Ho due ricordi di mia madre.
Nel primo mi scosta una ciocca di capelli dagli occhi e dice: “Quanto sei bella Maja”.
Nel secondo è al tavolo della cucina e io sono seduta per terra. Beve qualcosa. Guarda un foglio. Le dico che una bambina mi ha preso in giro per il mio nome.
“Seh?”, dice lei senza voltarsi.
“Ma perché? Che nome è?”
“Boh – risponde – quello dell’ape?”
Forse me lo sono immaginato. O forse scherzava.
Sull’altro, invece, non ho dubbi: sono sempre stata bella.
In terza elementare – quando lei se n’era già andata da quattro anni – aprii la processione di Pasqua del paese: la mia prima sfilata. Camminai per ore nei panni della Vergine Maria, con gli occhi verso l’alto e le braccia spalancate fino a farmi venire i crampi. Anche quella sera mio padre restò sulla sedia di plastica blu sotto la tettoia della pompa di benzina, in attesa che qualche solitaria automobile infrangesse la notte. Quando gli passammo davanti mi voltai per l’unica volta: sapevo dove trovarlo. Lui mi fece l’occhiolino e sorrise sghembo. Poi rialzai lo sguardo al cielo.
Il nostro paese non era né grande né piccolo, una terra di nessuno a metà strada tra la pianura e la montagna. Le uniche automobili che si fermavano per un pieno erano monovolume targate MI, dirette verso qualche seconda casa “AD APPENA UN’ORA DALLA CITTÀ” (così recitavano i cartelloni pubblicitari lungo la statale).
A me sembravano mal congegnati, appesi nell’angolo sbagliato del mondo: a noi non importava nulla di seconde case e ore dalla città, mentre i milanesi di passaggio ci stavano già andando.
Lì rimanevano, comunque, a sbiadirsi con le stagioni insieme alla pompa di benzina, alle tute grigie e unte marca Shell e allo stuzzicadenti appeso al sorriso storto di mio padre. Ogni giorno, dalle sei di mattina alle otto di sera, interpretava il suo personale modello di benzinaio, forgiato dai film western americani e dalla Trilogia del Dollaro: l’uomo taciturno che ne ha viste tante, seduto sul bordo del mondo a scrutare la pista polverosa.
Appesi alla porta della stazione c’erano un poster di Sentieri Selvaggi e un quadro di Edward Hopper. Non quello del benzinaio.
“Guarda che luce, Maja.”
Era una delle poche frasi che mi diceva, ma era vera. Mi seguite? Tutto in lui sembrava vero. John Wayne e l’odore di benzina. La luce, la strada e Edward Hopper.
Non parlò mai della guerra in Bosnia.
Né di mia madre.

