trattenere il fuoco

“There is no pain you are receding
A distant ship smoke on the horizon
You are only coming through in waves
Your lips move but I can’t hear what you’re saying”
Pink Floyd, Confortably Numb

 

Niente è meglio di un fiammifero. Lo sfreghi e pouf: è come se il rumore diventasse subito fuoco. Sdraiata sull’amaca sotto all’ulivo, ne accendo uno dopo l’altro, quando vedo Alex venirmi incontro. Ha in mano i tulipani rosa: sono tutti belli diritti tranne uno, che, invece di fare gruppo, si è mezzo afflosciato.
Si ferma all’altezza della mia testa: di lui vedo solo il torace e un pezzo di gambe, come se fossimo in un film in cui hanno sbagliato le inquadrature.
“Sai mica dov’è l’annaffiatoio verde?”, mi chiede.
So esattamente dov’è: ce l’ho avuto di fronte tutto il tempo mentre facevo colazione.
“No – rispondo – l’avrai lasciato in giro”.
Soffio sul fiammifero, per un attimo si sente odore di fumo.
Alex sospira, rassegnato: “Era quello che pensavo.”
Allunga il braccio che regge i fiori e dà un colpetto all’amaca, come se fossero i tulipani a volermi spingere.
“Pensavo, sì, insomma… non avevamo detto basta scintille?”
Metto la scatola di fiammiferi nella tasca della felpa, anche se so che non me la chiederà. Visto che non è nostro padre, non va mai fino in fondo quando si tratta di costringerci a fare qualcosa.
Mi tiro un po’ su e lo guardo.
“Perché li hai tagliati?”, gli chiedo.
Prima, Alex veniva a farci dei lavoretti. Dietro compenso. Ancora adesso, se capita che mi deve sistemare qualcosa, a me fa strano non doverlo pagare.
“A Rosi piace morderli. Magari la convinci tu a mangiare qualcos’altro?”
Faccio segno di no con la testa.
“Non le piace che le si dica cosa fare.”
Chiudo gli occhi e rimango immobile, aspettando che l’amaca si fermi.
“Oh, e ti ha chiamato Matteo – continua Alex – dice che non gli rispondi e lo hai bloccato su WhatsApp. O una cosa del genere”.
Quando l’amaca smette di dondolare, apro gli occhi. Di Matteo non l’ho detto a nessuno. Qualche volta mi viene voglia di dirlo alla mamma, ma poi mi sembra che non sia mai il momento giusto.
“Gli ho detto che stavi studiando, ma prima o poi dovrai parlarci, non credi?”
Sto per rispondergli che non sono affari suoi, quando la porta di casa si apre ed esce la mamma. Giorgio le corre dietro, con la giacca mezza infilata e la sciarpa che si trascina per terra.
“Noi andiamo”, ci grida la mamma.
Alza il braccio in direzione della macchina. Le luci della Golf lampeggiano.
“Mamma!”, la chiamo.
Non sente. Si slaccia il cappotto e lo sistema sui sedili dietro. Quando è di profilo, ogni tanto riesci a vederle la pancia, ma non sempre. A volte mi immagino che dentro non ci sia niente.
Tira giù il finestrino: “Date un occhio alla nonna”, ci grida.
“Dove vanno? Ha un altro controllo?”, chiedo ad Alex.
“Chi? No. È per tuo fratello. Dentista?”
Una delle cose che più mi snervano di Alex è che non è mai sicuro di niente. Gli fai una domanda e ti risponde con un’altra domanda, come se, nel suo mondo, le risposte certe scarseggiassero.
“Glielo dai tu o glielo do io?”, mi chiede dopo un attimo.
“Cosa?”, dico, senza capire.
Alex chiude un occhio e fa finta di toglierselo, raccogliendolo nel pugno.
Lo guardo. Mio padre non farebbe battute del genere, penso.
“Tra un po’ vado da lei.”
“Ok. Se hai bisogno, sono dentro a dipingere.”
Lo guardo allontanarsi. Spero che l’annaffiatoio non lo trovi mai. Oppure che lo cerchi per così tanto tempo da rassegnarsi a non trovarlo.

