la vergogna

A tredici anni scoprii cosa volessero dire la paura e l’angoscia. Le telefonate iniziarono il dieci di giugno dell’estate più calda del nuovo millennio. Era l’una di notte. Mia madre dormiva, mio padre dormiva, mio fratello sognava e per quel suo sognare si svegliava al mattino già stanco.
Tre squilli nel vasto silenzio vegliato dal russare del padre. Quattro, cinque.
Pochi secondi per capire se il suono arriva dai sogni o dai comodini, quello accanto alla testa di mia madre e quello accanto alla mia, il braccio sotto il cuscino.
A quest’ora si riceve il male nella cornetta, notizie che non vorresti mai avere. Ripassi in fretta nomi dei famigliari, primo secondo terzo grado di parentela, stato di salute di ognuno ed eventuali debolezze di cuore. In famiglia, dalla parte del padre: ipertensione. Da mia madre: fattore C anticoagulante al limite minimo e tre casi di alluce valgo.

Invece mio padre risponde: “Pronto” con una voce impastata, e non capiamo io e mio fratello, dalla nostra camera, se sta accadendo davvero o sta parlando nel sonno.
“Chi?”, dice nel buio schiarendosi la voce.
Poi mi chiama e fatico a riconoscere il mio nome appena lo pronuncia.
“È per te. Il videonoleggio, non hai restituito il dvd, dice.”
Mi passa la cornetta con gli occhi allagati da uno sbadiglio.
Una voce camuffata, come quelle dei testimoni di un misfatto alla televisione per non farsi riconoscere. Una voce piccola, voce bambina, voce di trasognamento e visione in un tendere l’orecchio sott’acqua. Il letto della madre e del padre è una piscina. Non odora di cloro, ma di fiato e intimità notturne.
Poi la voce articola parole indistinte, una risata meschina, “Frocio” e butta giù.
Era me che stava cercando quella voce. Ho avuto paura, sono corso in bagno, ero pieno di merda fino al collo, che è la forma che ha a volte il terrore.
Ho tirato lo sciacquone e sono tornato a letto, “Domani riporto il dvd”, al padre, ma già aveva ripreso a russare.

Mi ci immergo a capofitto in quel bagliore di giovinezza, in quegli accadimenti che negli anni sono andati rimpicciolendosi per lo stesso principio che ingigantisce a dismisura l’ombra di un cucciolo e lo fa apparire un mostro – il segreto è sempre stato stanare il cucciolo, o spegnere la luce – mi ci butto come dando vita al ragazzino che sono stato rievocandolo da un corpo già adulto, un esorcismo al contrario e senza morti reali né vivi autentici, in cui i verbi si coniugano da soli e impongono il presente alla memoria. Ho tredici anni ora:
alzo la cornetta del telefono sul mio comodino per tenere occupata la linea, perché temo che richiamino ancora. Chissà perché ho scritto “richiamino”, come se il male fosse sempre plurale, una roba da branco
stringo al petto il telefono, sul pigiama, la casa ripiomba nel silenzio ma io lo sento quel ritmo nuovo che prende il mio cuore cantandoci sopra, tuuu-tuuu-tuuu, poi sempre più veloce, tu-tu-tu-tu-tu-tu-tu, per intere ore
la quiete si rompe in quel momento, e io prendo a vivere giorni interi come dentro un’ignota minaccia
mi sono svegliato col primo sole, forse non ho dormito; solo, sono passato da uno stato di semi-coscienza o incoscienza vigile, una solitudine larga in un vapore d’alba – e pure c’è una tale pace in ogni inizio, in ogni risveglio, la pace di una siepe potata – come passando da piccolo i palmi spalancati su un verde muro di foglie, le mani simili a cesoie, rubando i fiori come un ladro, col pretesto assurdo di non lasciarli morire
subito ho pensato a un monaciello napoletano, un dispetto da un regno vicino. E me lo sono figurato, il monaciello, all’altro capo del telefono la notte appena trascorsa, col suo saio nero e fibbie d’argento sulle scarpe, piccolo e deforme come nella leggenda – e questa era l’unica leggenda tramandata dalla nonna e non da lei creata, e da piccoli si divertiva malignamente con certi scherzi a me e al fratello dando la colpa a quell’ombra di nano, “È stato il munaciello!” se si nascondeva nell’armadio per uscirne in un grand’urlo terrorizzandoci nell’oscurità della stanza, fremendo impazzita simile a un uccello che soffochi, volandosene poi fuori e scomparendo nella sua tana di acrilici e tele e quadri firmati Fabrizia.

Poi, proprio come accade talvolta con le persone, un giorno smisero di telefonare. Perché l’avevano fatto altre volte: nessuno la mattina commentava. Fingevano tutti.
“Dormito bene?”
“Passami il burro.”
“Non esagerare, fa male.”
“Nesquik o menta?”
Si può andare avanti per anni con delle bugie anche enormi, e vivere bene lo stesso. Finisci per credere che siano delle verità. O semplicemente il tempo passa, giorni interi e tanti giorni un anno, e dimentichi. Un’amnesia felice.

Testo Giorgio Ghiotti
Illustrazione Marta Bianchi

marta bianchi

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