Ho questo ricordo di mio fratello, chino sul cassettone dei vestiti, che pesca magliette, calzini e mutande senza un preciso criterio estetico, per lanciarle alla rinfusa in un borsone della palestra.
Ha appena compiuto quindici anni e i miei genitori hanno stabilito che è diventato grande abbastanza per andarsene in vacanza per conto suo. A volerla dire proprio tutta, l’accordo originario prevedeva un’attesa non inferiore ai sedici anni, ma le ultime circostanze hanno limato la severità dei miei, a quanto pare, e adesso ecco mio fratello – alle prese con un bagaglio dalla funzionalità discutibile – che non vede l’ora di svignarsela al mare in compagnia dei suoi amichetti arrapati.
Io? Io sono avvinghiato con entrambe le braccia alla sua gamba, supplicandolo di portarmi con sé. Cerco di aggrapparmi al tessuto acetato e scivoloso della sua tuta da ginnastica, e nel frattempo provo ad abbandonarmi al pavimento con tutto il peso del corpo. Mica uno scherzo, in particolar modo se tuo padre ti sta tirando a sua volta per la gamba, minacciando di toglierti la televisione, il Nintendo, la paghetta e qualsiasi altro agio di cui possa disporre un ragazzino di dieci anni.
Ma non demordo. Tengo botta. Inizio pure a strepitare, a spellarmi la gola, a emettere rantoli spaventosi, da indemoniato.
Mio fratello si disinteressa completamente del dissidio familiare, con la testa è già altrove, disteso sulla sabbia o in coda per entrare in qualche discoteca della riviera, lo sa il Diavolo.
Quando mio padre esce dalla stanza per chiamare rinforzi, lo vedo infilare di soppiatto nel borsone una scatoletta colorata e rettangolare.
“Cos’è?”, chiedo
“Palloncini”, risponde mio fratello.
Mio padre rientra nella stanza scortato da mia madre, io ricomincio a strillare e poi son solo ceffoni, pianti e stridor di denti.
La presa sulla gamba si allenta, dando l’opportunità a mio fratello di squagliarsela e di uscire da questa storia una volta per tutte.
Non che gli sia capitato qualcosa, per carità. Adesso ha trentasette anni, fa il banconista in un supermercato, ha due figlie in buona salute ed è sposato con una donna che ha messo incinta per la prima volta proprio in quella vacanza, per via di un palloncino che non ha retto all’esuberanza di un quindicenne.
No, mio fratello esce di scena per il semplice motivo che ad agosto, in città, non ci resta proprio nessuno. Giusto i barboni, i muratori clandestini assunti al nero e le famiglie con una vecchia moribonda a carico. E qui arrivo io, in compagnia della mia bella estate schifa, in assoluto la peggiore della mia vita.
Ancora oggi, io, in quella stanza non ci metto piede. Mia madre la chiama “la stanza degli ospiti”, ma per me resterà sempre “la stanza della Vecchia”.
Un paio d’anni fa a Natale mi hanno fatto poggiare l’impermeabile nella stanza degli ospiti e di nuovo ho percepito nettamente quell’odore nauseabondo di disinfettante misto a disfacimento atavico che mi fa venire i conati al sol pensiero.
La Vecchia era arrivata in casa senza il minimo preavviso. Sapevo che non era stata bene, e che aveva trascorso alcuni giorni in ospedale (mi avevano pure costretto a farle un disegno), ma il suo ingresso trionfante nel soggiorno – scortata da un plotone di infermieri armati di barella, tubi e flebo- aveva lasciato di stucco sia me che mio fratello.
A cena i nostri genitori ci avevano spiegato che la nonna aveva bisogno di un periodo di riposo e che sarebbe rimasta a casa nostra per un po’. Per questo motivo non saremmo andati alla casa al mare, come facevamo tutti gli anni.
Penso che abbiano chiamato in causa anche la “famiglia”, la “responsabilità” e che abbiano accennato all’apporto che avremmo potuto dare noi ragazzi, per far star meglio la nonna, ma io avevo smesso di ascoltare da un pezzo.
Fino a quel momento, la mia vita era stata calibrata in funzione di quei due mesi al mare.
C’era la scuola, ok, c’erano le vacanze natalizie e pasquali. La recita, nuoto, le pagelle… ma a luglio e agosto si andava al mare, su questo non ci pioveva.
Lì andavano i miei compagnia di classe, lì avevo gli amici, la spiaggia, il chiosco dei gelati, il minigolf, i campi da beach volley.
