Non è che mi sia dimenticato del suo volto, è più che il suo volto cambia ogni giorno nella mia testa. Come fosse la lava di un vulcano in eruzione costante che non riesce mai a prendere una forma definitiva. Un giorno, una folta frangia di capelli che gli scende sugli occhi sovrasta le altre caratteristiche. Quello dopo, un grugno scimmiesco. Ieri mi è parso che il suo volto fosse bello, forte e tuttavia triste, come quello di un attore dimenticato da tempo.
Ci incontrammo una notte di sette anni fa a bordo di un traghetto che copriva la tratta tra Pusan e Osaka e non ci rivedemmo mai più. Eppure, gli devo tutto ciò che sono. Senza Park Bong sarei ancora sdraiato sulla spiaggia vicino al porto dove vanno i marinai russi a passare i loro pomeriggi liberi. Un ombrellone con aste di metallo arrugginito, una grossa lattina di birra, un secchio pieno di pollo fritto e io a guardare questi uomini, alcuni panzoni, altri con corpi pieni di cicatrici, la maggior parte calvi. Nelle mie scorribande nei pressi del porto trovavo i resti delle loro notti accanto agli enormi magazzini dove si conserva il pesce o ammucchiati davanti al biliardo della Madonna o al Lolita Bar. Park Bong doveva girare negli stessi posti, per le stesse strade, ma il mio destino era di incontrarlo a bordo del Panstar Honey.
Mia moglie aveva vinto un viaggio a Osaka per due persone grazie alla lotteria di una compagnia telefonica. Il premio non copriva né il vitto né l’alloggio, però avevo un desiderio irrefrenabile di vedere la città. All’epoca non avevamo molti soldi in banca, quasi zero, perciò non fu una decisione facile da prendere. Le promisi che avrei scritto un articolo sulla vita notturna nel quartiere di Umeda per una rivista di viaggi, così da recuperare il denaro. Anche lei voleva andare in Giappone, aveva bisogno di qualche giorno di riposo. Lavorava al Festival del Cinema di Pusan come assistente alla programmazione mentre io passavo l’estate vagabondando sulla spiaggia con la scusa di star raccogliendo informazioni per un romanzo. Nei mesi freddi mi rifugiavo in una biblioteca pubblica. Fu lì che il desiderio di andare a Osaka s’incubò in me come la malaria. Uno di quei pomeriggi m’imbattei in un’antologia di saggi in inglese sulla letteratura giapponese. Erano quasi tutti noiosi, tranne uno, che lessi tre volte. Parlava della scuola dei Burai-ha, un gruppo di scrittori che abbracciarono l’alcol, le droghe, il sesso e una vita di eccessi come risposta alla crisi identitaria del Giappone durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, così li presentava l’autore all’inizio del saggio. I Burai-ha erano i dissoluti, i ruffiani, i libertini della letteratura giapponese. Uno dei capi di questa “scuola della decadenza” era Sakunosuke Oda.
Il viaggio in traghetto mi avrebbe permesso di vedere la città dove era nato Oda. Avevo in mente un piano molto semplice per quando saremmo arrivati a Osaka: mi sarei riempito la pancia di alcol in memoria dei Burai-ha e avrei cercato di convincere mia moglie a fare una cosa a tre con una ragazza giapponese. Sarebbe stato l’omaggio più grande alla scuola dei decadenti e il mio umile contributo al miglioramento delle relazioni diplomatiche tra Corea e Giappone, sempre tese come la corda di un’arpa. Le mie intenzioni cambiarono non appena entrai in contatto con Park Bong. Alla fine della notte in cui ci conoscemmo, diventai un autore di romanzi polizieschi.
Finora ho pubblicato un solo libro, ma ha avuto grande successo. Si chiama Mani di diamante e il protagonista è un detective con una faccia difficile da ricordare. In altre parole, un perfetto impostore.
