Incantato, ma no, ma che incantato, perso, proprio perso, straperso nella ricerca per immagini dello stambecco, animale che scientificamente, stando alla parte finale della celebre e immutata nomenclatura fondata da Linneo nel XVIII secolo, è chiamato Capra Ibex – ovvero “capra alpina”.
Difatti, la parola “stambecco” altro non è che un calco dal tedesco “steinbock”, che vuol dire proprio “capra delle rocce”, visto che questo animale vive in altura, arrampicandosi sulle montagne.
Lo stambecco: che corna. Che corna, dio mio. Corna arcuate, che sembrano ritorte a spirale lungo il loro asse longitudinale; corna a forma di scimitarra, inscalfibili, puntute; corna pericolose, corna diaboliche.

Sono corna sproporzionate per animali dall’aspetto tutto sommato mite, davvero simili a capre domestiche, semmai dal pelo più duro e spesso, forse dalla muscolatura più tonica, e sì, anche maggiore altezza al garrese; ma conta poco, conta poco perché quelle corna, scure di pietra, geometriche escrescenze rocciose, sono armi primitive e tecnicamente perfette, e gigantesche, cinque volte più grandi e almeno dieci più pesanti del piccolo cranio che le sopporta. Sono corna che in alcuni esemplari di Capra Ibex arrivano a misurare più di due metri e mezzo di lunghezza, per un peso massimo di dieci chili ciascuna.

La foto di uno stambecco immortalato in cima a una sperduta altura del Kazakistan, cima che un sito riporta con il nome di “Picco del buio perpetuo” – traduco dall’inglese, a sua volta una traduzione di un dialetto kazako della suddetta area – ritrae la bestia dal pelo scuro, nero, ma uno strano tipo di nero, simile a quel nuovo Vantablack, cioè quel tipo di nero recentemente ricreato in laboratorio e che è in grado di catturare i fotoni, quindi la luce, senza farla rimbalzare; non so come faccia, e nemmeno lo riesco a immaginare, fatto sta che quel Vantablack cattura e fa sparire dalla vista i riflessi luminosi; e ogni oggetto avvolto nel Vantablack appare come un perfetto buco nero bidimensionale, diventa un oggetto irreale, privo di ombre e sfumature. Il pelo dello stambecco del Picco del buio perpetuo sembra, e sottolineo sembra, perché non è proprio la stessa cosa, dacché la luce in parte è riflessa e ne esalta anzi le forme muscolari, insomma, il pelo di questo stambecco sembra proprio di un diabolico Vantablack.
La bestia si staglia a malapena lungo la ripidissima parete scura sulla quale è arroccata, con un fianco totalmente schiacciato su di essa, gli zoccoli biforcuti delle zampe raccolti in una sottilissima striscia rocciosa che sporge. La scena è calata in una sorta di crepuscolo violaceo e turchese, e se non la si guarda con la dovuta attenzione, le forme, lo stambecco le rocce il crinale il cielo, si confondono in una macchia scura e compatta, i colori si mischiano azzerandosi, quasi a diventare un brutto disegno astratto: dei nuvoloni densi e oscuri, una tavolozza priva di contorni, e men che meno di significato.
Ma ricalibrata l’attenzione, la scena riprende subito i suoi veri connotati. E lo sguardo – o almeno il mio – corre immediatamente a puntare loro: quelle due corna bislunghe, interminabili, micidiali, perfette di un’armonia minacciosa; due archi scanditi dagli spessi anelli che ne segnano l’età, più lunghi dell’intero corpo dello stambecco, il cui volto, il cui volto?, il cui muso è rivolto verso l’obiettivo della camera – in poche parole, lo stambecco ci guarda. Mi guarda.
Lo stambecco è in silenzio.
Lo stambecco è immobile, volevo dire. (Ci sto riversando sopra un po’ troppi significati, troppe proiezioni antropomorfiche, me ne accorgo; è solo una foto sullo schermo di un portatile, ma pare così vivida.)

Ora, dopo essermi informato su questa particolare sottospecie di Capra Ibex che vive solo in Kazakistan, o meglio, solo nei pressi del Picco del buio perpetuo, che è una cima minore, e nascosta, delle Montagne celesti kazake, scoprendo per di più che è lo stambecco dal colore più scuro e dalle corna più lunghe e pesanti, nonché più longeva (vivono per oltre sessant’anni, a fronte dei venti della Capra Ibex comune), sono tornato a fissare il muso, ma no, ma che muso, quello è proprio un volto, lo è, sono tornato a fissare il volto dello stambecco arroccato sulla parete del Picco del buio perpetuo. Dopo ho zoomato. Che occhi. Dio mio, che occhi. Occhi neri e lucidi, che riflettevano forse la luce chiara di un faretto puntato verso di loro, per scattare la foto. Che occhi. Privi di sclera, come tutti gli stambecchi, ma senza stacco tra pupilla e iride, come invece è riscontrabile in tutte le altre sottospecie di stambecchi. Due biglie nere e lucenti, quegli occhi. Due occhi muti e diabolici. Dello stesso peso delle gigantesche corna. Due occhi di pietra nera, levigata e riflettente. Dio mio, che animale.