Entro dalla veranda, salgo le scale, attraverso il corridoio e passo davanti alla camera del bambino. La porta è socchiusa e c’è lo stereo acceso.
Alex è fissato con i Pink Floyd, questa non l’ho mai sentita.
Hello, hello, hello. Is there anybody in there?
Deve essere andato al bagno, o a lavare i pennelli. Spingo appena la porta, solo per vedere come sta venendo. Le pareti, che prima erano color panna, adesso sono turchese brillante. In un angolo ha cominciato a disegnare dei palloncini rosa, il cordoncino nero che esce da un lato, a serpentina. Deve essere lì che metteranno la culla, dove prima c’era la libreria di papà.
È da un pezzo che lo so, che adesso qui ci starà il bambino, solo non immaginavo che potesse capitare così: d’un tratto sparisce tutto e arriva questo cielo da cartone animato che ti fa venire il mal di testa solo a guardarlo.
Mi sposto e la plastica stesa sul pavimento fa criic. Lo stereo di Alex è proprio di fianco ai miei piedi. Accanto c’è una bottiglia d’acqua e il flacone delle pillole.
Mi inginocchio. La musica arriva forte dentro le orecchie.
There is no pain, you are receding. A distant ship’s smoke on the horizon. You are only coming through in waves.
Prendo il flacone, lo apro e lascio cadere due pillole nel palmo della mano. Sono tonde e rosa, come i palloncini sulle pareti. Le faccio scivolare nella tasca della felpa, accanto ai fiammiferi.

La porta della nonna è aperta.
“Ehi”, dico entrando.
“Ehi”, mi risponde la nonna, senza girarsi.
È seduta sulla poltrona di fianco al letto, davanti alla TV. Ha il lavoro a maglia sulle ginocchia e sta provando a cambiare canale. Cerca un tasto, lo schiaccia forte puntando il telecomando verso il televisore e guarda lo schermo per vedere cosa succede.
È grigio e dice nessun segnale.
Mi avvicino, mi butto sul letto.
“Che ne pensi, l’avranno spostata?”, dice la nonna.
“Come?”
Si gira a guardarmi.
La Valle del Mistero.”
“Spostata dove?”
“Miriam e Jay sono andati in Alaska. Magari anche le riprese le fanno da un’altra parte.”
Sto per dirle che non è così che funziona, quando appare l’immagine.
“Oh, eccoli”, dice la nonna.
Alla TV, una coppia parla a bassa voce. Appoggia il telecomando sul bracciolo e riprende la maglia.
“Lui non era morto in un incidente?”, le chiedo.
“Ha fatto finta. Ora è tornato per stare con Miriam.”
“Non succede un po’ troppo spesso? Questa cosa che la gente non muore per davvero e poi torna?”
La nonna solleva gli occhi dalla maglia e mi guarda. Alza le spalle.
“Siamo tutti fatti così.”
Non so bene cosa intenda, e un po’ mi scoccia sentirmi chiamata in causa.
“E lei gli dà un’altra occasione?”, chiedo.
“Mi sa che lo sapremo tra un bel po’ di puntate.”
Mi sdraio a pancia in giù e appoggio la guancia sul copriletto.
“Accidenti”, la sento che esclama.
Tiro su la testa: le si sono sfilati i punti e sta cercando di rimetterli sul ferro.
“È per il bambino?”, chiedo, anche se conosco già la risposta.
La nonna alza le braccia per farmi vedere: un rettangolo giallo che a un certo punto si divide in due.
“Tua mamma mi ha chiesto una tutina, come quelle che avevo fatto a voi. Ma c’è qualcosa che non mi torna.”
“Non gli hai fatto le braccia.”
“Oh, ecco cos’era! – scuote la testa – Ossignori, tua nonna sta perdendo la trebisonda”.
“Devi rifare tutto adesso?”, le chiedo.
Mi fa l’occhiolino.
“No. Lo teniamo così e gli diciamo di stare fermo.”
Sorrido e per un attimo mi sembra di non essere l’unica che pensa certe cose.
“A te Alex piace?”, le chiedo.
“Non è a me che deve piacere.”
“Sì, ma ti piace o no?”
“È un bravo ragazzo.”
Infilo la mano in tasca e le sento, proprio sul fondo.
“Ha un disturbo dell’attenzione. Deve prendere le pillole tutti i giorni.”
“Quello anche io, tesoro.”
“E ha un tatuaggio sul braccio.”
“Davvero?”
“Dicono che poi quando invecchi ti entra nella pelle e ti intossica.”
“Speriamo di no.”
“Non ha neanche un lavoro vero.”
La nonna fa una pausa e alza lo sguardo verso la parete di fronte.
“Con i fiori se la cava.”
Alex ha sistemato i tulipani in un vaso basso, che li trattiene appena alla base, come una mano chiusa. Messi così, con i gambi che ricadono oltre il bordo, sembra che si stiano riposando. Alzo le spalle. La nonna spegne la TV.
“Che torta facciamo per il tuo compleanno?”, mi chiede.
“Nessuna – dico – non ce n’è bisogno”.
“E perché mai?”
All’improvviso, mi sento troppo vecchia per compiere diciotto anni. Vorrei compierne settanta, e non fare nessuna torta. Vorrei smetterla di provare le emozioni sbagliate, o di avere le emozioni giuste al posto sbagliato. Mi si è informicolato un piede. Lo appoggio per terra.
“Non sento più niente”, dico.

