Era la finale dei Mondiali. È bene ricordarlo, perché in fondo è per questo che non li fanno più. Quell’anno avevamo cominciato male, mi sembra di ricordare. Non lo so. Lo sport non mi interessava, ma sono sicuro che qualcuno si ricordi cosa ci fosse di tanto importante in quella partita. Si, certo, anche il fatto che fosse la Germania…

Italia-Germania è sempre stata un’occasione rituale, per ripeterci che non siamo mai valsi un cazzo, ma almeno la partita la vinciamo sempre noi. Comunque eravamo lì, io, un paio di amici. C’era una qualche fiera di paese. Ogni singola piazza era stata attrezzata con mastodontici maxischermi, che permettevano alla popolazione di poter uscire di casa e seguire la partita, a cominciare da quella mezz’ora di diretta perfettamente inutile, quando i giocatori si preparano e saltellano a vuoto negli spogliatoi, si fanno inquadrature ispirate dello stadio di turno e i commentatori parlano ininterrottamente del nulla assoluto.
L’intera popolazione del paese era accalcata davanti agli schermi, in un’unica grande marea che scrosciava di applausi, guaiva sconfortata o imprecava con roboanti do-di-petto a ogni rete subita. Per noi la faccenda si rivelò positiva. Gli stand col cibo erano desolati e camminare per strada comodissimo. Tra una piazza e l’altra c’era quasi da chiedersi se fossero mai esistite altre persone, se non ci fossimo in realtà solo noi sull’intero pianeta, a vagare senza meta, fermandosi ogni tanto per farci spillare una birra.
Verso le undici decidemmo di fermarci per un panino. Il match era agli sgoccioli e non si arrivava da nessuna parte. In attesa, dividemmo il nostro interesse tra la partita e le facce del pubblico, accalcato di fronte all’ennesimo schermo. Avevano tutti l’aria affranta, colorito cereo, sopracciglia aggrottate e labbra contratte da mangiatori di limoni. Sembrava succhiassero da una qualche cannuccia invisibile.
“Ma se finisce in parità?”
“È già in parità, questi sono i supplementari.”
“E se finisce pari pure ai supplementari?”
“Si va ai rigori.”
“E se…”
Venni zittito in malo modo da una ragazza graziosa e abbronzata, con lunghi riccioli neri, tanto definiti da sembrare finti. Obbedimmo imbarazzati, ingurgitando il panino in religioso silenzio. Quando tornammo a girare erano appena iniziati i rigori. Il vento leniva la pelle inumidita dall’ennesima birra. L’eco di esultanze e imprecazioni risuonò nell’aria, una volta di troppo. Michele, l’amico che avrebbe dovuto riportarci a casa qualche birra prima, sospirò affranto. A lui, tutto sommato, la partita interessava, ma non se ne lamentò per non farci fastidio. Tornammo a casa poco prima che si fermasse il vento, piacevolmente brilli ed eccessivamente impastati dall’alcool per un sonno decente.
Trovai mio padre ancora sveglio in cucina, solo di fronte al televisore.
“Ma all’una di notte stanno ancora là a farti rivedere i rigori?”
Si riscosse da una sorta di torpore, cercò di distinguermi nel buio, poi tornò al televisore, assente.
“No, stanno ancora giocando. Ma ero già al piano di sopra e non ci feci attenzione.”
Mi svegliò la voce di mia madre. Chiamava dalla cucina. Il piccolo ambiente era illuminato dal primo sole mattutino. Ancora seduto al tavolo, contratto, gli occhi sbarrati e la stessa espressione da suggitore di cannuccia, c’era mio padre. Alla televisione, schiere di calciatori stremati continuavano a darsi il cambio per prendere a pedate un pallone e decretare chi fosse la squadra più forte del mondo.
“Deve essere un approfondimento interessante.”
“No, stanno ancora giocando.”
Mia madre era visibilmente agitata.
“Non ha detto altro, sembra uscito scemo.”
“Pa’ ci sei? Non è il caso di farsi una dormita?”
“No, stanno ancora giocando.”
“Visto?”
Fu solo l’inizio. Per l’intera giornata non riuscimmo a spostarlo dalla sedia, mia madre dovette cominciare a imboccarlo pur di farlo mangiare. Grazie a dio era ancora in condizione di fare avanti e indietro per il bagno. Ci bastò accendere l’altro televisore per apprendere la notizia. L’inquadratura del telegiornale era lievemente decentrata, gli schermi posteriori spenti. Presentava solo uno dei giornalisti, truccato e pettinato alla bella e meglio, sfavillante come una stroboscopica sotto un’illuminazione improvvisata. Incantati dal programma, facemmo appena caso al fatto che il vicino di casa, a intervalli regolari, imprecasse o esultasse a pieni polmoni.
… e mentre gran parte della popolazione è ancora ferma col fiato sospeso davanti ai televisori, un servizio minimo è garantito da tutte quelle persone che non trovano la minima attrattiva nella finale dei Mondiali. Il traffico aereo è stato del tutto interrotto, così come decine e decine di automobili sono ferme nel mezzo della strada, attendendo la fine della partita più lunga che la storia ricordi.
Mia madre cominciò a mordicchiarsi il pollice. Andai ad accendere il cellulare e venni tempestato di messaggi riassumibili con un nostro X parente è paralizzato davanti la televisione aspettando che la partita finisca.
Come si reagisce a una situazione del genere?
Avevo basato buona parte della mia adolescenza sul rifiuto del calcio come sport nazionale e una parte di me sogghignò soddisfatta: tutto quel casino non sarebbe successo se gli italiani non fossero stati così ossessionati dal pallone. Il resto di me era invece nel panico.

