La ragazza ha annodato i capelli con due elastici fluo, uno per la coda, l’altro per farla su come una cipolla. Ha un’aria impertinente così, le ho fatto segno di togliersi la matita che infila dietro l’orecchio come i casolini di una volta e ho buttato i miei libri nella sacca. Mi sono alzato senza guardarla più di tanto. Ora camminiamo in direzione Portello; attenta, le dico, perché si pesta i lacci delle Vans. Davanti alla focacceria c’è la fila. Gli studenti si stanno prendendo a pacche chiamando- si bueo e uno finisce con le scarpe nelle fontanelle a raso; l’unto gli fa luccicare le dita.

La ragazza avanti, io due passi indietro; entriamo in un palazzotto un po’ decadente, odore di corridoio vecchio, trepidazione. Tuttavia sento anche il rimpianto per due euro di focaccia e un po’di goliardate nel sole del pomeriggio; il giro scala è buio e il sudore comincia a gelarmi sulla schiena. Appeso allo zainetto della ragazza c’è qualcosa che tintinna. È una tipa rumorosa: suole che sospirano, bracciali da schiava e il click clack delle mollettine per capelli ogni volta che fa ciuffo giù ciuffo su. Le pagine del suo quaderno scricchiolano perché non fa la punta alle matite e le frusciano i jeans fra le cosce; lo fa apposta, a mettersi quelli consumati. L’altra sera, una delle fibbie della borsa ha risuonato contro la carena della moto. Era il nostro primo giro.
“Non fare male alla mia puledra”, ho detto.
In realtà, quando corro con la maglietta gonfia a palloncino, immagino di essere a cavalcioni di un robot femmina con i missili al posto delle tette. Infatti la chiamo Venus, la mia moto.
A Caorle abbiamo preso un cono di calamari fritti e due lattine che poi abbiamo abbandonato su un davanzale, e quando siamo arrivati alla Madonna dell’Angelo abbiamo guardato il segno della famosa marea che non è riuscita a varcare i muri della chiesa.
“Sai che non credo ai miracoli? – le ho detto – solo alle magie”.
I miracoli implicano concetti per i quali non sono preparato: l’idea di redenzione mi fa sentire escluso e la punizione battere i denti. Non sono stato a raccontarle che a volte mi fa star bene e altre no, il pensiero di aver fatto il dito medio alla morte. Quando il tempo si è infranto contro una lastra, intendo, e subito dopo ha ricominciato a scorrere. Come un’insensata magia.
Manuel questo lo capisce, ma tra due boccali di Tennent’s e i gusci delle noccioline americane parliamo di tutto tranne che dell’argomento. È così ingrassato, ha messo su una pancia da frate e un sorriso bonario che mi sta un po’ sui coglioni. Il tempo ha ripreso a scorrere per tutti e due, ma a velocità diverse.
Sono nella camera della ragazza. È affollata di cose – un tantino claustrofobica – e profuma di penne colorate. Sul letto c’è un poster di Gino Strada con la faccia troppo incazzata per mettermi a mio agio, sembra quella di Valter quando sgamava che saltavo gli esercizi.
La ragazza è al centro di un tappetino di spugna rosa, vedo che si sta togliendo le Vans. Senza nessun indugio abbassa anche i jeans lasciando intravedere le natiche paffute.
“Mi sono ricordato di una cosa. Appuntamento con Manuel ore sei – dico in fretta – ho un po’ da scarpinare”.
Subito mi pento di aver tirato in ballo l’argomento di me che arranco sotto i portici. A Caorle è stata brava, mano nella mano senza lasciar trapelare alcuna curiosità. Io indossavo i bermuda; sono la mia carta di identità, i bermuda. Oggi invece porto degli stupidi pantaloni di similpelle che non so cosa mi sia saltato in mente di comprare dai fattoni di Bologna un giorno che faceva un freddo cane. Un indumento del genere, oltre a far sudare, non fa che ricordarmi che lo spogliarsi implica un concetto di svelamento per il quale non sono preparato.

Nell’andare a ritroso verso la porta inciampo in una pila di VHS.
“Li guardavo anche io i cartoni giapponesi – borbotto appoggiandomi con la mano alla bocca di Gino Strada – per questo Manuel mi chiama Mazinga”.
“Non può aspettare?”, dice la ragazza.
In un punto il cotone si è scucito dall’elastico delle mutandine. Sembrano vecchie, sfinite dai candeggi. “Ti sta sempre appicciato.”
Perché è il mio osservatore posteriore, sempre un passo dietro il mio fanalino di coda.
“Allora vado.”
Gli occhi della ragazza si sono fatti grandi e mi sembra che stia guardando le mie gambe.
“L’altro giorno mi sono tuffato da quattro metri – dico – e non ho avuto nessuna paura”.
Tutte le signore avevano smesso di spalmare, sistemare ciuffi e annodare laccetti e i loro triangoli bianchi erano bellissimi. Allora il mondo era andato all’ingiù dalle ringhiere agli ombrelloni, io a braccio teso col pugno come un robot.
“Mi ha raccontato tutto, il tuo amico.”
Dunque parlano, la cosa mi lascia interdetto. Conosco tutte le facce di Manuel: quando fa le smorfie per non piangere che sembra che gli vengano le fascicolazioni, quando mangia per mangiare, quando mangia per seppellire. Quando si siede sul mio letto mentre fumo scazzato, quando mi guarda dal bordo della piscina. In un angolino sotto il suo stomaco ci deve essere un puntolino, compresso, di odio. La diversità dei carichi ha reso disuguali i pesi.