In camera mia, riaccendo il telefono.
Sull’icona di WhatsApp compaiono 13 notifiche. Sono tutti messaggi di Matteo. Seleziono la conversazione e la cancello. Se non la leggo, è più facile far finta che non esista.
Sto per scrivere un messaggio alla mamma, quando la porta si apre ed entra Giorgio.
“Tu, bussare mai”, dico.
“Perché ti arrabbi con me?”
Ha in mano lo zaino aperto e sta tirando fuori dei fogli spiegazzati. Cadono sul pavimento.
“Mi aiuti a fare il tema di storia?”, mi chiede.
Sposto un foglio con la punta del piede. “Non sono arrabbiata. Dov’è la mamma?”
“Tornava al negozio. A me mi ha lasciato giù. Mi aiuti?”
“Ti ho aiutato già ieri.”
“Ma oggi ho un’altra cosa.”
“Non puoi chiederlo ad Alex?”
“Per favore. Ho già iniziato, solo che non mi piace come finisce.”
Sbuffo.
“Muoviti, allora.”
Giorgio tira fuori un altro foglio e si mette a stirarlo sul pavimento.
“Oggi il bambino si è mosso – dice, allargando le dita per tenere giù il foglio – mentre stavamo tornando”.
“Non puoi metterle in una cartellina, le tue cose?”
“Volevo ma mi sono scordato.”
Lo piega a metà, poi in quattro, come se facendogli delle pieghe nuove potesse cancellare quelle vecchie.
“La mamma me lo ha fatto sentire”, aggiunge.
“Buon per te – rispondo – leggimi cosa hai scritto. Anzi, dimmi il titolo, prima”.
“Gli Egizi e il culto dei morti. Gli egizi coltivavano i loro morti nelle piramidi.”
Coltivavano? Ti pare che sia la parola giusta?”
“No?”
“Mica sono piante.”
“Stanno sotto terra, però.”
“Quanto sei ignorante. Si dice praticavano il culto. Vai avanti.”
Ricomincia a leggere.
“Siccome a costruirle ci voleva tanto tempo, dovevano cominciare quando il re era ancora vivo. Quindi anche da vivo, il re pensava già ad essere morto.”
Si ferma.
“E poi?”
“Non so più cosa scrivere.”
“Come sarebbe?”
“Mi è andato via dalla testa.”
“Così è orribile.”
Fa la faccia offesa.
“E che me ne importa, a me storia neanche mi piace. Io da grande voglio dipingere, come Alex.”
“Non dovevi fare il pompiere?”
“Ma adesso mi è venuta un’altra idea.”
“Allora vai e fattene venire una anche sugli Egizi.”
Giorgio tira su lo zaino.
“Oggi sei proprio cretina”, sibila, e se ne va.
Prendo un fiammifero dalla scatola e lo sfrego contro la carta vetrata. Non si accende, e, quando ci riprovo, si rompe. Sto sbagliando qualcosa. Ritento ancora, e poi ancora, finché non sento il calore del fuoco tra le mani.