Ieri, mentre mi tagliavo i peli del naso davanti allo specchio, dopo aver passato gran parte della mattinata a leggere un racconto, mi è tornato in mente l’incidente che ha causato il mio incontro con Park Bong. Forse, se non fosse stato per la smemoratezza di mia moglie, non gli avrei mai parlato. Mia moglie aveva lasciato la nostra macchina fotografica sul sedile posteriore del taxi che ci aveva condotto al porto, cosa che degenerò in una litigata feroce ancor prima che il Panstar Honey salpasse. Discutemmo per mezz’ora finché non decisi che sarebbe stato meglio separarci per un po’, altrimenti uno dei due sarebbe finito fuori bordo. Quando me ne andai, le dissi che mi avrebbe potuto trovare nella sauna. La nave aveva anche un ristorante, che fungeva da sala principale, un bar, un negozio di souvenir e un piccolo supermercato, così diceva la brochure che ci avevano dato al check-in.
Mi tolsi i vestiti e li misi in un armadietto. Entrando nella zona umida vidi un vecchio che si rimuoveva gli ultimi residui di sapone dal corpo. In fondo, in una piscinetta con finestre che davano sul mare, c’era un altro uomo con un asciugamano sul viso. Sembrava addormentato. Andai alla piscina ed entrai in acqua con cautela, non volevo svegliarlo e beccarmi un’occhiataccia. Il vecchio finì di lavarsi, spense la doccia ed emise un rumore disgustoso mentre si dirigeva verso lo spogliatoio. Aveva sputato in un lavandino come se avesse un enfisema e se con quell’unico gargarismo volesse far uscire tutta la schifezza possibile dal suo corpo moribondo.
“Odio questo suono. Lo odio. Fottuto figlio di puttana”, disse l’uomo accanto a me in perfetto inglese.
“Anche io lo odio”, risposi a bassa voce, come dicendolo a me stesso.
L’uomo si asciugò la faccia, si immerse nella piscina per due secondi, riemerse in superficie e, dopo essersi asciugato, mi parlò cerimoniosamente.
“Non vorrei sembrarle indiscreto, ma posso chiederle da dove viene?”
“Sono colombiano”, risposi svogliatamente, pensando che l’uomo non avrebbe avuto la benché minima idea di dove fosse il mio paese natale.
“Oh, che bello! Conosco uno che vive in Colombia. Ha un’accademia di taekwondo. Il suo cognome è Moon… il maestro Moon. Ma in realtà si occupa di qualcos’altro, diciamo che fa un lavoro un po’ passato di moda.”
Non mi di diede il tempo di chiedergli che lavoro facesse il suo conoscente. Quando finì la frase, si avvicinò e mi tese la mano, dopo averla asciugata accuratamente con la salvietta.
Si presentò con il nome completo. Aveva tre componenti ma ricordo solo i primi due, Park Bong. Quando lo raccontai a mia moglie tempo dopo, lei mi disse che non aveva senso, nessuno si chiama Park Bong in Corea. Era completamente assurdo.
Lui fraintese il mio nome a sua volta, dato che nelle occasioni in cui ci vedemmo lungo quella notte insistette a chiamarmi Andrea anziché Andrés. Gli dissi che ero uno scrittore e che era la prima volta che andavo in Giappone. Avevo in mente di scrivere un romanzo corto e affilato nel miglior stile dei Burai-ha. Menzionai Oda e la sua relazione con Osaka, la sua morte per un’emorragia, non so bene perché. Immagino che fossi nervoso. Era da parecchio tempo che non parlavo con nessuno che non fosse mia moglie.
Pensai che quell’uomo non sapesse niente dei decadenti, i dissoluti, i libertini della letteratura giapponese, invece lo avevo sottovalutato di nuovo.
“Certo, so chi sono. Un tempo trasportavo cose dal Giappone su commissione. Libri, film, manga, videogiochi. Una volta, un professore dell’Università Nazionale di Seul mi chiese un paio di libri di Oda. Non so se lei lo sappia, ma fino a qualche anno fa portare tutte queste cose in Corea dal Giappone era illegale.”