E invece eccomi pronto a un’estate miserabile, per colpa di un’anticaglia che non aveva più niente da chiedere alla vita.
Dopo aver cenato, mia madre mi appioppò una ciotola di minestra da portare alla Vecchia.
Per fortuna dormiva. Appoggiai il piatto sul comodino e rimasi un attimo sulla soglia a guardare quel corpo risucchiato. La Vecchia dormiva con la bocca spalancata e i suoi dentoni da castoro bene in mostra, le ciglia aggrottate in una posa contrariata, da gufo. C’era così poca vita in lei che quando accennò un movimento nel sonno ne rimasi sorpreso e fuggii via in preda al terrore.
Nelle settimane seguenti mi lasciai narcotizzare da una noia cagionevole. Non so se fosse per via dell’afa, o del tedio, ma ero come scosso da una strana febbre, che mi rendeva perennemente stanco e allucinato. Magari vagavo ore intere su e giù per il corridoio, senza neppure rendermene conto, oppure restavo sdraiato sul letto senza riuscire a trovare la forza per alzarmi. La mattina mi costringevano a svegliarmi presto per fare i compiti fino a mezzogiorno. Se in attesa di pranzare accendevo la televisione o giocavo a palla in terrazza, il ritornello era sempre il solito: “Shhh! La nonna riposa!”
La nonna riposava sempre. Ventiquattro ore su ventiquattro. Questo non era sempre uno svantaggio, dato che i nostri genitori invitavano me e mio fratello a tenerle compagnia, quando loro non erano in casa.
“Avete fatto compagnia alla nonna?”, ci chiedevano al ritorno.
“Si, ma dormiva”, rispondevamo noi in coro.
In realtà nemmeno ci avevamo provato a bussare. Dall’arrivo della Vecchia, la planimetria della casa si era ridotta di una stanza, per quanto ci riguardava.
Il passatempo che avevamo escogitato era quello di puntare gran parte della nostra paghetta mensile sulla data del decesso, sul momento della giornata (mattina, pomeriggio o sera) e su chi avrebbe trovato il corpo. Chi si avvicinava di più, si intascava l’intero malloppo.
Solo dopo la partenza di mio fratello realizzai di essere rimasto solo come un cane. In fin dei conti insieme a lui qualche ghignata la facevo, ogni tanto. Certe volte mi permetteva pure di salire sul suo motorino, e di guidarlo per finta.
Per combattere l’insofferenza agostana presi a bazzicare il campetto della parrocchia.
È incredibile come d’estate si vengano a creare assembramenti di persone del tutto casuali, unite dal sacro vincolo della disperazione. Piccole comunità di sventurati che si alleano provvisoriamente per scampare all’afa, pronti a tornare a ignorarsi non appena la situazione sarà rientrata nei ranghi.
C’era poco da stare allegri, al campetto della parrocchia. Un branco di emarginati che sudano inseguendo un pallone tutto il santo pomeriggio non è poi questa gran consolazione. Come ho detto prima, se ad agosto rimani in città, significa che la tua famiglia non se la passa troppo bene. Oppure che hai qualcosa che non funziona, là dentro. Gli habituè del campetto erano la sintesi perfetta di queste due motivazioni.
Prendete Cicci. Sua mamma aveva il cancro, e lui era famoso per mangiarsi le caccole. Pareva che al campetto ci schiacciasse l’intera esistenza. O Tommaso, il figlio balbuziente della portinaia del mio condominio. Lo chiamavamo tutti To-to-tommmaso. E poi Lollo, quello coi genitori tossici, o Sonia, la ragazzina mezza mentecatta, che se le facevi un regalo ti lasciava toccare le tette che non aveva.
Io non ero uno di loro. Avevo degli amici, io, due genitori normali con una casa al mare. Normale pure quella. Non avevo nulla a che spartire con loro, ma ero esasperato e tanto valeva starsene un po’ all’aria aperta, piuttosto che respirare l’aria rancida biascicata dalla Vecchia.
Se andavo a piedi, potevo reinvestire i soldi che mia madre sganciava per l’autobus in dolciumi o palpatine a Sonia.
Al campetto non facevamo grandi cose. La maggior parte del tempo la trascorrevamo a calciare il pallone contro il fianco destro della chiesa, sfidandoci a chi si avvicinava di più al campanile.
Quando eravamo stufi, ce ne andavamo in giro per il quartiere a suonare campanelli, peraltro senza particolari soddisfazioni, dato che non c’era quasi nessuno in città.