Poco dopo sento bussare. È Giorgio, penso. Sfilo il cuscino da dietro la testa, per tirarglielo.
“Posso?”, dice Alex entrando.
Vedendo il cuscino, fa il gesto di piegarsi da un lato, fingendo di schivarlo. Lo rimetto a posto.
“Pensavo fosse mio fratello.”
“Oh, ho provato a legarlo alla sedia. Solo per i compiti, eh.”
Lo dice con una faccia talmente seria che mi viene da ridere. Mi metto a sedere a gambe incrociate.
“Ti è arrivato questo”, dice.
Mi allunga un sacchetto di carta.
“Cos’è?”
“Lo ha portato il tuo amico, quello a cui non parli.”
“Cos’ha detto?”
“Niente. Di dartelo.”
Appoggio il sacchetto sul comodino. È leggero e largo alla base.
“Mi sa che è un regalo”, continua.
“Già.”
“Non che siano affari miei, ma mi sembra a posto.”
Annuisco.
“Il tuo amico, dico. Perché il regalo potrebbe essere una bomba.”
Lo guardo.
“Questa non era divertente, vero?”
Faccio no con la testa: “Non mi va di parlarne.”
“Sì, certo.”
Si siede sul bordo del letto.
“C’è un’altra cosa.”
Oggi fa tutto in due tempi, come se per parlare con me gli servisse il prologo. Tira fuori qualcosa dalla tasca dei jeans e me la passa.
Quando stende il braccio, si vede bene il tatuaggio: una tartaruga rosa, con la testa che spunta appena fuori dall’acqua.
“È caduta mentre spostavo un mobile della camera.”
È un’istantanea. Gli angoli sono rovinati e c’è una brutta piega, proprio al centro, che taglia a metà il corpo di papà. Le foglie dell’ulivo sono giallastre, ma la foto è sempre bella, penso. Papà ride sollevando Giorgio, che avrà sì e no sei mesi. Si guardano negli occhi, è per questo che la foto è bella.
“E un po’ sciupata – dice Alex allungando un dito a sfiorarla – ma forse si può fare qualcosa. Potrei scannerizzarla e provare con un foto-editing…”
“E io cosa c’entro? Chiedilo a Giorgio, no?”, dico, allungando il braccio per restituirgliela.
Alex mi guarda, confuso: “Perché? Sei tu qui”.
“Da piccoli eravamo uguali. Ma è Giorgio. Chiedilo alla mamma, è lei che ci faceva tutte ‘ste foto.”
“Tua mamma si è sbagliata. Guarda!”, insiste Alex, e la spinge di nuovo verso di me.
È la prima volta che lo sento affermare qualcosa con decisione e, per un attimo, sono presa alla sprovvista. Me la riprendo e guardo di nuovo.
“A parte che tuo fratello aveva la testa piattissima quando era piccolo – comincia Alex – ma guarda bene l’ulivo. Se lo avete messo quanto sei nata tu, e in questa foto è ancora così piccolo, non è possibile che quello in braccio a tuo padre sia Giorgio”.
Sto pensando a come è successo che questo dettaglio ce lo siamo perso tutti.
“È una bella foto”, dice Alex.
Annuisco di nuovo, pensando a come fare per cambiare argomento. Dopo un po’, non so neanche da dove mi esca, dico: “Ha detto che è innamorato di me. Matteo”.
“Ah. Cribbio. Che coraggio.”
Lo guardo.
“Nel senso che io queste cose non riesco mai a dirle.”
Abbasso gli occhi sul parquet: ci sono i piedi di Alex nelle scarpe da tennis.
“Beh, con la mamma un modo devi averlo trovato.”
Volevo essere sarcastica, ma Alex prende un sacco di cose alla lettera.
“Non saprei. Le ho chiesto se voleva delle primule sul balcone.”
“E lei?”
“Ha detto di sì ma che se buttavo in giro la terra toccava a me pulire.”
“Ecco perché abbiamo un miliardo di piante.”
Alex tira su un piede e sistema le stringhe sotto la linguetta della scarpa. Non se le allaccia mai.
“È per questo che non gli parli?”, mi chiede quando ha finito.
Alzo le spalle.
“Non voglio che le cose cambino.”
“Ma sono già cambiate, no?”

Lascio il regalo di Matteo sul letto ed esco. Non è ancora il mio compleanno, quindi non devo rispondergli subito. Nella sua stanza, Giorgio ha tolto le lenzuola dal letto e sta cercando di metterne di nuove, ma non riesce a infilare gli angoli. Appena ne sistema uno, quello dal lato opposto salta su, scoprendo il materasso.
“Perché li fanno così? – dice vedendomi entrare – non dovrebbero essere agevolanti?”
“Aspetta.”
Faccio il giro del letto e tiro il lenzuolo dalla mia parte, tenendolo ben fermo.
“Vieni – gli dico poi – se le mettiamo adesso in lavatrice, in due ore sono asciutte”.
Giorgio raccoglie le lenzuola bagnate.
“Erano due settimane che non succedeva”, mi dice, con l’aria di chi ha subito un’ingiustizia.
Il dottore ha detto di non preoccuparsi per la pipì a letto: è una reazione temporanea. Grazie tante, e nel frattempo?
“Non è una cosa che puoi controllare”, dico.
In fondo, è l’unica cosa certa.

