Un giorno presi la decisione di iniziare a vivere in discesa e di non essere più una stupida.
Avevo appena finito di fare lo shampoo alla signora Melita e la signora Rendi, la proprietaria del salone, mi stava spiegando come mettere il balsamo.
“Devi frizionare, Aurora. Chiedi alla signora come va.”
“Come va, signora Melita?”
“Bene grazie. Anzi, mettici un po’ di forza in più.”
“Più forza, Aurora, su”, mi disse la signora Rendi.
Roby mi guardava con la coda dell’occhio mentre usava il rasoio elettrico per fare la cresta a un bambino che aveva sì e no dieci anni. Vidi che sorrideva. Nello specchio davanti a lui, invece, notai che il bambino mi stava guardando le tette. Tutta colpa della maglietta bianca che dovevo indossare, perché “il bianco è il colore del nostro salone”, come aveva detto la signora Rendi quando mi aveva assunta. Se mi fossi spostata, e prima o poi avrei dovuto farlo, il bambino si sarebbe messo a fissarmi le mutandine
“Ora lasciamo agire per un paio di minuti, va bene, signora?”
In quel momento la campanella orientale sopra la porta tintinnò ed entrò il signor Vizzini. Tutto impettito in giacca e cravatta, veniva una volta a settimana a farsi sistemare capelli e baffi.
“C’è posto?”, chiese. Non prendeva mai l’appuntamento per telefono.
“Ne prendo già troppi, di appuntamenti”, diceva.

Roby guardò il bambino e la signora Melita e disse che avrebbe dovuto aspettare una quarantina di minuti. Vizzini si sedette sulla poltroncina e si mise a leggere un quotidiano.
“Già che non fai nulla, vai prenderci un caffè”, mi disse la signora Rendi.
“Anche per me, grazie”, disse Vizzini, guardandomi da sopra la pagina.

Quando uscii, vidi Barbara, che era stata con me al liceo, entrare nel negozio di scarpe di fronte al salone. Io la salutai, ma lei non mi notò. Aveva dei capelli bellissimi e non era una delle nostre clienti.
Presi il vassoietto con le quattro tazzine e il barista ci  lanciò sopra l’euro di resto.
“Ehi”, dissi.
Poi me ne andai.
Credo che mi abbia detto “bel culo” sottovoce, ma non sono sicura.
Mentre rischiavo di far cadere tutto a ogni passo, incrociai di nuovo Barbara, con tre sacchetti pieni di scatole da scarpe.
“Ciao!”, mi disse e fece per abbracciarmi, ma si bloccò.
“Che bene che ti trovo.”
“Anche tu stai benissimo.”
“Be’, ora devo andare, ti lascio lavorare, prima ti ho visto abbastanza occupata.”

Quindi prima mi aveva ignorata, stronza riccona di merda.

“Grazie”, disse Vizzini quando gli porsi la tazzina.
Osservai come Roby cambiava acconciatura alla signora Melita, come tagliava e pettinava e spalmava schiuma, poi guardai come spuntava i baffi a Vizzini e come lo radeva dietro al collo e sopra le orecchie. Mise un po’ di cera e poi Vizzini pagò e se ne andò.
Quando finii di lavorare, alle sette, si era alzato un vento fresco. Andai verso la fermata del tram, mi girai un secondo a guardare il negozio di scarpe e trovai Vizzini all’angolo della strada.
“Aurora – mi salutò – Vuoi un passaggio?”
“Non serve, grazie.”
“Ma c’è freddo, dai – poi aspettò un attimo – Non guadagni molto lì, vero?”
Salii in macchina. Tenni la testa bassa, guardandomi i piedi. Il giorno dopo comprai un bel paio di scarpe col tacco.

Testo: Alessio Posar
Immagini: Cosimo Lorenzo Pancini

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