Oltre a raccontarmi in poche parole di essere stato un contrabbandiere, durante la nostra prima chiacchierata Park Bong accennò a qualche altra cosa sulla sua vita, tra le altre che aveva vissuto tra il Giappone e la Corea fin da piccolo.
Aveva imparato l’inglese da molto giovane, vicino a una base militare americana a Jinhae-gu, perfezionandolo in un’altra base nordamericana a Sasebo. Visto il mio crescente interesse, disse: “Posso continuare a parlarle di me, ma dobbiamo prima fare un accordo”.
Dopo che Park Bong mi ebbe spiegato brevemente la sua proposta, rimasi lì a pensare, avvolto nel vapore. Il sole aveva iniziato a tramontare. Attraverso la finestra si vedeva il mare color piombo. Uno degli adolescenti che facevano parte di una numerosa comitiva studentesca a bordo si fece una doccia veloce e si diresse verso la nostra piscina.
Sapevo che dovevo dare una risposta a Park Bong. Non avrebbe continuato a parlare di fronte a un’altra persona. Gli dissi di sì, che l’avrei fatto, che ero d’accordo.
Park Bong annuì e uscì dall’acqua quasi nello stesso momento in cui ci entrò il ragazzo. Riuscii a intravedere il suo corpo nudo. Aveva una pancia incipiente, però le braccia e le gambe erano quelle di un lottatore professionale. Da quel momento nella mia testa i suoi molteplici volti appaiono sempre attaccati a quel corpo incorruttibile.
Durante la cena sistemai le cose con mia moglie mentre mangiavamo una zuppa di pesce. Presto fu di buon’umore anche se io non dicevo quasi nulla, ero preso dall’impressione profonda che Park Bong aveva lasciato su di me.
Era come se il grande Toshiro Mifune fosse uscito dallo schermo di un cinema e mi avesse parlato. Le sue sopracciglia e la linea della mascella erano le stesse.
Park Bong aveva lasciato un bigliettino nel mio armadietto della sauna nel quale mi dava appuntamento alle undici di sera al bancone del bar. Contavo i minuti che mancavano al mio nuovo appuntamento con lui.
Alla fine della cena dissi a mia moglie che sarei andato a dormire presto, non volevo essere stanco durante il nostro primo giorno a Osaka. Lei era d’accordo. Ci salutammo con un bacio breve in un corridoio. Dormivamo in cabine separate, il biglietto che avevamo vinto alla lotteria era di classe B, il che significava condividere la stanza con altri uomini e donne. La classe C consisteva in un grande salone per quaranta persone con futon per dormire sul pavimento e la classe A, nella quale avevamo cercato di farci mettere quando avevamo fatto il check-in, era composta da cabine singole o doppie.
Park Bong arrivò al nostro appuntamento con quindici minuti di ritardo. Feci fatica a riconoscerlo vestito, indossava una giacca di pelle color vinaccia.
Non si perse in convenevoli, appena si sedette mi spiegò che l’uomo che dovevo seguire lo conosceva molto bene, per questo aveva bisogno del mio aiuto. Erano tre mesi che lo seguiva, ma mai a meno di venti metri di distanza e temeva che lo scoprisse a bordo del traghetto.
“Sono sicuro che potrebbe riconoscere il mio odore. Abbiamo lavorato insieme, siamo stati nello stesso ufficio per quindici anni. Le nostre scrivanie erano una accanto all’altra “, disse mentre chiedeva due birre al barista.
Durante la nostra conversazione nella sauna, Park Bong mi aveva detto di aver lavorato per un’unità dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale coreana che si occupava della censura dei film. Aveva visionato migliaia di lungometraggi negli anni Settanta. Doveva valutarli su una scala da uno a cinque secondo una tabella stabilita dai suoi capi: propaganda comunista, destabilizzazione del governo, offesa alla morale, consumo di droghe e linguaggio inappropriato.