Ah, i giochi di ragazzi! Le volte che sento piagnucolare a proposito della spensieratezza dell’infanzia mi si accappona la pelle. Per quanto mi riguarda, l’estate dei miei dieci anni non è stata altro che pallonate contro un muro, una dopo l’altra, come un rintocco incessante che fendeva il tempo e scrostava l’intonaco della chiesa.
Un giorno e un giorno ancora sui quali sdrucciolare, lisci e informi.
Intanto la Vecchia non sembrava passarsela questa meraviglia. I miei avevano smesso di spronarmi a farle compagnia e per oltre una settimana nemmeno l’avevo intravista, al di là della porta degli inferi.
Spesso passava il dottore. Quando mi incontrava sganciava un buffetto e una caramella schifida, manco fossi un lattante.
Usciva dalla camera con un muso che si allungava di visita in visita. Verso Ferragosto aveva il mento che quasi strascicava sul pavimento, e anche i miei genitori apparivano molto turbati. Li sentivo bisbigliare di notte, in camera da letto. E poi in cucina. Al telefono. Ovunque.
Un giorno torno a casa e trovo i miei agghindati perbenino e ritti sulle punte. La prima cosa che mi dicono è: “Shhh!”, la seconda è “vatti a lavare, che Zia Luigia è venuta a trovare la nonna”.
Zia Luigia era la sorella della Vecchia. Nessuno era tanto temuto in famiglia quanto Zia Luigia. Mi ha sempre ricordato una perfida istitutrice slovacca, e questo ancor prima di sapere cosa fosse un’istitutrice e dove fosse la Slovacchia.
Aveva quegli occhietti dappertutto che ti giudicavano senza mai annoiarsi. E quando se ne andava e ti chiudevi in bagno, li sentivi ancora, lì, addosso, tentacolari, i suoi occhietti. A ogni pranzo di famiglia non poteva mancare il piantino in cucina di mia madre, per qualche osservazione fatta da Luigia a proposito della pulizia delle stoviglie, o del grado di cottura della bistecca.
Così, eccoci in riga per la cara zietta. La aspettiamo composti fuori dalla porta, mentre lei ispeziona con severità lo stato di decomposizione della Vecchia. Aspettiamo parecchio. A un certo punto la maniglia gira, lei mette fuori una manina scheletrica, poi caccia fuori la sua testa a promontorio, grande quanto il resto del corpo.
Ci passa in rassegna, a noi tre.
“È tornato”, dice mia madre con un sorriso discendente.
Zia Luigia mi squadra. Lo farebbe dall’alto verso il basso, se non fosse poco più alta di me. Le fessurine lavorano dritte alla ricerca di chissà cosa.
Mio padre mi da un colpetto furtivo. Io mi avvicino alla zia e le do un bacio stinto sulla guancia. Ha un profumo di quelli che usano le vecchie: dolce e asfissiante.
“Quanti anni ha?”
“Dieci”, risponde mia madre.
Zia Luigia mi cerca i segni addosso. Sembra quasi frugarmi le tasche.
“Mh…È un po’ troppo in carne, per un ragazzino della sua età.”
Poi mi lascia perdere e si volta verso mio padre.
“Si…si…ogni tanto…”, prova a giustificarsi mio padre. Gratta nervosamente dietro l’orecchio.
“Ogni tanto non basta. Se il Signore ci proteggesse ‘ogni tanto’ staremmo freschi. Tu, piccolo, preghi con la nonna? Le fai compagnia? Le stai vicino?”
Esito. I miei fanno finta di guardare altrove.
“Da bambina adoravo la mia povera nonna. Passavo tanto tempo con lei. E quando è stata male, mi sono inginocchiata accanto al suo letto e ho pregato finchè il Signore non se l’è presa. Ma io non ho sofferto. Perché sapevo di essere stata buona, e che mia nonna mi avrebbe protetto per il resto dei miei giorni, perché le volevo bene ed ero stata buona. Se però non sei buono, nessuno ti proteggerà da lassù. Sarai sempre solo.”
Detto questo, Zia Luigia smette di considerarmi e segue i miei genitori in salotto per ciucciarsi qualche pasticcino col thè.
Stavolta la sua uscita di scena non è determinata da un’improvvisa partenza vacanziera, quanto da un colpo secco che se la porterà via un paio di mesi più tardi, con immenso sollievo di buona parte della famiglia.
Stai giocando a pallone in casa. I tuoi sono usciti. Fuori sembra che venga a piovere, tanto il cielo schiuma grigiore. A un certo punto senti il tuo nome lamentato da una voce che potrebbe tranquillamente arrivare diritta dall’Aldilà.