Su internet, alcuni utenti tedeschi registravano una condizione simile.

Qualche mese dopo mio padre era ancora immobile, gli occhi sgranati e purpurei, in attesa dell’ultimo tiro in porta. Poche settimane prima, uno dei giocatori tedeschi aveva mancato il bersaglio. Poi quello italiano, segnato in volto, aveva fatto lo stesso. Per l’intero scambio mio padre aveva smesso di respirare.
Era stato raggiunto un certo equilibrio tra i giocatori, che a turno con le riserve, riuscivano a ottenere abbastanza ore di riposo per non crollare. Le telecamere viravano a intervalli regolari sul pubblico, dove una massa di selvaggi appena uscita da un film postapocalittico anni ’80 osservava con il fiato sospeso ogni secondo. Un giorno particolarmente sfortunato vennero sbagliati 6 rigori di fila. Il pubblico reagì lanciando le proprie feci.
Papà non si lavava da diversi mesi e con mia madre facevamo a turno per dargli una parvenza di igiene, attirandolo nel bagno con una radiolina che trasmetteva la partita. Certo, i cronisti erano ormai rochi e fiacchi, a volte rimanevano in silenzio per delle ore, ma un indistinguibile brusio comunicava a mio padre che quella era la partita e tanto bastava.
Festeggiammo con una torta il primo anno della finale Italia-Germania, appena arrivata a 2856 pari. Il nostro mondo aveva assunto un suo nuovo ritmo. La N.A.T.O., tra la preoccupazione e l’imbarazzo, aveva spedito alcune truppe per recuperare i servizi principali, ma invano.
Ogni tanto mi vedevo con i miei amici, quelli rimasti. Prendevamo da qualche parte, senza necessità di chiedere, una birra e la sorseggiavamo nel silenzio della campagna, sotto le stelle, interrotti saltuariamente dal grido sincrono di decine di centinaia di gole che si laceravano nella disidratazione.
“Ieri sono passato davanti a una di quelle case con la cucina affacciata sulla strada. Il tizio nemmeno s’è accorto che stava morendo di fame, ma ci rendiamo conto?”
Io annuivo e continuavo a bere, nel più totale silenzio. Cercavo di capire come liberare mio padre dallo strano incantesimo, ma non arrivavo mai a niente.
I quattro ministri rimasti al Governo avevano dichiarato lo stato d’allerta.