Tua madre.
Così si riferiva a lei, se osavo domandargli qualcosa. In cambio ottenevo risposte frammentarie (quartieri a Milano, agenzie di moda, sigle d’ONG) da cui provavo a ricomporre un’unità, quasi fossero gli eventi che la professoressa ci faceva organizzare in schemi tematici sul quaderno di Storia.
Tua madre.
Era un modo di rivendicare la propria indipendenza, o forse di crearla: allontanandosi come John Wayne nelle praterie del nulla, lontano dal passato e dal dolore. E persino l’assedio di Sarajevo era la loro guerra.
Come avrei potuto insistere? Poi quella lontana fui io.
A sedici anni e tre mesi – dopo un’adolescenza a base di vodka del Tigros e sigarette all’automatico 24h, di feste nei boschi e sesso orale sui sedili posteriori di qualche FIAT Panda – me ne andai. Ultimo pomeriggio alla pompa di benzina: quando i neon gialli e rossi della Shell si accesero sulla tettoia, mio padre prese due paletti collegati da una catena di plastica e sbarrò l’entrata della stazione. Per la prima volta mi sembrò vecchio. L’avevo sempre visto bellissimo.
“È già ora di chiudere?”
“No. Ma oggi sì. Vieni qua.”
Ci dondolammo sulle sedie di plastica, senza parlare. Il tramonto spalmava pennellate rosa e arancione sopra i tettucci delle automobili e gli uccelli galleggiavano nella luce come foglie secche al vento. Mio padre prese due lattine di Coca-Cola dal frigorifero e me ne lanciò una. Estrasse dal tascone della tuta un pacchetto di Marlboro.
“Fumi?”
Non me n’ero mai accorta.
“A volte. Tu?”
“A volte.”
“Vuoi dividerne una?”
“Ma non salta in aria tutto?”
“Tu hai mai visto una pompa di benzina esplodere per una sigaretta?”
“No.”
“Neanch’io.”
Così finimmo le lattine e ci dividemmo una sigaretta. Poi altre due. Mio padre entrò nel gabbiotto, ne uscì con una vecchia scatola da scarpe e me la diede.
“Questa è tua.”
Restammo lì – in bilico sulle sedie – mentre i fari delle macchine passavano sulla statale e il cielo scuriva. Poi fece buio del tutto e soltanto i puntini rossi in fondo alle nostre sigarette rimasero a danzare tra i neon Shell e l’asfalto.
Nella scatola c’erano duemila euro in contanti e cinque foto di mia madre. La vedevo per la prima volta senza lo schermo della memoria. Certo, avrei potuto farla diventare chiunque, ma ho sempre avuto poca fantasia; forse per questo ne sentivo tanto la mancanza.
E così, ancora oggi, se mi chiedono di mia madre rispondo che è una foto. Per me lei è la sua foto che preferisco: una giovane donna in bianco e nero, mentre scende una scalinata di pietra e sorride senza guardare in camera. La tengo appesa a una parete della mia stanza. Pochi mesi fa un uomo mi ha domandato se fossi io. Non sapevo cosa pensare, ho risposto di sì.

alice tropepi 2

Un poeta tedesco scrisse: Sto sempre andando a casa. Alla casa di mio padre.
Non ho mai letto niente di suo. L’ho soltanto sentito citare in un film. A dire il vero, leggo poco. Ma era proprio lì che stavo andando: alla casa di mia madre, a Milano.
Impiegai cinque ore a percorrere quella famosa ora dalla città in autostop. Il mio ultimo passaggio (una rappresentante di coloranti industriali magrissima e tutta denti, che mi regalò mezzo pacchetto di sigarette dopo aver constatato: “Cazzo! Dieci in due ore”) lasciò la Skoda in un garage sotterraneo a piazzale Loreto. Entrai da McDonald’s e presi un caffè. Ogni tanto lo faccio ancora: attraverso la città per bere un caffè al McDonald’s di piazzale Loreto. Tolgo il copribicchiere in plastica, soffio sul caffè bollente e lascio che il vapore salga verso la mia faccia, mentre guardo il traffico oltre le finestre del primo piano. A volte mi fa sentire bene, altre no. Ma la maggior parte delle volte sì.
Scesi per corso Buenos Aires – un canyon largo e inondato di luce, denso di automobili, gente e negozi – e attraversai i Giardini di Porta Venezia, con il museo di Storia Naturale e la cupola del planetario a galla nel sole. La scatola con i soldi era nascosta in fondo allo zaino.
Pensai ai neon della pompa di benzina. O forse no. Volevo solo andare. A ogni svolta leggevo i nomi delle vie e delle piazze, cercavo di memorizzarli. Camminai fino a quando le guglie del Duomo squarciarono il cielo come razzi intergalattici oltre i tetti delle case: lo vidi per la prima volta dal retro, la vetrata dell’angolo sud-est. Qualche tempo dopo un critico d’arte mi avrebbe detto che proprio quello era il vero scorcio gotico del Duomo, la prospettiva migliore. Eravamo a una festa. Forse voleva solo portarmi a letto. Comunque sia, rimane la mia preferita. Stesa sotto una magnolia, guardai i fiori e le statue bianchi contro l’azzurro finché un poliziotto non mi scacciò dall’aiuola. Allora costeggiai la cattedrale e sedetti all’ombra della statua di Vittorio Emanuele a cavallo. La piazza si srotolava davanti a me come un tappeto di luce fino agli scalini della chiesa, alla facciata a capanna e alla madonnina d’oro in volo sopra la città. Fumai una sigaretta, l’ultima della mia vita. Il futuro era enorme.

