Perché non era scritto sul programma? Il pubblico voleva sapere quale razza di circostanza aveva portato a non specificare sul programma che la proiezione di Bidù il coniglietto era riservata esclusivamente a coloro che si erano prenotati sul sito dell’associazione.
E non era sufficiente accampare blande giustificazioni (“c’è stato un disguido”) o mea culpa all’acqua di rose (“ci scusiamo”). Il pubblico voleva proprio sapere per quale dannatissima ragione nessuno si era degnato di avvisare circa l’obbligo di prenotazione per la visione di Bidù il coniglietto. Se l’unica alternativa era restarsene fuori dalla sala a bocca asciutta, orfani di Bidù il coniglietto – beh – allora tanto valeva sporgere reclamo, far saltare qualche testa, legare il colpevole (o chi per lui) a un cavallo imbizzarrito, e trascinarlo per qualche chilometro di asfalto scorticante.
L’aspetto curioso della vicenda era che, a separare noi tre – io, il responsabile di sala e Luiggi – dal resto della folla, c’era soltanto un esile cartellino plastificato che penzolava dal nostro collo. Un cartellino con nome e cognome stampati, una foto scattata con grandangolare severità dalla webcam, e la discriminatoria scritta “STAFF”.
STAFF. A pronunciarla, con quelle due effe così piene (S-T-A-FFFF), fa pensare a un’immersione sola andata nei mari del nord. Pinne, costume e blocco di cemento ben fissato alle caviglie. STAFFFFF… e buonanotte al secchio.

Nonostante tutto, ci tenevo veramente a far passare il concetto Io: uno di voi.
Il mattino precedente, infatti, la direttrice del festival “Quattrozampe: i nostri amici più cari” ci aveva radunati in una stanza e, dopo averci accuratamente passati in rassegna, aveva sbuffato un breve discorsetto di ringraziamento (“Grazie per essere blabla”), informazione (“…il festival Quattrozampe, giunto alla sua terza edizione blabla”) e formazione (“…una sola regola: il cliente ha sempre ragione, quindi siate garbati”). Subito dopo era giunto il momento della firma dei contratti, qualcosa di molto simile a un mercatino della Caritas per persone bisognose (“Ecco, prova se ti va questo maglione… firma qui… non stare a leggere, ho una riunione fra cinque minuti”).
Insomma, se l’unica cosa che mi era stata insegnata era la cortesia, allora non potevo far altro che scusarmi con trasporto, alzare educatamente le spalle, scuotere dolcemente la testa, ascoltare le lamentele degli spettatori, subire il pubblico ludibrio con una buona dose di entusiasmo.
Perché, a dire il vero, me lo domandavo pure io il motivo per il quale la prenotazione non fosse segnalata da nessuna parte. Avevo persino chiesto spiegazioni al mio referente, un ometto distratto e prossimo ai quaranta, responsabile di sala per quei tre giorni di festival, ma in realtà contabile dell’associazione organizzatrice.
Lui aveva fatto una strana smorfia – simile a quella di chi entra in un supermercato e realizza di aver scordato cosa comprare – e poi aveva detto: “Tutti gli eventi sono su prenotazione”.
“No – avevo ribattuto io – veramente Bidù è l’unico evento su prenotazione, il resto è a ingresso libero. Se mi chiedono perché non è segnalato da nessuna parte, cosa rispondo?”
Altra smorfia: “E tu digli che tutti gli eventi sono su prenotazione. Vado a prendere un caffè”, e si era dileguato.

Qualche ora prima mi ero svegliato nel letto di F con una sgradevole fitta di preoccupazione che mi pizzicava lo stomaco. Lei dormiva emettendo uno strano soffio irregolare. Le avevo sfiorato il braccio e con uno scossone nervoso si era destata di colpo.
“Non voglio andare”, le avevo detto con tono supplichevole, come se la decisione spettasse a lei. Avvertivo un pessimo presentimento, di sangue e sventura.
Per tutta la notte non avevo fatto altro che sognare peluche giganti che tentavano di sodomizzarmi. Se ricordavo bene, non tentavano e basta, ci riuscivano piuttosto bene, e anche ripetutamente, a turno, e poi tutti insieme.

F si era stirata e mi aveva guardato dritto negli occhi: “Coraggio, sono solo tre giorni, passeranno in fretta”
“Ma la prenotazione – avevo farfugliato – non hanno scritto della prenotazione…”
“Non lavori da tre mesi, hai bisogno di farti qualche soldo. In questo momento non hai altre alternative.”
“Cento miseri euro per dodici ore al giorno. Non mi va… non mi va…”, mugugnavo, ma lei era già scivolata fuori dal letto e dopo poco avevo sentito lo scroscio della doccia.
Così mi ero vestito, avevo fatto colazione e mi ero diretto verso il cinema, che avevo trovato chiuso. Davanti al bandone abbassato c’era Luiggi, un altro ragazzo che si era offerto di prestare servizio al festival. Parlammo di calcio, della mimica facciale di Sara Tommasi e, immancabilmente, di lavoro.
“Finito questo me ne vado all’estero”, disse.
“Ah. E dove?”
“All’estero, lì sì che c’è lavoro.”
Nessuno dei due aggiunse altro e per il resto del tempo rimanemmo in silenzio a fumare le nostre sigarette.

