannavaro. La leggenda della Loggetta.
Una delle mamme si affacciò dalla finestra spostando le persiane stinte dal sole.
“A tavolaaaa”, gridò, quando Don Pasquale chiuse il cancello e attraversò la piazza. Gianmarco, trovatosi con la palla tra i piedi, approfittò della situazione con uno scatto. Puntò il centro, proibito a Gino dalla tozza figura del prete. Mario Cafasso, incollato alla porta avversaria, si sbracciava e bestemmiava per farsi passare il pallone. Sabatino gli si avvicinò dalla sinistra. Gianmarco non seppe scegliere tra un dribbling e il provare a superare l’avversario in corsa. Si limitò a incassare il calcio della Merda che prima prese la sfera e poi gli centrò la tibia. Il rimbalzo della palla favorì Gianmarco, barcollante per il colpo. Aveva il busto che guardava per terra e allargò le braccia nel tentativo di mantenere l’equilibrio. Nunzio spinse la lingua contro gli incisivi e abbandonò la marcatura su Cafasso, deciso a picchiare la caviglia del ragazzino. Salvatore, in porta, fece tre passi in avanti.
Gianmarco colpì la palla dal basso, tra le dita e il collo del piede. La scarpa gli si incollò a terra ma il Teamgeist Berlin s’impennò, scavalcò il portiere rivale e s’infilò tra lo zaino e le giacche che facevano da pali. Il ragazzino corse dai compagni ridendo. Rosa aveva le mani sui fianchi mentre Andrea Esposito, rimasto a difesa, agitò i pugni vicino al mento e sputacchiò un gol tra i denti e l’apparecchio. A centrocampo Gianmarco s’inginocchiò e puntò gli indici al cielo.
“Pippo! Pippo! Pippo Inzaghi!”, disse.
Dai pini arrivò il verso delle cicale.
“O’ Milanè – disse Sabatino rivolto a Gianmarco – ma che cazzo fai?”.
La Merda prese a menarlo forte e sotto tutti gli altri. Un paio di calci glieli diede pure Mario Cafasso.
“Oh – disse Rosa – quello si vuole buttare giù”.
Indicava il palazzo alla fine di via G.V. Capitone. I ragazzi si fermarono e alzando lo sguardo portarono le mani a formare una visiera. Sì, c’era qualcuno sul tetto, e li stava pure guardando.

Finito in bagno Alessandro Fanara era passato dalla camera del figlio. Il ragazzino non c’era più, ma la maglia a strisce rosse e nere era ancora sulla sedia accanto al letto.
Era andato in salotto e aveva trovato la moglie seduta sul divano, la testa girata a sinistra verso il televisore. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo e indossava una vestaglia rosa con colletto bianco.
“Io scendo”, aveva detto Pesce Friddo. Una bretella gli era caduta.
La moglie si era voltata a guardarlo.
“Dove vai?”
“A comprare le sigarette.”
La donna aveva preso allora un pacchetto e ne aveva accesa una per sé. Le labbra erano spaccate in tante rughe verticali mentre aspirava. Era tornata sullo schermo.
“Domani Modena”, aveva detto mentre il marito girava la chiave nella serratura.
“Domani Modena”, aveva ripetuto Pesce Friddo.
“E che porti?”
“Merluzzo e spigola.”
Alessandro Fanara si era chiuso la porta alle spalle. Era nella tromba delle scale. A sinistra la rampa andava verso il basso, a destra in alto. Alessandro Fanara era salito.

anna follesa 2

I ragazzi bruciarono i piani del palazzo di corsa sbattendo i piedi come una mandria eccitata. Saltavano gli scalini aiutandosi con le mani quando il piede cadeva in fallo oppure dandosi slancio aggrappandosi alla ringhiera. Al secondo piano Cinzia Scognamiglio aprì la porta disturbata dal rumore di passi e rimase immobile, severa nell’osservare Gianmarco rimasto indietro. Il ragazzino rallentò e abbassò la testa.
In cima arrivarono per primi Sabatino la Merda e Mario Cafasso. L’inferriata che faceva da porta era chiusa. I due infilarono le dita tra le sbarre di metallo e le saldature e schiacciarono il viso verso l’esterno per vedere meglio. Il perimetro del tetto era delimitato da un muro ad altezza bassotto. Ma Pesce friddo era oltre, sui pochi centimetri prima del vuoto.
“Mo’ schiatta”, disse Mario.
“Figurati se si butta, quello non tiene le palle.”
Mario si girò verso la Merda.
“E cosa ti vuoi scommettere?”, chiese.
“Il pallone”, rispose Sabatino.
L’altro sbuffò facendo vibrare le labbra e tornò a guardare sul tetto.
“Quello è già mio.”
La Merda alzò gli occhi mentre formulava un pensiero.
“Mi gioco il pallone e, se perdo, non mi faccio vedere più alla piazzetta. Ma se vinco, tu sparisci”, rilanciò sorridendo.
Mario Cafasso non parlò. In silenzio gli allungò la mano e strinsero il patto davanti a tutti. Dietro era arrivato anche Gianmarco. Provò a infilare la testa tra le gambe dei compagni ma non riuscì a vedere nulla.
“Pesce Friddo – gridò Mario – ti sono cadute pure le palle nel congelatore?”
Gli altri ammutolirono, compreso la Merda, che non trattenne un sorriso per la battuta dell’avversario. L’uomo lanciò il mozzicone di sigaretta nel vuoto. Il movimento del braccio gli fece cadere la bretella.
“Che succede?”, chiese Gianmarco.
I ragazzi non risposero, erano aggrappati alla ringhiera e bisbigliavano tra loro.
Chist’ è strunz.”
Jamm, che ce vò.”
Gianmarco spinse via Rosa da un angolo e riuscì a vedere l’esterno. Giusto un attimo, prima di essere allontanato di nuovo dalla ragazza. Si aggrappò al braccio di Mario.
“Mario – lo chiamò – Mario, dobbiamo fare qualcosa”.
Cafasso lo spinse via. La Merda però lo prese e lo schiacciò vicino alla ringhiera.
“Guarda che se quello si butta è colpa tua. Digli qualcosa”.
Il ragazzino aveva la guancia a quadri, sagomata dalla rete di metallo. Vedeva il padre sul ciglio del tetto e dietro Fuorigrotta con lo stadio in lontananza.
“Il drago blu scozzese”, disse Gianmarco.
“Ma che stai dicendo?”.
Sabatino lo prese per il colletto e lo tirò indietro, quasi strozzandolo. Non riuscì però a staccarlo da lì.
Pesce Friddo si girò e vide il figlio. I ragazzi notarono gli occhi lucidi dell’uomo.
“È pure femminiello…”, sussurrò Sabatino.

Gianmarco scese di corsa per le scale.
“Manco suo figlio lo…” disse Mario, ma si interruppe.
Il ventò si era calmato ed era tornato il cantare delle cicale.
Alessandro Fanara si lasciò andare di sotto.
I ragazzi corsero giù e Cinzia Scognamiglio spalancò di nuovo la porta infastidita.
“S’è menato abbasc’”, gridavano i ragazzi.
Aprirono il portone del palazzo e girarono a destra. Corsero lungo tutto il lato che dava sulla chiesa e si fermarono all’incrocio. Ci stava una coppia di anziani davanti al cadavere di Alessandro Fanara. La donna premeva il viso contro la spalla dell’uomo e le labbra gli erano sparite nella bocca senza dentiera. Il vecchio copriva il petto con la coppola che si era tolto dalla testa. Il pallone e Gianmarco erano spariti.

Testo Simone Paparazzo
Illustrazioni Anna Follesa

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