È luglio, l’autobus è vecchio e affollato, l’aria condizionata rotta. Un anziano sale a bordo e dal fondo si lamenta a voce alta dei trasporti pubblici.
Lui alza per un attimo la testa da libro che sta leggendo, poi la riabbassa subito. A lei che gli siede accanto dà soltanto un’occhiata distratta. Nota gli auricolari bianchi che le scendono dalle orecchie. Non sa da quanto tempo sia seduta lì.
Quando l’autobus riparte lei si appoggia a lui. Indossa una canottiera verde, lui una maglietta a maniche corte: la pelle delle loro braccia aderisce per un istante. Entrambi si ritraggono come punti da una spina, si risistemano sui sedili, ognuno nel proprio spazio. Lo fanno senza dirsi nulla, senza voltarsi.
Alla fermata successiva accade di nuovo. Lui sbuffa e si ritira, ma meno di prima, si limita a stringere il braccio contro il costato, sente la punta del proprio gomito premergli sulla pancia. Lei non si muove.
Lui è infastidito. A quella distanza riesce a percepire distintamente il calore della pelle di lei. È una sensazione imbarazzante. A ogni scossone lo spazio tra loro si riduce ancora e oltre al calore lui avverte un leggero solletico, piccoli peli invisibili che lo accarezzano, strappandogli un brivido. Allora contrae maggiormente i muscoli del braccio e della schiena. Sbuffa. Il libro che ha in mano non lo legge più, è concentrato solo sulla difesa della loro distanza.
Lei resta impassibile, lo sguardo fisso in avanti, lui la spia con la coda dell’occhio. Potrebbe alzarsi e andarsene o voltarsi e dirle qualcosa, ma pensa che non sia compito suo. Lui è nel suo spazio, non deve fare niente, è lei che sta sconfinando.
La sensazione di calore che avverte è piacevole e avvolgente. Cancella l’afa umida dell’aria, il rumore dei passeggeri intorno. Sente i muscoli prima indolenziti sciogliersi, ammorbidirsi. Sente di sentirsi bene.
Loro sono ancora lì, seduti vicini, attaccati. Si guardano adesso e sorridono.