“Pietro – pigola la voce – Pietro…”
E Pietro sei proprio tu!
Roba da farsela sotto, credetemi. Poi ti ricordi della Vecchia. Da una parte riprendi il controllo, dall’altra ci rimani secco. Attendi immobile, preghi che non accada di nuovo. E invece rieccoci…”Pietro…”
Mediti se ignorarla, ma hai giocato a pallone fino a ora, facendo un baccano dell’inferno. Lo sa che sei in casa.
“Pietro…”
Così imbocchi il corridoio, ti avvicini piano piano, con circospezione. Forse sta delirando, e la pianterà una buona volta. Invece la Vecchia mette un “Pietro” in fila all’altro, come Pollicino con le mollichine di pane.
Sono sempre più flebili, i suoi pigolii, eppure ben udibili. Sembra attaccata tutta quanta alla fine, a peso caduto, ma vuole accertarsi lo stesso di non perdere la Strada Maestra, quella che ha percorso per ottant’anni suonati e che adesso gli appare certo più lontana e incerta e difficile da raggiungere.
Si si, la vedi voltarsi in continuazione, spaventata e illusa. La vedi, anche se non ti sei mosso dal corridoio, ben difeso dalla porta.
Non la finisce più coi suoi “Pietro” intermittenti.
Ti decidi a entrare.
È girata su un fianco, un fagotto inerme dal quale sbucano soltanto i dentoni da castoro. Respira a fatica con la bocca che rovista in giro l’aria migliore che riesce a trovare.
Quando si accorge di me, gli occhi le fanno un lieve balzello.
“Hai bisogno nonna?”
“Tesoro, porta un po’ d’acqua alla Nonna, da bravo.”
Vado in cucina, riempio un bicchiere e torno nella stanza. E’ da diverse settimane che non ci entro con i piedi ben piantati nel mezzo e devo dire che tutte quelle medicine, quegli aggeggi accatastati, il ventilatore preso dal salotto, le persiane abbassate, la rendono un posto diverso. Sembra più piccola. E viziata.
Osservo la Vecchia attaccarsi al bicchiere e non staccarsi finchè non lo svuota preciso nel gargarozzo e sulla camicia da notte.
Si rimette giù.
“Grazie.”
“Di niente – faccio – se hai bisogno sono a guardare la tivvù”.
“Aspetta tesoro…aspetta…”, e indica la sedia.
“Eh?”
Continua a indicare la sedia mentre si riprende da quella bevuta selvaggia.
“La borsa. Il portafoglio.”
Apro la borsa, estraggo il portafoglio.
“Ecco”, glielo porgo.
“Prendi, prendi. Così ti ci compri qualcosa.”
Rimango interdetto, col portafoglio penzolante fra le mani.
“No figurati, nonna, per così poco.”
“Dai, dai, prendi pure. Ti ci compri un gelato.”
“Ma no ma no, lascia fare ti ho detto”
La situazione mi piace mica per niente. Divento tutto rosso, e penso a un modo per svignarmela al più presto.
“Non ti piace il gelato? Non ti piace il gelato?_ ripete lei, e sembra che non sappia dire altro_ Quando avevo la tua età andavo pazza per il gelato. Cioccolata e pistacchio. Ah, se mi piaceva il gelato. Mi piaceva proprio. Me lo mangerei volentieri un buon gelato, se potessi.”
C’ho provato a convincerla, io i soldi non li volevo. Mi faceva impressione, ecco. Non sapevo perché. Lei però non la smetteva con quelle menate sul gelato e su quanto le piaceva.
Alla fine ho ringraziato e ho girato i tacchi con una banconota da dieci in mano. I soldi però li ho lasciati sulla cassapanca in corridoio. Son tornato a controllare un paio di volte che fossero ancora lì. Avevo paura che per qualche strano inghippo mi entrassero nelle tasche da soli.
Poi di stare a casa non c’avevo più voglia e allora me ne sono uscito. I miei si sarebbero arrabbiati, forse, ma fra poco sarebbero rientrati, mi sono detto che non sarebbe potuto accadere nulla di tremendo in quindici-venti minuti.
Il cielo stava messo proprio male. La mattina aveva piovuto e ora si spandeva dappertutto il tipico odore di cane fradicio e asfalto che si può sentire al termine di un rovescio estivo. Camminavo spedito senza curarmi delle pozze svaporate o dei palazzi che mi circondavano muti.
Da bambino avevo dei momenti in cui mi sentivo molto riflessivo, pur non avendo niente di cui rimuginare. Ero in uno di quei momenti lì.