Ne parlo con D., al bar sotto casa. Gli dico, per prima cosa, di come senza alcun motivo chiaro, ma così, proprio dal nulla, a un certo punto mi si è profilata la silhouette di uno stambecco, mentre stavo pensando davvero a tutt’altro, giuro, e questa apparizione sagomata e repentina mi fa dire: “che bell’animale, lo stambecco. Fammelo cercare su Google Immagini”, e qui, D. sbadiglia.
Lo fa spesso, mentre gli parlo. Sbadiglia e poi ordina un caffè al ragazzo dietro al bancone. Subito dopo mi guarda, e a essere sincero mi pare attento, mi pare stia prestando attenzione. Quindi continuo a parlargli.
Sfortuna, nessuno dei due ha la connessione disponibile; così non sono riuscito a mostrargli la foto dello stambecco, e nemmeno a fargli vedere il sito che la ospita, e per giunta non ho potuto dar prova di nulla quando D. mi ha “fatto notare”, in modo un po’ sfacciato, a esser sinceri, che lo stambecco o Capra Ibex è un animale che vive solo entro l’arco alpino, e che è impossibile e inaudita una famiglia kazaka di questa specie, per giunta dalle corna che superano i due metri e mezzo di lunghezza e i dieci chili di peso ciascuna; senza contare che un nero del genere, “tipo pantablack”, mi ha canzonato D., in natura è impossibile: avrò visto una foto pesantemente ritoccata con Photoshop.
Tutte queste cose, D. me le dice sorridendo, ma con un’aria vagamente annoiata, la voce stanca, quasi una nenia lontana, dolce, però disciplinata. Le palpebre gli sono pesanti sui suoi piccoli occhi azzurri. Finisce il caffe è si passa una mano tra i suoi piccoli riccioli biondi, che scattano come molle non appena la sua mano passa oltre, andando infine a stringere il bicchiere d’acqua.
Tornato a casa, verso le sette di sera, mi faccio una doccia. Al buio. Lo faccio sempre, quando voglio riflettere un po’. Mi faccio questa doccia al buio e ripenso allo stambecco diabolico del Picco del buio perpetuo.
Uscito dal box doccia, allungo il braccio a colpo sicuro per afferrare l’accappatoio che so essere appeso lì vicino. Ma vado a vuoto. Rimango in piedi. Ho gli occhi aperti, ma non vedo nulla. Tutto nero. Un breve scatto metallico arriva dall’alto, da sopra la porta, che è sormontata da un piccolo scaldabagno. Lo scatto metallico precede l’accensione di una piccola luce rossa, che si illumina quando lo scaldabagno è acceso e attivo. È una piccola luce segnaletica, che si accende da sola ogni quarto d’ora. In circostanze normali, nemmeno si nota. Ma ora è buio totale, è nero denso.

La piccola luce rossa si accende. Sferza obliqua, un taglio color rubino, ma opaco, sul mio viso; sulle mie braccia. Sulle mie mani. Le vedo riflesse, davanti a me, nello specchio. Un rosso opaco e piatto. Alzo lo sguardo, ma istintivamente con una rigida cautela, i muscoli del collo pesanti e tesi, una forza, una pressione, una certa gravità mi trattiene, cerca di rimandare un esatto momento per il quale credo sia ancora presto.

Mi viene da pensare a D., a una certa frase che ha detto, ma no, non alla frase, la frase è nulla, mi è rimasto sgradevolmente impresso il modo, il modo in cui l’ha detta: “E allora?, oh!, qual è il punto?”.
Ha pronunciato la domanda, be’, domanda, diciamo pure il rimprovero, ha pronunciato questo rimprovero senza guardarmi, perché in effetti stava guardando il ragazzo dietro al bancone e, contemporaneamente al rimprovero, su per giù nel momento in cui ha detto la parola “punto”, gli ha fatto, al ragazzo, il gesto di un bicchiere, di un bicchiere d’acqua, e subito dopo l’occhiolino.
In quell’istante ho pensato che fra me e D., in quel momento ma forse anche in generale, la distanza fosse incolmabile, come se ci trovassimo in due luoghi differenti eppure minimamente collegati, non so, come se entrambi stessimo sullo stesso meridiano, ma non sullo stesso parallelo. E poi, da quando l’ho sentito pronunciare con sufficienza arco alpino, cioè quando mi ha spiegato che è lì e soltanto lì che gli stambecchi vivono, non so, me lo immagino, oltre che lontano da me, lontano dal terreno, come sospeso fra una cima alpina e un nembo canuto e denso, sospeso e regale, coi suoi piccoli occhi azzurri, i riccioli biondi, riflettenti la luce del sole mattutino, quasi dei fili di luce gli si irradiano sopra la testa a formargli un’aureola – e io?, penso di rimando, con uno scatto del pensiero. E io? Negli abissi profondi, nelle ombre infernali?
Nello specchio, la mia figura color rubino, ma quasi diafana, persino tremolante, eppure al tempo stesso uniforme e piatta, un pieno contrasto tra nero e rosso, mi è perpendicolare e remota, a pochi palmi. Sono io. Sono io, dal collo in giù.
Che occhi. I miei occhi: che occhi. Neri, senza iride né sclera. Grandi e pieni. Tondi. Che sporgono da un taglio obliquo, lanceolato, ma che non riesce a contenerli per intero. Gli occhi che ho sempre desiderato.

