L’uomo in giacca grigia chiude l’ombrello, cercando di non bagnarsi le scarpe e di non finire sotto la cascata di acqua sporca che scende dalla tettoia della fermata, mentre sale in fretta sull’autobus. Si guarda attorno, vede i pendolari rintanati negli angoli come cani bagnati e lo sente subito: l’odore del lunedì mattina. Non piove solo il lunedì, ovviamente, ma l’odore di umido e di sedili ammuffiti che l’autobus emana nei lunedì di pioggia è inconfondibile. Fa venir voglia di scendere, correre al ponte più vicino e buttarsi di sotto.
Le persone sull’autobus sono le solite, solo più grigie, più taciturne e coi visi più stropicciati. Trova due posti liberi e si siede su quello accanto al finestrino.
Troppa fortuna – pensa, mentre guarda le case scorrere dietro il vetro rigato dalla pioggia – sicuramente arriverà qualche seccatura.

E la seccatura sale alla fermata successiva, nella forma di un uomo sui trent’anni portati malissimo, sotto un cappotto verde acido che gli pende storto dalle spalle. Lo sconosciuto si ferma a guardarlo e poi, senza battere ciglio, indica il posto accanto al suo e chiede:
“È libero?”
“No, c’è il mio amico invisibile.”
“Facevo per chiedere”, dice lo sconosciuto, e si siede lo stesso.

L’uomo in giacca osserva il suo cappotto sgualcito, il viso stanco e la cascata di capelli sporchi, e si sente un po’ in colpa. Se lo sconosciuto l’avesse guardato fisso da dietro un impermeabile della nuova collezione autunno-inverno di Armani forse la battuta se la sarebbe risparmiata.
Guarda il finestrino sporco rigato dalla pioggia e cerca di ricordare tutti gli impegni della giornata. C’è la riunione con quelli dell’Italmec, il bollettino del gas da pagare, l’invito alla rimpatriata coi vecchi compagni di classe a cui rispondere e il nuovo ripiano cottura da montare. Ci sono i tirocinanti nuovi a cui spiegare il lavoro, e c’è la faida fra Rossi delle risorse umane e la Squillaci della reception in cui evitare di venir coinvolti. Se nella pausa pranzo si sbriga ad andare in posta può farcela a pagare il bollettino, alla mail dei compagni di scuola può rispondere in cinque minuti. Anche se connettersi agli account privati dal lavoro gli mette sempre un po’ d’ansia, soprattutto da quando gira voce che la direzione abbia fatto installare sui computer un programma di sorveglianza. È illegale, ma pare che due tirocinanti siano già stati mandati via perché si connettevano a Facebook dalle loro postazioni. Se riesce a uscire in orario, prima di tornare a casa può andare a fare la spesa. Si fruga nelle tasche per cercare la lista che gli ha dato sua moglie.