Mia madre, l’ultima persona che credevo avrei visto crollare, al quattordicesimo mese, dopo aver fissato mio padre inserire meccanicamente in bocca tutto ciò che gli si abbandonava a tiro di forchetta, esplose in un grido lancinante, estrasse un cassetto dal mobile e lo infranse contro il vecchio schermo catodico della cucina. Mentre la aiutavo, a rialzarsi, mio padre ebbe un breve istante di consapevolezza, prima di abbandonare la sedia e andare ad accendere il televisore nel salotto. Da quel giorno smettemmo di lavarlo. La puzza divenne tale che a malapena potevamo avvicinarci.

Le immagini della partita si erano ridotte a una serie di inquadrature fisse a rotazione: il pubblico; il tiratore; il portiere; il tiro; il pubblico; il tiratore; il portiere; il tiro. Del pubblico era rimasto ben poco. I tifosi, sporchi e malaticci sbocconcellavano nell’indifferenza circostante i resti putrescenti dei compagni che non ce l’avevano fatta. Alcuni dei calciatori erano collassati, altri avevano perso il piede destro per via dei microtraumi accumulati. Più di una volta, ultràs dalla volontà annichilita avevano tirato al posto loro. Il mondo attendeva.

 Al secondo anno della partita Italia-Germania (5607 pari) degli uomini con il logo della FIFA cucito sul petto si presentarono in ogni casa che avesse un Rigorato (il soprannome era nato intorno all’ottavo mese) con delle piccole risme di fogli sotto braccio.
Io e mia madre avevamo ritrovato il nostro equilibrio e con noi l’intera provincia, adattatasi ad una vita più silenziosa e desolata.
Gli uomini della FIFA ci sottoposero il contratto. Una lauta indennità, in cambio del nostro Rigorato. I calciatori erano allo stremo, la partita era condannata a non concludersi mai. Il presidente aveva proposto, quindi, di sostituire i giocatori con quegli spettatori che negli ultimi due anni erano stati così attenti a seguirne i rigori.
“Oramai…”
Ci spiegarono gli uomini FIFA:
“… è una questione di correttezza, la partita va conclusa. Non possiamo dichiararla patta. Le regole ce lo vietano”
Mia madre era esausta. La vista di mio padre, inerte e rinsecchito davanti al televisore, aveva reso ogni suo giorno una sconfitta a una gara a cui non aveva mai acconsentito a partecipare. Prese la valigetta con le banconote di grosso taglio, firmò il contratto e preparò un caffè per tutti. Gli uomini FIFA lo sorseggiarono imbarazzati fissandosi i piedi, esattamente come me e mia madre un anno prima, quando il discorso ricadeva su papà.
Lo osservammo sparire in una delle grosse macchine nere e marchiate della Federazione, seguito dal fruscio della radiolina utilizzata per pascolarlo fuori dal salotto. Si allontanò all’orizzonte in un’infinita carovana di automobili uguali, ognuna con dentro il suo Rigorato, magari più di uno.
Vegetali destinati a una rivoluzione copernicana, protagonisti della partita di cui erano stati fedeli spettatori da oltre due anni.
Quando l’ultima automobile si sciolse all’orizzonte mi voltai verso mia madre, per dire qualcosa di confortante, di saggio. Qualcosa che rendesse chiaro che non era sola, che eravamo soli insieme, in un paese semideserto, tenuto in ostaggio da una partita di calcio senza fine. Mi precedette, con parole più efficaci:

“Mi toccherà bruciarlo, quel divano, per levare la puzza di morto.”