Quando un film coreano riceveva cinque punti, Park Bong doveva attaccarsi alla schiena del regista come una ventosa e scrivere un rapporto settimanale.
Mentre bevevamo una Kirin ghiacciata, lo istigai con cautela affinché continuasse a parlarmi del suo passato. Non resistette.
Dopo aver lavorato nei servizi segreti e aver fatto carriera come contrabbandiere tra la Corea e il Giappone, Park Bong aveva aperto un ufficio investigativo vicino al porto di Pusan, ma la cosa veramente straordinaria della sua vita, secondo lui, era la relazione che lo legava alla sua segretaria.
La mia ricompensa per seguire il suo ex collega fino al supermercato del traghetto, guardare la sua mano destra e contare il numero di petali del fiore che aveva tatuato sul dorso quando andava a pagare, sarebbe stata raccontarmi tutto su Yuri Kawahara e quel legame che lui stesso aveva descritto come un mistero della natura.
“Non ha niente a che vedere con una volgare storia d’amore. Vale la pena che glielo racconti, non se ne pentirà”, disse sorridendo.
Poco prima dell’una di notte, Park Bong pagò le birre e mi mostrò la cabina dell’uomo. Apparteneva alla classe A.
“Le sue abitudini alimentari sono molto strane, è come se il suo stomaco fosse in un altro fuso orario, pranza sempre alle cinque del pomeriggio e cena alle tre del mattino”, mi disse.
A quell’ora avrebbe lasciato la sua stanza e si sarebbe diretto al supermercato a comprare dei noodles istantanei. Io sapevo già cosa fare.
“Ci vediamo alle tre e mezza sul ponte, vicino ai tavoli da pingpong”, disse Park Bong allontanandosi, con le mani infilate dentro alle tasche della sua giacca di pelle.
Vagai per un poco per i corridoi della barca finché non decisi di sbirciare nel salone principale, attratto da grida e applausi rumorosi. Due dozzine di studenti stavano guardando una delle cameriere russe ballare la danza dei sette veli, la stessa cameriera che ci aveva accolto quando eravamo entrati nella nave.
Grazie alle locandine del programma all’ingresso del salone, scoprii che un’altra di loro, di nome Irina, avrebbe cantato. La chiusura dello spettacolo l’avrebbe fatta un mago che lavorava anche da receptionist.
Il tutto fu lungo e insopportabile. Irina stonò varie volte, avvolta in un vestito ricoperto di perline blu, e al mago tremavano le mani. Sembrava più nervoso di me.
Alla fine dello spettacolo, la maggior parte delle persone andò a dormire. Accanto al mio tavolo un paio di uomini erano piuttosto ubriachi. Uno di loro ordinò una seconda bottiglia di whisky, mentre io guardavo le luci delle città costiere fuori da una grande finestra. A quel punto ci eravamo già allontanati del tutto dalla penisola coreana e stavamo iniziando a transitare nel mare interno del Giappone. Oltre la finestra sfilavano una ruota panoramica e alberghi ricoperti di fiori al neon come enormi torte glassate. L’acqua nera lambiva i fianchi della barca.
Prima di alzarmi, restai per un bel po’ a fissare un palloncino all’elio che il mago aveva usato nel suo spettacolo. Era in un angolo del soffitto. Il tempo passò così, finché non arrivò il momento di portare a termine il mio incarico.
L’uomo uscì dalla sua cabina alle tre del mattino, però non andò direttamente al supermercato, come aveva predetto Park Bong. Si diresse invece verso il ponte.
Lo seguii da lontano. Un insolito afflusso di sangue invase tutte le camere del mio cuore e lo sentii espandersi fino al doppio della sua dimensione.