Andiamo in bagno. Giorgio infila le lenzuola nel cestello della lavatrice e lo chiude. Metto il detersivo nello scompartimento e schiaccio il programma breve.
“Non ci vuole l’ammorbidente?”, mi chiede.
“Non so dov’è.”
“E non fa niente?”
“Vedi che manco te ne accorgi.”
“Quanto ci mette?”
“Mezz’ora.”
“E dobbiamo stare qui a guardare?”
“Che palle che sei. Guarda che siamo qui per te. Vai, se vuoi.”
“No, resto qui.”
Si siede sul tappetino, e io mi metto sul bordo della vasca, con i piedi nudi appoggiati contro il bidet.
“Che grossa. Non ti fa male?”, mi chiede Giorgio.
“Tu che ne dici?”
Ho camminato con una scarpa stretta e adesso sul mignolo ho una vescica gigante. Se la scoppio, penso, poi avrò meno male, ma mi fa impressione. La schiaccio solo un po’ col dito, sperando che, a furia di farle cambiare forma, la bolla si decida a sparire.
“Mamma che nervosa che sei, era solo una domanda – con le dita, si mette a tirare i peli del tappetino – Secondo te il bambino può far male alla mamma?”, aggiunge.
Tiro giù i piedi dal bidet e lo guardo.
“In che senso?”
“Tipo se diventa troppo grosso e devono farle il cesaneo.”
“Il cesareo.”
“Potrebbe entrare in pericolo di vita.”
Sto per rispondergli che non è così facile entrare in pericolo di vita, poi mi viene in mente che non è vero. Può succederti da un momento all’altro, come aprire una porta e non uscirne mai più.
Metto le mani in tasca e, accanto alla scatola dei fiammiferi, sento la forma tonda delle pillole. Le spingo in fondo e tiro fuori un fiammifero dalla scatola.
“No, per favore”, dice Giorgio.
“Cosa?”
“Non mi piace. Poi magari ti cade.”
Lo rimetto nella scatola.
“Vai a prendere il tema – gli dico – così almeno ci leviamo il pensiero”.
Spero che la bolla vada via presto. Non so se mi va che Matteo la veda. Mi fa un brutto piede, e io non voglio essere una persona con i piedi brutti.
Torna con il suo compito. “Sono andato avanti.” Mi passa il foglio. Ha disegnato una piramide con dentro tutti i mobili. C’è anche un tavolo e un divano con due cuscini.
“Bravo – gli dico – hai avuto una bella idea”.
“Qui però è un po’ vuoto”, dice.
Seguo con lo sguardo il suo dito indice.
“Volevo fare più accogliente.”
“Mettici dei fiori. In un vaso. Così sembra che ci sia davvero qualcuno.”
Gli ridò il foglio e Giorgio guarda di nuovo il suo disegno.
“Sul tavolo? Ok – dice, col tono di chi sta prendendo una decisione importante – ma secondo te perché si davano così da fare per una tomba?”
“Chissà – dico tirando giù i piedi – magari volevano una seconda occasione”.

valallart 1

Quando scendo in cucina, la nonna è immobile davanti agli armadietti. Sul tavolo ci sono le uova e la bacinella grande che usa per gli impasti.
“Facciamo la torta?”, le chiedo.
La nonna si gira.
“A meno che tu non voglia dei pasticcini.”
“No, la torta va bene. Possiamo farla senza burro?”
Torna a guardare nell’armadietto.
“Se non la trovo, la faremo anche senza farina.”
Mi avvicino. Il pacchetto è sul primo ripiano, proprio davanti, ma la nonna sembra non vederlo.
“Eppure, l’ho messa qui – dice, spostando i barattoli a destra e a sinistra – quando l’ho comprata, l’ho messa qui”.
La tiro giù.
“Tieni”, le dico toccandole il braccio.
Prende il pacchetto.
“Ah, lo sapevo.”
Le tremano un po’ le mani. All’ospedale hanno detto che non è solo la memoria dei fatti a peggiorare, ma anche quella spaziale. È come ricordarsi di un posto, tornarci, e non riuscire più a trovarlo. La nonna apre il pacchetto e versa la farina in una ciotola.
“Allora, chi è che dobbiamo cercare di non avvelenare, col burro?”
Mi siedo e appoggio i gomiti sul tavolo.
“Matteo è allergico al lattosio.”
Rompe un uovo contro il bordo della bacinella.
“Il tuorlo deve rimanere intero. Così sei sicura che sono fresche.”
Me ne passa un altro. Premo con le dita. Il guscio fa crack, e l’uovo cade sul fondo, intatto.