La bellezza delle partite di calcio mi era sempre sfuggita.  Avevo l’impressione di star lì a fissare un acquario: i pesci vanno da una parte, i pesci vanno da un’altra. Qualcuno ogni tanto si azzuffa, ma poi ricomincia l’effetto pendolo. Superata l’adolescenza, entrai in quella fase in cui ci si domanda se sei tu, e non gli altri, ad avere un problema. Il calcio si era trasformato, da hobbie per minus habens, in una società segreta, incomprensibile senza l’ausilio di una cifra nascosta che nessuno si era mai preoccupato di comunicarmi. Una volta che mio padre se ne fu andato, invece, capii. I tifosi guardano le squadre come una parte di sé stessi, come un’appendice, un prolungamento, un rappresentante elettivo. I calciatori erano gli eroi che la patria offriva a una guerra molto meno sanguinosa di quella vera.

Cominciai a passare interi pomeriggi a guardare la diretta, lo stadio lordo di sangue secco e funestato dagli insetti, il campo butterato dalle intemperie, i rapidi movimenti dei pochi sopravvissuti degli spalti, ferali e spiritati. Ora che erano delle persone comuni, a calciare i rigori, ebbi finalmente la mia opportunità d’immedesimazione. Studiavo le traiettorie del pallone, cercavo di stimare come avrebbe tirato ognuno dei rigorati, riconoscevo facce amiche. Quando mia madre cominciava a farsi nervosa, temendo di perdere anche me, spegnevo il televisore e le facevo compagnia per qualche ora, guardando insieme a lei scadenti polizieschi tedeschi. Il ministro della difesa era passato già un paio di volte in porta. Il presidente del Consiglio tre. Ai rigori avevo individuato anche alcuni miei amici, pallidi, con una grossa cuffia sul cranio che trasmetteva la radiocronaca della partita. In fondo nessuno di loro era davvero lì.

Fu tre mesi dopo, a seguito di un rigore sbagliato da un ragazzotto biondissimo e lievemente obeso, che vidi mio padre caracollare in campo, ancora con la canottiera e i pantaloni cachi che aveva addosso la sera in cui l’avevano portato via. La canottiera era stata aereografata con un’approssimativa bandiera italiana e tanto pareva bastare a identificare i singoli nella mandria. Chiamai mia madre dalla cucina, ma fece finta di non sentire. Si limitava a buttare un occhio, ogni tanto.
Dall’altra parte dello schermo mio padre si mosse confuso verso il dischetto e tirò di punta senza il minimo criterio. Il pallone venne proiettato dritto verso la faccia del portiere, col volto giallognolo e contrito. Fu una questione di secondi, o pochi istanti. Nello stesso momento, a casa, mia madre si passava la mano davanti agli occhi, esasperata. Perfino lei avrebbe saputo tirare meglio. Nel salotto, sul mio volto cominciava a fiorire un ghigno divertito. Decine, di centinaia di sospiri crearono violente correnti d’aria tra Germania e Italia e nello stesso, ineffabile istante, il sostituto portiere della Germania, un macellaio gravemente iperteso, terminò la propria esistenza con un violentissimo attacco di cuore. Stramazzò a peso morto sul prato butterato, con la faccia schiacciata in una poltiglia di sintetico e fango. Mi sembro quasi di poter vedere a occhio nudo l’intercapedine di pochi atomi che separava il pallone in volo dal faccione paffuto del portiere. In un atto di sincronia olimpionica un cranio tedesco si lasciò cadere per permettere il passaggio di un pallone.
Il tonfo sordo della rete fu seguito da un silenzio innaturale, interrotto dallo sbattere del coltello di mia madre sul tagliere. Poi, in un lento crescendo, dalle case vicine, cominciarono ad avvicendarsi grida e pianti di sollievo. Il televisore del salotto mostrò il volto di mio padre in primissimo piano, catturando l’esatto istante in cui si accorse che era tutto finito: appena uno sfarfallio nella saturazione nell’iride, un lieve spasmo degli occhi. Si lasciò cadere sul sintetico, a migliaia di chilometri da casa e una volta a terra, incapace di muoversi, iniziò a piangere.

Testo: Lorenzo Vargas
Immagine: Sara Liguori

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