Mi mimetizzai tra degli adolescenti che deambulavano come branchi di pesci con i loro telefoni in mano. L’uomo si sedette su una delle panche vicino ai motori. Io mi appoggiai a una ringhiera, rivolto verso il vuoto, verso lo spessore della notte. Dopo cinque minuti si alzò e andò da Irina, che era tornata a indossare la sua uniforme e fumava in un angolo. Le chiese un accendino. I due rimasero una di fronte all’altro a fumare per qualche secondo, senza dirsi nulla.
Mi allontanai, non potevo restargli vicino così a lungo senza destare sospetti, così scesi nel salone principale. Il mio obiettivo sarebbe dovuto passare di là in ogni caso per andare al supermercato. Giocai le mie carte come meglio potei, già convertito in un apprendista detective.
Se è vero che aggiunsi parecchie cose alla vita di Park Bong quando lo resi protagonista di Mani di diamante, compreso il fatto che aveva dovuto nascondersi per un anno in un monastero buddista, tante altre le trascrissi invece esattamente come me le raccontò quella notte.
Poco tempo dopo la pubblicazione del romanzo, diversi lettori mi scrissero in merito. Alcuni dicevano che ciò che più gli era piaciuto nel libro era la tecnica sorprendente che il detective e la sua segretaria usavano per risolvere i casi più complicati. La tecnica, sempre che si possa chiamarla così, fu una delle cose che trascrissi tali e quali a come me l’aveva raccontata Park Bong alla fine di quella notte sul ponte del traghetto.
Yuri Kawahara e Park Bong si conobbero una domenica a una partita di baseball. La squadra di Pusan stava perdendo, come sempre. Gli insulti degli affezionati andavano e venivano, però quelli di Park Bong, che era andato da solo allo stadio, erano talmente disperati che fecero ridere un paio di volte Yuri e l’amica che era con lei. L’amica gli era piaciuta fin dall’inizio, così alla fine della partita le invitò a bere una birra e a mangiare del pollo. Le convinse dicendo loro che avevano bisogno di soffrire insieme per l’umiliante sconfitta della squadra, però, per la tristezza di Park Bong, l’amica se ne andò subito dopo il primo boccale di birra.
Yuri decise di restare, in ogni caso abitava con sua madre molto vicino allo stadio. Gli disse che aveva finito l’università e che stava cercando un lavoro, per ora dava una mano in un negozio di giochi matematici per bambini.
Il detective le disse che aveva un ufficio e che forse aveva bisogno di un’assistente. Menzionò la cosa da ubriaco, per impressionarla.
Alla fine della serata Yuri aiutò Park Bong a prendere un taxi, dopo averlo trovato addormentato sul tavolo di ritorno dal bagno.
Il lunedì seguente, verso le dieci di mattina, mentre Park Bong beveva una bottiglietta di Sunrise 808 per contrastare i postumi e guardava il disimbraco di una nave con bandiera vietnamita dalla finestra che dava sul porto, Yuri bussò alla sua porta.
Non sapeva come avesse trovato l’ufficio che condivideva con un’agenzia che reclutava marinai. Era certo di non averle dato l’indirizzo.
“Credo che potrei aiutarla con il suo lavoro”, gli disse la giovane, orgogliosa di aver trovato il detective.
Park Bong suppose che avesse frugato nel suo portafoglio mentre dormiva e avesse tirato fuori uno dei suoi biglietti da visita. Niente male.
L’assunse il giorno stesso, nonostante all’epoca avesse pochi clienti.
Yuri era tranquilla, metodica, forse troppo servizievole per i suoi gusti. Gli portava caffè nero e torte di riso alla mattina o una zuppa di pesce piccante se appariva nel pomeriggio dopo una lunga sbronza. Non solo pagava i conti dell’ufficio, ma si occupava anche della contabilità dell’appartamento di Park Bong e teneva persino aggiornate le tasse della sua macchina. A volte mangiavano insieme, l’ultimo giorno del mese, in un ristorante di sashimi di tonno, o lei lo accompagnava a visitare un vecchio amico che aveva un negozio di dischi usati. Lou, questo era il suo soprannome, aveva preso in simpatia Yuri. La giovane ne sapeva di musica, soprattutto di rock coreano e giapponese degli anni Sessanta, una cosa rara tra le ragazze della sua età.