La mamma arriva quando abbiamo già finito di cenare. Nella sua stanza Giorgio sta facendo break dance al ritmo di Instant Crush, con la maschera da robot come i Daft Punk. Ogni tanto ci sono dei tonfi sul parquet, e lo immagino che si butta per terra.
Sento la mamma parlare con Alex, e poi salire le scale. Attraversa il corridoio ed entra da Giorgio.
“Guarda cosa ho imparato”, sento che le dice.
“Sì, ma abbassa un po’.”
“Ma guarda solo un attimo. Lo rifaccio.”
Alex rimette la canzone dall’inizio.
I didn’t want to be the one to forget. I thought of everything I’d never regret. A little time with you is all that I get. That’s all we need because it’s all we can take.
Si sente un atterraggio sul pavimento.
“Attento!”, dice la mamma.
“Non mi sono fatto niente.”
“Va bene, ma adesso basta. Tua nonna dorme.”
La mamma esce e Giorgio spegne la musica. La sento camminare, e poi fermarsi di nuovo. Dopo quella di Giorgio c’è la camera del bambino.
Silenzio. Nemmeno lei riesce a entrarci, penso. La sento chiudere la porta, ma piano, come se dentro ci fosse davvero qualcuno che si è appena addormentato.
La porta della mia stanza è aperta. La mamma entra e, senza accendere la luce, si sdraia accanto a me, proprio dietro la mia schiena. Appoggia una mano sulla mia spalla. Per un attimo, ho paura che mi venga più vicino. Ho paura che la sua pancia mi tocchi.
“Sei sveglia?”, mi chiede.
“Con il casino che fa di là”, rispondo.
“Mi spiace di aver fatto tardi.”
“Non importa”, dico, senza girarmi.
“Prima il dentista, poi sono andata a ritirare gli occhiali di Alex, e quando sono arrivata in negozio era appena arrivato il campionario per la primavera.”
“Com’è?”
“Non male, se ti piace il turchese. E i pois. Ti devono piacere molto i pois.”
“Non so se voglio vestirmi a pois.”
“Sei giovane, ti puoi vestire come ti pare.”
“Succede di non voler compiere gli anni?”
“Sì, ma per te è un po’ presto. E comunque non c’è un granché da farci.”
Mi giro.
“Mamma.”
“Che c’è?”
“Pensi che papà se ne è accorto, quando è tornato indietro, che nella stanza non c’era nessuno?”
La mamma trattiene il respiro.
“Non lo so. Ma mi dico che se è tornato dentro alla casa, è perché pensava che ci fosse ancora qualcuno da portare fuori.”
“Ma se poi si è accorto che non era vero, avrà capito che era entrato per niente.”
“O che tutti erano al sicuro”, dice la mamma.
“E se non se ne è accorto – continuo – magari ha continuato a cercare il bambino, pensando di non riuscire a trovarlo”.
La mamma mi sistema una ciocca di capelli dietro all’orecchio. È troppo corta e mi torna sulla faccia.
“Vorrei solo sapere cos’è meglio pensare?”
Lo dico, e suona come una delle affermazioni di Alex, con il punto di domanda alla fine.
“Forse niente è meglio.”
La mamma tira su la testa dal cuscino. Punta il dito verso la lanterna, sul comodino.
“Quella è bella.”
Allungo la mano a sfiorare il vetro. Per un attimo, le mie dita coprono la luce della fiamma.
“Mhm”, dico.
“Da dove arriva?”
“È il regalo di Matteo.”
“E la candela? Ce l’hai messa tu?”
Faccio no con la testa. Matteo mi ha dato una cosa pronta da accendere.
La mamma mi sfiora la spalla con una mano.
“Mi pare che ci abbia azzeccato, no?”
Annuisco. Mi piace guardarla, sapere che c’è il vetro a tenere fermo il fuoco.

Testo Anita Renchifiori
Illustrazioni Valallart

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