Presi un letto in camerata all’ostello della gioventù di via Medici, sopra il cuscino appesi una mappa omaggio ATM e iniziai a studiare strade e linee della metropolitana. Avevo tre giorni prima che iniziassero i casting per la Settimana della Moda. Smisi di fumare. Denti gialli, alito cattivo, dita sporche o puzzolenti: tutte debolezze che non potevo più permettermi. Ma quelle nove Chesterfield le conservo ancora. E quando il lunedì mattina scesi nella sala comune per fare colazione (succo d’arancia) mi vidi riflessa nello specchio in fondo alle scale. Avevo puntato la sveglia presto, per prepararmi prima che i bagni fossero invasi da orde di turisti giapponesi e tedeschi: ne era valsa la pena. L’addetto alla reception mi chiese se fossi in città per la Settimana della Moda. Me lo domandò in inglese.
“Sì. Sono appena arrivata.”
“Pensavo che tutte le modelle fossero straniere.”
Ero molto scaramantica. E lo sono ancora.
“Non sono una modella”, dissi.
“Ah.”
Esatto. Ah.
Ma non bastava.
Avevo un book? No. Ero rappresentata da qualche agenzia? No. Avevo qualcuno a guidarmi nella selva di casting simultanei? No. Avevo qualcuno che mi facesse almeno entrare a un casting? No. Non ero nessuno. E dopo mezza giornata ero un nessuno scarmigliato e in lacrime su una panchina del Parco Solari.
Poi conobbi Pietro.
Si sedette di fianco a me: “Hai da accendere?”.
Lo mandai affanculo.
“Guarda che mi serve davvero un accendino.”
Rimasi in silenzio, sperando di svanire all’istante: affondare nella ghiaietta bianca fra i miei piedi come sotto la superficie della piscina comunale in cui avevo imparato lo stile libero da bambina.
“Non voglio attaccare bottone.”
Forse ce l’avevo ancora. Sì, ce l’avevo. Lo tirai fuori dalla borsa e glielo passai senza girare la testa. Volevo solo che se ne andasse.
“Com’è possibile che non ti abbiano presa? La mia modella è molto peggio di te.”
Non voglio attaccare bottone.”
“Beh. Ho mentito.”
Mi voltai a guardarlo.

Pietro aveva ventun anni, studiava fisica delle particelle e per mantenersi lavorava come driver: uno degli autisti che durante le cinquantadue Settimane dell’anno milanese scarrozzano modelle, modelli, fotografi, architetti, stilisti, esperti, designer e faccendieri di ogni genere in giro per la città. Guidava una FIAT Punto grigia.
“’Sto catorcio?”, risi.
Pietro si infilò uno stuzzicadenti in bocca e incavò le guance. Soltanto dopo mesi avrei capito il suo modello: tutti gli uomini che amavo vivevano in un film.
“Non ti degno nemmeno di una risposta.”
“Mi aspettavo una limousine.”
“Ti scarico qua.”
“No.”
“No?”
“Be’ non è poi così male.”
“No che non lo è. È la mia macchina.”
“L’agenzia non te ne dà una?”
“No. E poi con un’automobile appariscente è più facile essere fermati dagli sbirri.”
“Ah.”
“A proposito, se ci fermano e ti chiedono qualcosa, tu sei mia cugina.”
“Tua cugina?”
“Sì. Non ti va?”
“Sì che mi va.”