Una notte qualunque Park Bong la invitò a mangiare nel suo ristorante preferito. Era nervoso perché non riusciva a risolvere un caso e aveva bisogno di svuotare la testa. Di fronte a una griglia piena di fette sottili di pancetta di maiale, Yuri gli raccontò qualcosa della sua famiglia, del padre giapponese e della madre coreana. Il padre era stato un cantante relativamente famoso a Osaka. La sua versione di Bésame mucho aveva venduto bene negli anni Settanta ed era in parecchi bar karaoke della città.
Morì di un attacco di cuore sul palco e Yuri tornò con sua madre a Pusan. Non si era mai sentita a casa in nessuno dei due Paesi, gli confessò. La notte terminò in un motel vicino al porto.
L’uomo del tatuaggio entrò nel supermercato e senza esitare afferrò una confezione di noodles piccanti, la stessa marca che mangiavo io sulla spiaggia nei pomeriggi in cui non avevo nulla da fare. Andò verso le casse e io lo seguii con il primo articolo che trovai. Tra noi due c’era una signora grassa che superai per mettermi dietro all’uomo. Era arrivato il momento decisivo. Le mie gambe andavano avanti e indietro come edifici che tremano durante un terremoto. L’uomo tirò la mano destra fuori dalla tasca e porse una banconota nuova. Vidi un pezzetto del fiore. Era rosso, sembrava un’azalea. Mi avvicinai più che potei e allungai il braccio dall’altra parte del bancone per afferrare un fermaglio per capelli accanto al registratore di cassa. Avevo bisogno di un’angolazione migliore mentre il tipo aspettava che il cassiere ricevesse la banconota. Finalmente ebbi il fiore nel mio campo visivo, completamente scoperto. Iniziai a contare i petali, uno, due, tre, quattro, cinque. In quel momento sentii una voce accanto a me.
“Che ci fai sveglio? Perché hai un fermaglio in mano?”
Era mia moglie. La guardai per un secondo, trasalendo, ma tornai subito alla mano dell’uomo. Non c’era più. Era tornata nella sua tasca e non l’avrei mai più rivista.
Non ricordo cosa dissi a mia moglie, però lei uscì dal supermercato indignata. Prima di tornare alla sua cabina, l’uomo mi guardò negli occhi. Sentii come se il mio corpo passasse attraverso un potente tritacarne che mi triturava i muscoli, i tendini e persino le ossa. Era ovvio che sarebbe stato impossibile seguirlo senza venir scoperto e mezz’ora dopo avrei avuto l’ultimo appuntamento con Park Bong. Non potevo dirgli che l’avevo deluso, ma soprattutto non potevo restare senza conoscere il finale della storia tra lui e la sua segretaria.
“Sicuro? Sei assolutamente sicuro che il fiore avesse sei petali?”
“Sì, l’ho visto di sfuggita ma sono sicuro. Ne ho contati sei.”
“Fino a una settimana fa ne aveva cinque. Che strano. Merda, adesso è tutto più complicato.”
Non c’era nessuno sul ponte. Passammo sotto un ponte gigantesco e il freddo dell’alba ci avvolse. Park Bong prese una sigaretta e restò in piedi, pensieroso. Quando ebbe finito di fumare, mantenne la sua promessa.
“Quella notte l’avrei licenziata. Non aveva senso che sprecasse la sua vita in ufficio, era ancora giovane, poteva trovare un lavoro migliore. E in più era fidanzata, anche se non vedeva mai il suo ragazzo. Stava quasi tutto il tempo con me.”