E le corna? Due corna piene, spiroidali, arcuate, lunghe e alte, che ricadono fino a metà della schiena, come una criniera folta e virile, disciplinata e marmorea. Le sento pesare come dei tronchi d’albergo di montagna, ma il collo, un collo muscoloso, muscoloso il doppio di un qualsiasi collo umano o animale, non solo regge lo sforzo, ma ne trae godimento, è una tensione voluta, afflusso di sangue continuo che genera un fremito simile a un orgasmo: parte dalla nuca e giunge fino alle spalle, irrigidendo persino le mascelle, chiuse, irrimediabilmente serrate, al punto che il desiderio di aprirle, di fare una smorfia, di prendere aria, sento non essere nemmeno lontanamente possibile. Vedo muoversi, sul viso riflesso dallo specchio, soltanto due larghe frogie piatte, si spalancano a formare dei cerchi neri, in rilievo, appena sopra la bocca serrata, per poi richiudersi, ma non completamente. Il ritmo di quel respiro è lento e regolare, come l’afflusso del sangue che avverto scorrere all’interno del collo, e come l’andirivieni dei miei pensieri, tutti virati al rosso opaco e rubino.

“D., scusami: guarda qua: cosa leggi. Lo leggi: ‘Stambecco asiatico’? No? Scendi da quella nuvola, D. Non sei poi così angelico. Non sei poi così regale.”
Lo stambecco nasconde, per forza, un segreto di architettura biomeccanica in quelle sue corna così sproporzionate e incoerenti, e non è un caso che mi venga a mente la parola: Diavolo.
“D., scusami, insisto: questo maledetto stambecco asiatico esiste, guarda, guarda qua, e guarda bene, mi vedi? Adesso mi vedi? Ce l’hai davanti.”
E se meritassi davvero l’esilio in un posto che si chiama Picco del buio perpetuo? E se fossi già lì, accolto con placidi e diabolici sorrisi da tutti gli altri?

Sul Picco del buio perpetuo si aggirano spesso, d’inverno, cacciatori kazaki bardati di pelli e lane, armati di fucili rudimentali, dalle forme grezze e i contorni frastagliati, con una sola canna, lunga, lunghissima, almeno due braccia; sono fucili caricati con grosse palle metalliche, dal colore dorato. Questi cacciatori kazaki, in inverno, sul Picco del buio perpetuo, vanno a caccia del diavolo. Il diavolo è per loro questo animale a quattro zampe, un’ombra notturna in pieno giorno, silenzioso, visibile solo serrando un poco gli occhi, abituando il proprio sguardo al nero delle pareti del picco; si dice, fra i cacciatori kazaki di diavoli, che questo animale è un animale mansueto. Un animale che nessuno ha mai visto combattere, o attaccare un qualsiasi altro animale, men che meno esseri umani. Eppure si dice: state lontano da quell’animale diabolico dalle corna di scimitarra. State lontano. Fissarli a lungo, negli occhi, è pericoloso.

Una leggenda antichissima, infatti, racconta di un ragazzo, dal nome Shaizim o Shiezem, ogni volta che vien raccontata non è mai lo stesso nome, che un giorno, avventurandosi sul picco più basso delle Montagne celesti, disobbedendo agli ordini di suo padre, che voleva suo figlio a guardia delle sette capre che erano il suo capitale, si mise alla ricerca di una bestia dalle gigantesche corna a forma di scimitarra, e dal manto nero come la notte profonda. Il ragazzo rimase sul picco delle Montagne celesti per tre giorni, in vana attesa. Finché stremato dalla fatica e dalla fame, nel momento in cui decise di far ritorno, la strana ceatura gli si parò davanti, in una sottile striscia rocciosa lungo la parete scoscesa del picco. La leggenda dice: Shaizim, o Shiezem, si trasformò in diavolo, per aver guardato troppo a lungo il diavolo negli occhi.

Alcune versioni della leggenda continuano dicendo: suo padre, dopo tre giorni, preoccupato, si avventurò anch’esso sul picco più basso delle Montagne celesti, alla disperata ricerca di suo figlio. E lo trovò; e lo guardò a lungo; e diventò anche lui un diavolo del picco.

La cosa che mi mancherà di più? I suoni. Forse le melodie. Ma no, se ci penso bene mi mancheranno più i suoni, quelli isolati, il concetto nobile di suono – della melodia ho già il disgusto: mi sono congedato dall’umano così facilmente? Già ho dato inconsapevolmente l’addio all’alba? Quale alba. Io qui aspetterò soltanto colui che in me non crede, per mostrargli questi miei due begli occhi neri, e senza aprire bocca, dirgli: ora tu mi credi.

Testo: Stefano Felici
Immagini: Eleonora Simeoni

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