C’è qualcosa che gli sfugge, ma non riesce a capire cosa.
Lo sconosciuto accanto a lui lo distrae. Non dice e non fa nulla di particolare, ma ha un’aria tesa e agitata che non promette niente di buono. L’uomo in giacca lo osserva, cercando di capire cosa lo renda così inquietante e si accorge di un movimento impercettibile sotto lo zigomo, un muscolo che guizza di tanto in tanto sotto la pelle della guancia. Sta digrignando i denti.
Si volta dall’altra parte e conta le fermate che mancano. Lo sconosciuto, come se gli avesse letto nel pensiero, sorride e dice:
“Non si preoccupi, non manca molto.”
L’uomo in giacca non risponde. Aspetta, con un misto di ansia e rassegnazione, mentre lo sconosciuto continua:
“Mia moglie, voglio dire la mia ex moglie, ha detto che non parlo mai. Che non dico mai le cose finché non è troppo tardi. Ci crederebbe?”, dice voltandosi verso di lui con un sorriso.
L’uomo in giacca grigia non dice nulla.
“Ma io ci provo a parlare con la gente. Per la verità ci ho sempre provato, ma poi, vede, la gente mi guarda come Lei e che cosa dovrei pensare io, se ogni volta che provo a parlare con qualcuno, quello mi guarda così, come se gli stessi puntando un coltello alla gola o come se gli stessi infilando una mano in tasca o come se, per dire, gli stessi sciorinando una sfilza di insulti in aramaico. Glielo dico io, uno dopo un po’ smette di parlare con la gente, mi creda. E tanto fa lo stesso, no? Lei magari, continuando a fissarmi così di profilo, come stava facendo due secondi fa, ci avrebbe guadagnato più che da questa conversazione e ci saremmo risparmiati un bel po’ di fatica e di disagio entrambi, non crede? Riesce a seguirmi?”, chiede, sempre sorridendo, mentre l’uomo in giacca ha smesso di guardarlo e ha smesso anche di respirare.
“E insomma, mia moglie diceva che le cose sono andate come sono andate perché io non parlavo e non perché, per dire, ero imbottito di farmaci e in procinto di buttarmi sotto un treno. Che poi a volte provavo a parlarci, ma lei mi guardava con quello sguardo, con quello sguardo che Lei adesso sta rivolgendo al finestrino, uno sguardo come se, per l’appunto, le stessi puntando contro un coltello. Ho pensato a volte che farebbe lo stesso se parlassi davvero alla gente puntandole contro un coltello. Non è che non ce l’abbia, ne ho uno qua – dice toccando una borsa di pelle logora che si porta dietro – ma non si preoccupi – continua, con un sorriso innocente – non mi serve per far paura a quelli come Lei.”

Fuori diluvia e l’uomo in giacca grigia cerca disperatamente di capire dove sia l’autobus e quante fermate manchino. Fruga di nuovo le tasche dei pantaloni alla ricerca della lista della spesa che gli ha dato la moglie, ma deve averla lasciata a casa. Allora cerca di ricordarla a memoria. Pane, schiacciata alle olive, aceto, latte, tisana di fiori di tiglio, surgelati…
Lo sconosciuto prosegue: “Però vede, sto perdendo il filo. Quello che volevo dire, è che fa lo stesso. Parlare, non parlare, vestirsi in un certo modo o meno, una volta che il mondo ti ha marchiato, non ne esci. Ti rimane solo la soddisfazione di scambiare di tanto in tanto due parole con della gente simpatica. Come Lei, per esempio. La sua aria infelice e supponente è molto affascinante, lasci che glielo dica”.
L’uomo in giacca si contorce sul sedile e guarda per l’ennesima volta l’orologio.
“E non pensi che sono sempre stato così. Così brutto e malvestito, intendo. Non me la passavo per niente male qualche anno fa. Non è da tutti avviare un’azienda e mettere su famiglia a vent’anni, con una casa propria e tutto il resto. Ti sembra di avere il mondo ai piedi. Ma poi cominci a stare male, che vuole, lo stress del lavoro, della paternità, del sistemarsi così giovani. La casa nuova e tutte queste cose. E vai da un medico che ti prescrive dei farmaci. E tu li prendi e stai meglio, ti passa la paura, ti passa l’insonnia, però improvvisamente cominci ad avere questa tristezza infinita addosso e quando guardi fuori il cielo grigio di ottobre ti viene una voglia insopportabile di aprire la finestra e buttarti di sotto o di andare in cucina e cacciarti un coltello in pancia. Sa, come fanno i giapponesi per ammazzarsi, un taglio in verticale e uno in orizzontale, zak-zak!, e tutto è finito. E allora il medico ti prescrive altri farmaci, e tu li prendi, e a volte non senti niente, a volte ti prende un terrore indescrivibile e altre volte vorresti solo dormire, dormire, dormire per sempre, e gli amici ti portano fuori e ti offrono la cena, e ti offrono le bevute e ti offrono roba che non sai cosa sia, ma pensi che se devi stare così tanto vale provare tutto. Sa, il problema della droga è che non sai mai come ti prende, a volte sei felice e stai meravigliosamente e vorresti abbracciare tutto il mondo, altre volte ti sale la psicosi nera e vorresti solo morire, purché tutto finisca il più in fretta possibile. E poi, improvvisamente, succede un’inezia – lo sconosciuto esita, la sua espressione si rabbuia – un gesto, una parola di troppo – esita ancora, poi inizia a ridacchiare, prima piano, poi sempre più forte – che manda definitivamente in frantumi la tua vita e tu e la tua vita, da un giorno all’altro, bum!, non esistete più!”