Mi vengono in mente soltanto citazioni di autori e storie mai lette, ora che sono qui a raccontare la mia. Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, me la insegnò Giulia (la mia agente) quando cominciarono a farmi domande sui genitori durante le interviste. Non era nemmeno tutta la verità. Ma insomma: una supermodella che citava Tolstoj. Che trovata. Se ci penso ora – però – è perché non dirò altro su me e Pietro.
È quel che siamo stati per un certo periodo: una famiglia felice come tutte. Una famiglia di due persone, ma pur sempre una famiglia. Poi siamo stati infelici a modo nostro e poi neanche più quello. Non c’è bisogno di aggiunte. Cosa vi direbbe la nostra prima notte assieme o come ci svegliavamo o la vernice bianca sui jeans mentre pitturavo le pareti di casa? Cosa vi direbbe l’asimmetrico logorarsi delle nostre giornate? Cosa vi direbbe tutto il resto? È così banale, così scontato. Ci sono stanze in cui ognuno deve stare solo: amore e sofferenza sono patetici per chi non li vive. Dissi questa stessa frase a un attore. Ero ubriaca alla première di 21st Century Girl. La mia prima parte importante, una settimana dopo essermi lasciata con Pietro.
“Ti sposerei”, disse lui.
Io mi versai un bicchiere di vodka liscia.
“Ecco cosa intendevo.”
E vediamo se siete abbastanza svegli da capire.

Per tre mesi non uscii di casa. Il film andava alla grande, riviste e giornali chiedevano interviste, ogni acqua altamente diuretica e povera di sodio mi voleva come testimonial. Ma io non uscivo di casa. Giulia era fuori di sé. Avevo cambiato appartamento per non farmi trovare: abitavo in viale Monteceneri, un bilocale al terzo piano affacciato sul cavalcavia della Ghisolfa.
Restavo tutto il giorno in camera da letto e dalle sei del mattino alle dieci di sera contavo le macchine in transito. Quattromila veicoli l’ora. Imparai a distinguerli senza vedere. Durante il giorno bisognava prestare attenzione al rumore dei tubi di scappamento: separare auto e moto, far caso ai passaggi simultanei. Quando calava il buio invece mi sporgevo a testa in giù oltre il bordo del materasso e guardavo le luci bianche, rosse e arancioni che ondeggiavano sul soffitto. Non smettevo mai di contare.
Restavo con la testa capovolta sino al limite dello svenimento, il cervello gonfio di sangue. Soltanto allora mi tiravo su. Immaginavo di muovermi sul soffitto. Non senza gravità, ma con una gravità invertita. Mi chiedevo come avrei fatto a cucinare, andare in bagno o accendere la tv. Escogitavo soluzioni per questi problemi. Smisi di mangiare. Diventai sempre più magra, poi sottopeso e poi un sacchetto d’ossa. L’aspetto fisico non c’entrava: ero stufa di camminare fino al supermarket. Di vedere persone.
Razionai quel che avevo nella dispensa; dopo qualche giorno diminuii le quantità; poi le diminuii ancora. La spesa settimanale durò mesi. Bevevo acqua del rubinetto e mangiavo due cracker al giorno. Mi sembrava di essere impegnata in qualcosa di puro: sul punto d’elevarmi per sempre oltre le macerie del mondo.
Il 7 dicembre uscii sul balcone. Senza motivo. Per settimane ero rimasta sigillata all’interno. Contro la ringhiera c’era una vecchia bicicletta da uomo, il telaio arrugginito e le gomme a terra. Mi sedetti sulla canna e guardai giù, muovendo gli occhi da un dettaglio all’altro come una macchina da presa. Tutto sembrava morto – livellato dall’uniforme immobilità della nebbia – i due soli particolari in movimento erano un uomo e una donna di quaranta, forse cinquant’anni. Litigavano sotto il cavalcavia. Non potevo sentirli ma lo capivo dalle facce, dalle mani. L’uomo reggeva due borse Carrefour; un barattolo di sugo però era scivolato fuori, infrangendosi sul marciapiede. E mentre fissavo quell’unica macchia di colore in un’intera città, capii per la prima volta che le cose possono andare male. Era tremendo: le cose possono andare male. Semplicemente possono farlo. Così, come un barattolo di sugo. Rientrai in casa e indossai un vestito blu, corto e senza maniche. Sotto portavo soltanto le mutande; del reggiseno non avevo più bisogno. Poi tornai sul balcone a prendere la bici. Immagino lo sconcerto di chi mi vide per strada: uno scheletro avvolto da uno svolazzante vestito estivo che mulinava le gambe in mezzo al traffico sino a farsi sanguinare i polmoni, con i capelli di uno spaventapasseri e la pelle arrossata dal gelo. Ma quel giorno non pensai alla gente. Scesi in ascensore con la bicicletta, aprii il portone del palazzo e iniziai a pedalare.