Il caso a cui stava lavorando Park Bong in quei mesi riguardava un truffatore. Il suo cliente gli aveva versato un generoso anticipo e Park Bong era arrivato molto vicino a risolvere il mistero, però alla fine c’era sempre qualcosa che non quadrava. Raccontò tutto a Yuri mentre bevevano soju e grigliavano pezzi di pancetta di maiale. Era raro che le rivelasse i dettagli di un caso. Yuri scopriva di cosa si trattassero solo quando li archiviava, una volta risolti.
Park Bong non aveva intenzione di fare sesso con Yuri, me lo assicurò diverse volte. L’idea di andare in un motel era stata di Yuri. Presumeva che fosse molto ubriaca e volesse dormire. Il suo piano era quello di restare nella vasca da bagno finché Yuri non avesse chiuso gli occhi e poi sdraiarsi sul divano, ma quando vide i piedi della sua segretaria la sua volontà cedette per intero. Erano stupendi, piccoli, statuari, pieni di eternità, queste furono le parole che usò per descrivermeli. Aveva le dita proporzionate e le unghie pitturate di rosso sangue. Un dettaglio semplice che scatenò un’onda di desiderio in Park Bong.
“Sono un podofilo” – mi confessò con una risata amara, prendendo un’altra sigaretta – amo i piedi delle donne”.
Quando Park Bong andava una volta al mese nei bordelli di Texas Street a Pusan o in quelli di Tobita Sinchi a Osaka, chiedeva che la prostituta gli mostrasse i piedi prima di prendere un accordo. Li studiava come un botanico di fronte a una possibile scoperta e solo se gli fosse piaciuto l’arco, il tacco e le piante avrebbe pagato per una notte al suo fianco. Era difficile che succedesse, raramente si era imbattuto in piedi perfetti. Anche se Yuri aveva dei piedi degni di adorazione, non era questo che li univa.
“Quello che è successo va al di là della mia stessa comprensione”, mi disse.
Quando arrivò a questo punto della storia mi guardò con quegli occhi senza speranza. Capii che fino a quel momento non aveva raccontato il suo segreto a nessuno. Qualcosa in me, qualcosa che io stesso non conosco, lo spinse a raccontarmi che nel pieno di un orgasmo, durante quella prima notte, Yuri gridò due parole completamente sconnesse, senza rendersene conto.
Il mattino dopo, però, le parole continuavano a risuonare nella testa del detective. Le parole erano state: “granchio blu”.
Grazie a queste, Park Bong chiuse il caso. “Granchio” era il soprannome del padrone di un negozio di tè famoso per il giro di scommesse. Era lui che aveva pianificato la truffa ai danni del cliente di Park Bong. Blu era il colore del cassetto dove trovò le prove che lo incastravano.
Durante il tempo in cui Yuri lavorò nell’ufficio, fecero sesso nove volte per cercare di risolvere i casi più complicati. Tuttavia, la sua segretaria non fu sempre in grado di rivelare una frase o un numero utile. Poteva farlo solo se Park Bong la portava all’estasi sessuale suprema.
“Per fare ciò dovevo impegnarmi a fondo e, come lei può vedere, non sono più tanto giovane”, mi disse.
L’ultima volta che fecero sesso, Yuri era sposata.
Quando finì di raccontarmi la storia, il detective si ritirò in un angolo e inviò un messaggio dal suo telefono.
“Non vedo Yuri da due anni. Ora vive a Osaka con suo marito. Le ho chiesto di incontrarci un’altra volta. Ho bisogno di risolvere questo caso. Se ci riesco, potrò ritirarmi dalla scena. Non ne posso più dell’ufficio”, fu l’ultima cosa che gli sentii dire.
Quella sera stessa, avevo tutta la trama di Mani di diamante. Presi appunti in un quaderno, illuminato dalla luce dello schermo del mio telefono. Esausto, mi ripromisi di parlare con Park Bong una volta sorto il sole per dirgli che non era sicuro di quanti petali avesse il fiore. Lo cercai ovunque. Non lo vidi né nella sauna, né nel supermercato, né sul ponte.
