Era la finale dei Mondiali. È bene ricordarlo, perché in fondo è per questo che non li fanno più. Quell’anno avevamo cominciato male, mi sembra di ricordare. Non lo so. Lo sport non mi interessava, ma sono sicuro che qualcuno si ricordi cosa ci fosse di tanto importante in quella partita. Si, certo, anche il fatto che fosse la Germania…
“Ma all’una di notte stanno ancora là a farti rivedere i rigori?”
Si riscosse da una sorta di torpore, cercò di distinguermi nel buio, poi tornò al televisore, assente.
“Deve essere un approfondimento interessante.”
Su internet, alcuni utenti tedeschi registravano una condizione simile.
Ogni tanto mi vedevo con i miei amici, quelli rimasti. Prendevamo da qualche parte, senza necessità di chiedere, una birra e la sorseggiavamo nel silenzio della campagna, sotto le stelle, interrotti saltuariamente dal grido sincrono di decine di centinaia di gole che si laceravano nella disidratazione.
Mia madre, l’ultima persona che credevo avrei visto crollare, al quattordicesimo mese, dopo aver fissato mio padre inserire meccanicamente in bocca tutto ciò che gli si abbandonava a tiro di forchetta, esplose in un grido lancinante, estrasse un cassetto dal mobile e lo infranse contro il vecchio schermo catodico della cucina. Mentre la aiutavo, a rialzarsi, mio padre ebbe un breve istante di consapevolezza, prima di abbandonare la sedia e andare ad accendere il televisore nel salotto. Da quel giorno smettemmo di lavarlo. La puzza divenne tale che a malapena potevamo avvicinarci.
Le immagini della partita si erano ridotte a una serie di inquadrature fisse a rotazione: il pubblico; il tiratore; il portiere; il tiro; il pubblico; il tiratore; il portiere; il tiro. Del pubblico era rimasto ben poco. I tifosi, sporchi e malaticci sbocconcellavano nell’indifferenza circostante i resti putrescenti dei compagni che non ce l’avevano fatta. Alcuni dei calciatori erano collassati, altri avevano perso il piede destro per via dei microtraumi accumulati. Più di una volta, ultràs dalla volontà annichilita avevano tirato al posto loro. Il mondo attendeva.
Io e mia madre avevamo ritrovato il nostro equilibrio e con noi l’intera provincia, adattatasi ad una vita più silenziosa e desolata.
“Mi toccherà bruciarlo, quel divano, per levare la puzza di morto.”
Cominciai a passare interi pomeriggi a guardare la diretta, lo stadio lordo di sangue secco e funestato dagli insetti, il campo butterato dalle intemperie, i rapidi movimenti dei pochi sopravvissuti degli spalti, ferali e spiritati. Ora che erano delle persone comuni, a calciare i rigori, ebbi finalmente la mia opportunità d’immedesimazione. Studiavo le traiettorie del pallone, cercavo di stimare come avrebbe tirato ognuno dei rigorati, riconoscevo facce amiche. Quando mia madre cominciava a farsi nervosa, temendo di perdere anche me, spegnevo il televisore e le facevo compagnia per qualche ora, guardando insieme a lei scadenti polizieschi tedeschi. Il ministro della difesa era passato già un paio di volte in porta. Il presidente del Consiglio tre. Ai rigori avevo individuato anche alcuni miei amici, pallidi, con una grossa cuffia sul cranio che trasmetteva la radiocronaca della partita. In fondo nessuno di loro era davvero lì.
Il tonfo sordo della rete fu seguito da un silenzio innaturale, interrotto dallo sbattere del coltello di mia madre sul tagliere. Poi, in un lento crescendo, dalle case vicine, cominciarono ad avvicendarsi grida e pianti di sollievo. Il televisore del salotto mostrò il volto di mio padre in primissimo piano, catturando l’esatto istante in cui si accorse che era tutto finito: appena uno sfarfallio nella saturazione nell’iride, un lieve spasmo degli occhi. Si lasciò cadere sul sintetico, a migliaia di chilometri da casa e una volta a terra, incapace di muoversi, iniziò a piangere.