Anche al campetto della parrocchia ero tutto strano, scattoso, non volevo che nessuno mi parlasse, mi chiedesse cosa avevo, ma se poi non lo facevano mi arrabbiavo, invece.
Alla fine è andata che io e Cicci ci siamo accapigliati di brutto, perché lui diceva di aver calciato la palla nel punto più alto di sempre, e secondo me aveva detto una gran fregnaccia. Mi pare di avergli dato del Mangiacaccole, e sono andato via.
Ero scosso sul serio. C’è mancato poco che non mi mettessi a piangere.
Sulla strada di ritorno sono passato davanti a un gelataio. Un gruppetto di gente si era assiepato fuori dal negozio e chiacchierava con una certa allegria, ma piano, quasi come si fa di notte quando sei in strada.
È stato allora che mi è tornata in mente Zia Luigia. Mi sono chiesto se potessi considerami un bambino buono. Lo avevo sempre dato per scontato, ma dopo tutto ciò che mi era accaduto durante l’estate (il mare, la Vecchia, mio fratello) mi è venuto il dubbio che forse erano disgrazie fatte su misura per punirmi.
In fondo mia nonna non aveva fatto niente di male, non era colpa sua se stava così. Al posto suo non avrei chiesto che un po’ di compagnia, prima di levarmi di torno, due o tre ghignate su quando ero giovane, da spegnermi col sorriso sulle labbra.
Giusto non andarmene solo, o con la rogna per uno dei tanti Mangiacaccole che ci sono al mondo.
Mi sono frugato in tasca e ho trovato delle monete. A Sonia nemmeno ci avevo pensato, dopo tutto l’ambaradan.
Così sono entrato e ho ordinato un bel cono cioccolato e pistacchio. Una sorta di frenesia mi aveva preso tutto quanto, ma ero tornato nuovamente di buon umore.
Volevo soltanto che la gelataia si sbrigasse a mettere il dannato gelato nel cono e portarlo a mia nonna, la mia nonnina, perché alla fin fine s’era visto che ero buono anch’io.
Casa mia non era lontana, però mi sono messo a correre lo stesso, volevo che il gelato non si squagliasse troppo.
Per mia nonna poteva essere l’ultimo gelato, non era certo il caso di rifilarle una pappetta sciolta.
Correvo piuttosto veloce, devo dire, e c’è mancato poco che non lo rovesciassi, il cono, una volta per via di una buca e un’altra per colpa di un barboncino nevrotico che m’aveva fatto prendere un colpo col suo abbaiare ottuso.
Nonostante le difficoltà, ero riuscito a portare il cono a destinazione.
Leggermente sciolto, ok, tuttavia presentabile e di una consistenza ideale per le persone anziane.
Una volta rientrato in casa, mi ero fiondato dritto per il corridoio, puntando verso la stanza della nonna con il cono proteso verso il soffitto in stile fiaccola olimpionica.
I miei dovevano essere tornati, perché la porta era socchiusa e da lì dietro sentivo provenire un brusio di voci composito.
Stavo per entrare, quando mia madre si è affacciata e ha fatto due occhi grossi così.
“Tesoro…sei tornato…come va?”
Si è messa davanti alla soglia. Volevo schivarla, ma lei stava lì impalata, come un passaggio a livello.
Poi è arrivata la zaffata di disinfettante e piscio, ho visto il dottore sbucare da dietro le spalle di mia madre e non è servito altro.
“Tesoro perché non vai a guardare la televisione in salotto? Ti chiamo quando è pronta la cena”
Non le ho dato il tempo di aggiungere altro. Sono corso via.
Fuori dalla porta e fuori dal palazzo, in strada. E poi ancora oltre. Se fosse esistito un limite al mondo, lo avrei superato di slancio.
Non ne andava una per il verso giusto, c’era poco da fare. Avrei potuto urlare, piangere, prendere a pugni i cassonetti, ma niente avrebbe cambiato le cose.
Restava altro che correre. A perdifiato. A vedere se un po’ di cattiva sorte si fosse dispersa per strada.
Manco a farlo apposta, era pure iniziato a diluviare. Cascavano questi goccioloni mutanti, grossi come chicchi d’uva, che ti piombavano in testa dopo aver preso la rincorsa da sopra.
Mi sono riparato nell’androne di un condominio. Avevo il cono ancora in mano. Il gelato sciolto grondava gocce colorate fra le dita, così come la pioggia infilava precisa il colletto della t-shirt partendo dalla nuca.
Sono rimasto lì per parecchio, con il cono vuoto, ad ascoltare il suono della pioggia, per così dire.