 

alice tropepi

 

Un anno e venticinque giorni dopo alzai lo sguardo verso il cielo di Parigi. Le nuvole correvano e si spezzavano nel vento. Cercai qualche somiglianza, ma erano solo nuvole. Non importava. Il giorno di Capodanno faceva freddo al Père-Lachaise e il mio cappotto era lungo, scuro, morbido e caldo. A me piaceva il vento e piaceva camminare senza meta nel cimitero. Lontana dalle tombe dei personaggi celebri, prese d’assalto dai turisti, salivo per sentieri laterali e gradini coperti di muschio fino a zone deserte, dove le lapidi si addossavano le une alle altre senza criterio e il bosco cercava di riprendersi ciò che era stato suo. Leggevo date di nascita e morte incise nel marmo, dediche da familiari e amici; cercavo d’immaginare ogni vita oltre quelle foto sbiadite. Uomini concepiti a Neilly-Sur-Seine o ragazze di Alessandria d’Egitto. Morti neonati o defunte a ottantasette anni. Con folti baffi grigi, cappelli da marinaio, giacche militari. Le tombe coperte da lunghi testi in arabo o dipinte di giallo e rosso, fregiate con dediche in corsivo (“MERCI MON AMOUR”). Camminai in discesa lungo un muro di mattoni: il confine nord-occidentale del cimitero. A ogni passo appoggiavo il piede sinistro in un canale di scolo e il destro sul bordo di una lapide. Nessun rumore oltre ai miei stivaletti. Poi sentii qualcuno piangere. Mi bloccai. Avevo dimenticato che il Père-Lachaise fosse quello che era. Un bambino stava cambiando i fiori su una tomba. C’era una donna con lui, ma la donna non piangeva: puliva la lapide con uno scopino. Entrambi svolgevano il proprio compito con gesti rapidi e decisi. Il bambino piangeva, la donna no. Era il primo giorno dell’anno. Poi anche la donna cominciò a piangere.
Io continuai a camminare e uscii dal cimitero. Presi la metro fino a Saint-Georges. Attraversai l’acciottolato della piazzetta lasciandomi sulla sinistra la statua in bronzo del santo. Scesi verso il mio appartamento e digitai il codice del portone, ma non entrai. Superai boulevard Hausmann – invece – e per rue de Montmartre arrivai a Les Halles e poi alla Senna. Attraversai il Pont Neuf oltre l’Île de la Cité e mi sedetti sul parapetto del ponte, dentro uno dei balcons di pietra dove i pittori posano i propri treppiedi e le coppie si baciano reggendo in mano bastoni per selfie. Seguii la linea dei tetti fino al cartellone pubblicitario Michael Kors e mi guardai negli occhi.

Testo Maja Ivanović
Illustrazioni Alice Tropepi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *