È luglio, l’autobus è vecchio e affollato, l’aria condizionata rotta. Un anziano sale a bordo e dal fondo si lamenta a voce alta dei trasporti pubblici.
Lui alza per un attimo la testa da libro che sta leggendo, poi la riabbassa subito. A lei che gli siede accanto dà soltanto un’occhiata distratta. Nota gli auricolari bianchi che le scendono dalle orecchie. Non sa da quanto tempo sia seduta lì.
Quando l’autobus riparte lei si appoggia a lui. Indossa una canottiera verde, lui una maglietta a maniche corte: la pelle delle loro braccia aderisce per un istante. Entrambi si ritraggono come punti da una spina, si risistemano sui sedili, ognuno nel proprio spazio. Lo fanno senza dirsi nulla, senza voltarsi.
Alla fermata successiva accade di nuovo. Lui sbuffa e si ritira, ma meno di prima, si limita a stringere il braccio contro il costato, sente la punta del proprio gomito premergli sulla pancia. Lei non si muove.
Lui è infastidito. A quella distanza riesce a percepire distintamente il calore della pelle di lei. È una sensazione imbarazzante. A ogni scossone lo spazio tra loro si riduce ancora e oltre al calore lui avverte un leggero solletico, piccoli peli invisibili che lo accarezzano, strappandogli un brivido. Allora contrae maggiormente i muscoli del braccio e della schiena. Sbuffa. Il libro che ha in mano non lo legge più, è concentrato solo sulla difesa della loro distanza.
Lei resta impassibile, lo sguardo fisso in avanti, lui la spia con la coda dell’occhio. Potrebbe alzarsi e andarsene o voltarsi e dirle qualcosa, ma pensa che non sia compito suo. Lui è nel suo spazio, non deve fare niente, è lei che sta sconfinando.

Dopo una decina di minuti di resistenza la spalla e la schiena cominciano a fargli male. Allora cede, rilassa il braccio che scivola fino a quello di lei. L’aria tra le loro pelli diminuisce, scivola via finché non c’è più. Aderiscono uno all’altra. Che si sposti lei, pensa.
Lei però non si sposta. Anzi, comincia a esercitare una leggera pressione così che la zona di contatto dei loro corpi, lentamente, aumenta.
Lui sgrana gli occhi. Vorrebbe dirle qualcosa, ma la rabbia cede d’un tratto il posto allo stupore. È sorpreso da quel comportamento così sfacciato, ma ancor più da quello che, inaspettatamente, sente.
La sensazione di calore che avverte è piacevole e avvolgente. Cancella l’afa umida dell’aria, il rumore dei passeggeri intorno. Sente i muscoli prima indolenziti sciogliersi, ammorbidirsi. Sente di sentirsi bene.
Si chiede chi sia quella donna, cos’abbia la sua pelle. Non ha modo di osservarla. Potrebbe voltarsi, ma ha paura che se lo facesse lei semplicemente si scuserebbe. Allora si scuserebbe anche lui e tra le loro pelli si formerebbe una barriera sottile, ma invalicabile, la pellicola della realtà.
È come se avvertisse per la prima volta il limite ultimo del suo corpo. E al tempo stesso gli sembra di avvertire la possibilità di superare quel limite, di entrare finalmente in contatto con un’altra persona.
Mentre fa questi pensieri, senza rendersene conto, anche lui ha iniziato a spingere il proprio braccio verso l’esterno.
La loro superficie di contatto aumenta ancora. Aumenta il calore. Ora ognuno dei due preme la propria pelle contro la pelle dell’altro, senza guardarlo, continuando a fingere di fare quello che stava facendo prima. Nessuno nell’autobus si accorge di niente.
Avvicinandosi al capolinea i passeggeri diminuiscono, le strade si fanno periferiche, meno trafficate, più sconnesse.
Sarebbe già dovuto essere sceso da alcune fermate. Ma preferisce restare sull’autobus, seduto, attaccato, pelle a pelle, a gustare quell’imprevisto incontro di confini.
A ogni buca, curva o frenata sentono la loro zona di contatto modificarsi, aumentare, rimpicciolirsi, farsi di nuovo punto, nuovamente allargarsi in un lago. A volte si staccano e un refolo d’aria si insinua tra loro. Allora ritrovarsi è un sollievo. È un sollievo sentire le loro pelli che si premono, strusciano, si deformano, forse sono una soltanto.
Non importa più dove stanno andando, non importa più chi sono. L’unica cosa che conta è il punto d’intersezione delle loro cellule, il punto in cui finisce lui e finisce lei, ed entrambi cominciano.
Al capolinea l’autobus apre le porte e spegne il motore, scendono tutti. L’autista recupera la giacca e esce dal posto di guida, guardando verso l’interno. Scuote la testa, infila la giacca, poi scende anche lui.
Loro sono ancora lì, seduti vicini, attaccati. Si guardano adesso e sorridono.

Testo: Andrea Fabiani
Immagine: Marina Ioppolo

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