La prima proiezione – Buffe Canaglie, una commedia su una pensione per animali parlanti – filò liscia. Qualche passante entrò per chiedere di Bidù, ma il responsabile non nominò la prenotazione e gli spettatori se ne andarono sereni. Ogni tanto presentavo le mie preoccupazioni a Luiggi, ma per non fare la figura del paranoico ci detti presto un taglio.
Continuava a ronzarmi in testa la famosa scena di The shining in cui un’ondata di sangue fiotta copiosa dall’ascensore e invade il corridoio dell’albergo.
Al ventesimo minuto di Buffe Canaglie, entrò uno stagista per consegnare il foglio delle prenotazioni: esaurito.

Si presentarono quasi in contemporanea, circa mezz’ora prima dell’inizio del film. Marciavano compatti, con passo marziale, determinati a rendere onore a Bidù il coniglietto. Entrarono nel cinema a gruppetti, col medesimo sorriso pronto a spegnersi all’arrivo della cattiva notizia. Al loro broncio ribattevamo con un sorrisetto che comunicava un imbarazzato quanto garbato rammarico.
Eh vabbè, è andata così, sarà per la prossima, dicevamo con le spalle.
E invece no! Loro rimanevano lì, solidi nelle loro spalle ben distese. Le spalle di chi ha sempre ragione e una gran voglia di piantarsi di fronte a te finchè non gli spiegherai perché diavolo non è stato comunicato l’obbligo di prenotazione.
“Mi lasci dire che il servizio è veramente scadente”, inveivano gli spettatori.
Lo ripetevano così spesso che a un certo punto mi ero quasi convinto a offrirgli un giro di amari, a parziale titolo di rimborso.
Il servizio era scadente, non si poteva negare. Ma non riuscivo a smettere di domandarmi cosa avesse di tanto speciale questo Bidù. I bambini piangevano e si asciugavano il moccio sulla manica, gli adulti erano dapprima sconsolati, poi infastiditi per il torto, infine furibondi.
Iniziarono a protestare vivacemente, a urlare, insultare, addirittura spingere. Il responsabile era andato, diceva solo “Lo so, lo so. Qualcuno dovrebbe fare qualcosa”. Notai che al collo non aveva più il pass.
La folla cominciò a premere, utilizzando come ariete un cartonato di Bidù. Nella confusione generale vidi un signore che assestava una sberla a Luiggi, che per la sorpresa cadde a terra. I rinforzi inviati dall’organizzazione erano insufficienti e impreparati alla scena che si parava davanti ai loro occhi: una falange di braccia e gambe che schiacciava e sudava e sputava. E all’improvviso si materializzò lui.

Nessuno ci aveva avvisato della presenza di un pupazzo a grandezza reale di Bidù, ma in quel momento non importava granché. Ciò che contava veramente, era che all’ora prestabilita, il tizio pagato per fare le foto con grandi e piccini si presentò al cinema mascherato da coniglio, come se nulla fosse. Nel giro di poco, uomini, donne e bambini allentarono la pressione sul cordone dei volontari e si avventarono in contemporanea sul povero Bidù. Stritolato dalla morsa affettuosa della folla, il coniglio subiva il suo martirio con un sorriso stoico, impassibile.
“Bidù, Bidù”, urlavano le mamme, offrendo i figli al tocco del pupazzo.
Ma Bidù non poteva sentirli. Era accerchiato, immobilizzato, soffocato. Ben presto alcuni spettatori iniziarono a strappare pezzi di orecchie e faccia, per portare a casa un cimelio. Sul cinema nevicava una granaglia di gommapiuma e pelo sintetico.
Ne approfittammo per farci largo fra la folla e uscire, scappando ciascuno in una direzione diversa. Non rividi mai più i miei colleghi.
Continuai a correre per un paio di isolati, fino a quando non mi convinsi di essere finalmente fuori pericolo. Le gocce di sudore scendevano sul collo e si iniettavano del freddo invernale, gelando gola e nuca.
Ritrovai regolarità nel respiro e mi preoccupai soltanto di camminare fino a casa di F.
Nella piazza principale della città, un capannello di persone si era radunato attorno a due artisti di strada indiani. Erano vestiti da fachiri, uno seduto per terra a gambe incrociate, l’altro sopra uno sgabello minuscolo, tenuto in aria con un bastone dal suo compare. Entrambi erano raccolti in meditazione e non muovevano un muscolo.
Il pubblico guardava estasiato, ognuno sussurrando nell’orecchio dell’altro: “Ma come farà? Come farà a reggerlo con una sola mano?”
Rimasi per un po’ assieme a loro, a chiedermi come diavolo facessero a stare in quella posizione assurda senza cadere.
Nel momento in cui mi resi conto che non esiste alcun tipo di principio logico secondo il quale un disgraziato possa rimanere in equilibrio nel vuoto, ripresi a camminare.
L’unica cosa che desideravo in quel momento era mettermi a letto e fare una bella dormita senza sogni. Non sognare. Non sognare mai più.

 
Testo: Martin Hofer
Immagine: Bernardo Anichini

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