L’uomo in giacca fissa il finestrino e recita a mente i prodotti sulla lista. Pane, schiacciata alle olive, aceto, latte, tisana di fiori di tiglio, surgelati, aranciata senza zucchero, carta igienica, fazzoletti… Mancano le ultime due cose, che proprio non riesce a ricordare. Lo sconosciuto nel frattempo ha tirato fuori dalla borsa una bottiglia di vodka economica.
La apre con un gesto deciso e beve due sorsi prima di continuare il suo discorso: “Insomma, vuole sapere qual è la soluzione? Voglio dire, a parte mollare tutto e infischiarsene? Ecco, la soluzione non c’è. Per me la soluzione è stata questa. – dice alzando la bottiglia – Si porta via la paura e la disperazione e ti riconcilia con te stesso. Ti livella l’anima, in un certo senso. Ma è chiaro che non può funzionare con tutti. Che so, se uno ha la cirrosi o è diabetico, non può attaccarsi così alla bottiglia, che senso avrebbe? Al massimo può imbottirsi di Lexotan. Perché vedi, c’è sempre una soluzione per sopravvivere. È la soluzione per uscirne, che non esiste, una volta che sei entrato nel vortice”.

Pane, schiacciata alle olive, aceto, latte, tisana di fiori di tiglio, surgelati, aranciata senza zucchero, carta igienica, fazzoletti…
“Perché tu credi di essere diverso da me, migliore, e pensi che non potrai mai diventare come me. Ed è qui che ti sbagli. Non ci vuole niente per diventare come me. Siamo tutti capaci di sopportare un’infinità di cose, ma ce n’è sempre una in grado di distruggerci. E invece di capire cos’è, prima che la vita decida da un giorno all’altro di buttarcela in faccia e prenderci a sprangate sulle nostre ferite aperte, perdiamo tempo a inseguire cazzate. Sono sicuro che non sai qual è la cosa in grado di distruggerti in questo momento. Quindi spera di non trovartela davanti prima ancora che tu abbia capito cosa vuoi mangiare a pranzo. E nel dubbio, vivi nel frattempo. Buona giornata.”
L’autobus inchioda e lo sconosciuto si alza barcollando, rivolge un ultimo sorriso all’uomo in giacca e sguscia fuori dalle porte un istante prima che si richiudano. L’uomo in giacca grigia riprende a respirare. Si guarda attorno sul mezzo ormai vuoto e vede che ha mancato la sua fermata. Cerca di ricordare a cosa stava pensando, cosa deve fare oggi al lavoro, con quale linea potrebbe tornare indietro, ma ha la testa vuota. Scende alla fermata successiva, cerca di calcolare il tempo che gli ci vorrà per tornare indietro e pensa che forse, dato che arriverà comunque in ritardo, potrebbe approfittarne per passare dalle poste. Per la spesa non sa cosa fare, è stanco e vorrebbe dire alla moglie di farla lei, ma ha paura della sua reazione. Con la coda dell’occhio, mentre sta per attraversare a caso sotto la pioggia, riesce a vedere la moto che sfreccia a tutta velocità sull’asfalto bagnato, si ferma, e ricorda finalmente i documenti da firmare e gli ultimi due punti sulla lista della spesa, melanzane e noci.
Ma non si accorge del gruppo di individui loschi che lo osservano dall’ingresso di un vicolo, della pioggia che gli ha inzuppato la camicia e del freddo che gli sta entrando nei polmoni, così come non si è accorto del sorriso strano che ha sua moglie, certi giorni, quando torna dal lavoro, dei vuoti di memoria di sua madre e del cuore che sempre più spesso accelera senza motivo, salta un colpo e accelera ancora.
Continua a camminare sotto la pioggia, imperterrito, mentre guarda l’orologio e calcola il tempo che perderà passando dalle poste.

Testo: Margareta Nemo
Immagine: Marta Sorte
Colore: Bernardo Anichini

 

 

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