Prendo la direzione della porta sotto lo sguardo bruciante di Gino Strada. La ragazza mi viene dietro. “Pensavo solo – dice – aspetta”.
Si guarda intorno cercando disperatamente qualcosa che faccia da baluardo alla mia fuga ignominiosa. Tira fuori delle scatole di cartone.
“Il mio amico ti ha anche raccontato di quando mi facevo le seghe guardando le figurine di una donna cyborg?”
Perchè non le racconto di come riducevo le lasagne che mia madre mi portava in ospedale nella carta stagnola, e di come fissavo mio padre nascosto dietro la “Gazzetta dello Sport”? Neanche lui aveva il fegato di guardarmi.
Lei sta rovesciando una scatola sul letto. Bustine di zucchero. Negativi. Strisce di trasferelli. Biglietti del cinema di quelli rosa che si staccano dalla matrice. Tessere traforate di un impianto sciistico con l’elastico e i buchi non fatti, prove d’acquisto di biscotti tenuti con la graffetta, graffette colorate, adesivi gommati.
“Aspetta – dice ancora – questi sono bellissimi”, mi porge un pacco di adesivi prismatici della Zueg.
“Quelli del succo di frutta?”, chiedo perplesso guardando Lupo Ezechiele.
“Sono un’accumulatrice compulsiva – risponde passandosi la lingua sulle labbra – I miei mi hanno mandata a certi gruppi, sai, quelli dove ci si mette tutti in cerchio. Uno raccontava come catalogava, uno come archiviava, un altro in base a cosa raccoglieva e io a chiedermi ma cosa c’entro? Mica sono una collezionista, io. Io conservo indiscriminatamente. Butti per terra la carta del gelato? La raccolgo, la liscio, leggo cosa c’è scritto sopra. Poi magari la butto. O magari no. È la mia battaglia personale contro la smaterializzazione, ecco”.

È soddisfatta e incerta al tempo stesso di quello che sta dicendo. Io guardo le sue gambe. Sono muscolose, da camminatrice.
“Però non chiedermi cosa vuol dire, al gruppo non sono riuscita a spiegarlo”, dice sventolandosi la mano davanti agli occhi. Guarda il soffitto.
“Forse è vero che sono un po’ matta.”
L’aria si fa trasparente, come se improvvisamente vedessi in alta definizione. Tutto quel ciarpame mi ricorda la tasca del camice di Valter. Era piena di tutto: scotch, penne, pacchetto di crakers già vecchi, ma non c’era mai il fazzoletto. Un posto scomodo per appoggiare la faccia.
“Ometto – diceva – su. Vedi che ti facciamo come nuovo”.
“Anch’io sono matto  – dico sedendomi in mezzo cianfrusaglie – Durante l’addestramento… Ero riuscito a salire tre gradini da solo e la prospettiva da quel terzo gradino aveva rovesciato le cose. Un’euforia strana. Non ero felice. Ma non ero più…non lo so”.
Non riesco a dirlo. Non ero più ma ero ancora.
“Ero diventato bionico.”

Si siede anche lei, una coscia nuda, una vestita. Pelle vera e pelle finta.
“Andavo col tecnico nel laboratorio. C’era – dico guardandola con la coda dell’occhio – c’era questa mensola dove le parti in silicone venivano esposte. Sembrava un magazzino del futuro. Componentistica di essere umano: orecchi, mani con tutto l’avambraccio, a noi interessavano i piedi”.
“Vedi, si attacca qui –  spiego facendo il risvolto del pantalone – prima era bianco, sembrava dissanguato, il piede di un morto sotto le bombe pensavo. Ma poi coi pennelli gli hanno fatto la lunetta sulle unghie, i peli sull’alluce, gli hanno colorato il dorso come l’altro. È nato sotto i miei occhi ed è stato una specie di rewind: i lampioni spenti: l’odore dell’asfalto: la benna”.
Manuel – che giovane Manuel – nello specchietto, io che apro il garage, Manuel che sgasa sul Califfone giù in cortile: scendi Mazinga.

La ragazza si porta indietro un ciuffo di capelli appiccicati alla guancia. Glielo metto bene dietro l’orecchio.
“Allora a Valter, che era il tecnico del mio arto artificiale, avevo giurato che da grande avrei progettato un cuore bionico.”
“Un cuore che non smettesse di battere.”
“E che non soffrisse mai.”

Sospiriamo, proprio all’unisono. Allora prendo a baciarla. La sua bocca sa di uva fragola quando succhi la polpa e sputi la buccia. Le prendo la nuca con la mano e adagio la corico sulla schiena. Continuiamo a baciarci su pellicole di vecchi film.
“E sei riuscito a inventarlo, il tuo cuore bionico?”, mi chiede nella bocca.
Scuoto la testa e finalmente riesco a immaginare. La mia mano sulla sua schiena a farle formiche fino a dove crescono i capelli. La gamba di carbonio accanto al letto nella sua custodia di panno. Io che mi sento in perfetto equilibrio. Disposto a dormire il sonno uniemisferico del fenicottero.

Testo: Sara Gambolati
Immagini: Maria Garzo

 

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