Bussai alla cabina di mia moglie e le raccontai quello che mi era successo quella notte. La pregai di aiutarmi a trovarlo. Percorremmo il Panstar Honey da un capo all’altro, ma non lo trovammo da nessuna parte.
Quando arrivammo a Osaka, andai a restituire la chiave della mia cabina. Dopo aver firmato un foglio, ricevetti un bigliettino dal mago della sera prima.
Ci vediamo all’uscita dell’immigrazione. C’è solo un cancello. Le dirò come arrivare al Jijuken, il ristorante dove andava Oda con i suoi amici scrittori.
Non l’aveva firmato. Al posto della firma, Park Bong aveva disegnato un animale che in quel momento mi parse un lupo. Mia moglie disse che era una volpe, quando glielo mostrai. Avevo ancora tempo per dirgli la verità sul tatuaggio.
Mi ci volle quasi un’ora per passare i controlli dell’immigrazione a causa del mio passaporto. I doganieri erano convinti che stessi trasportando droga. Controllarono la mia valigia diverse volte. Presero il mio shampoo e lo misero in una macchina a raggi X. Mi mostrarono una cosa simile a un catalogo della spesa, però anziché scarpe, gioielli e profumi c’erano immagini di armi automatiche, buste piene di pasticche, una grossa mazzetta di banconote e una montagnetta di polvere bianca. Mi chiesero se avessi con me una di quelle cose. Poi mi fecero spogliare in una stanza. Alla fine si scusarono. All’uscita dal terminal non c’era nessuno. In un posacenere vidi tre mozziconi di sigaretta. Ne presi una per controllare la marca. Era la stessa che fumava Park Bong, la stessa che fuma il protagonista di Mani di diamante.
A volte penso che non fosse un detective né niente di simile. Magari non aveva nemmeno idea di dove fosse la Colombia o di chi diavolo fosse Oda.
Aveva letto la mia vita in due secondi, ancora prima che si fosse tolto l’asciugamano bagnato sapeva chi ero e di che cosa avevo bisogno. Durante quelle ore a bordo del Panstar Honey si mise delle briciole di pane in mano affinché io le beccassi come un passerotto e non lasciassi il suo fianco. Magari mi aveva raccontato tutte quelle storie per non annoiarsi. C’era la possibilità che prendesse il traghetto una volta alla settimana per affari e che semplicemente l’uomo del fiore fosse suo socio. Non li vidi mai insieme.
Altre volte penso a quello che Park Bong aveva dovuto fare a causa mia. Aveva dovuto inginocchiarsi davanti a Yuri affinché facessero sesso un’altra volta, così da risolvere il caso con il quale ritirarsi.
Ho menzionato che ieri mi sono ricordato di nuovo di Park Bong dopo aver finito di leggere un racconto sdraiato sul mio divano di pelle, davanti a una grossa finestra dalla quale si vede il mare che separa la Corea dal Giappone. Chiudendo il libro, i suoi lineamenti mi sono tornati alla mente come quelli del volto perfetto di un attore veterano o di un santo, in ogni caso di qualcuno fuori dal tempo. Però la maggior parte delle volte la sua faccia è una tela bianca, un pianeta vuoto.
Mia moglie e io non dobbiamo non dobbiamo più preoccuparci per i soldi. I diritti del romanzo continuano ad arrivare sul mio conto e un produttore mi ha contattato per un adattamento cinematografico, però da un certo punto di vista sono ancora dov’ero al principio.
Dopo Mani di diamante non sono riuscito a scrivere niente. Per disperazione, ho provato invano a portare mia moglie all’estasi sessuale suprema per farmi rivelare la trama di un nuovo libro nel mezzo di un suo orgasmo. Ho anche preso il traghetto da Pusan a Osaka quattro volte, nella speranza di incontrare Park Bong.
L’ultima riga del racconto che ho letto ieri recita: “La volpe è il dio dell’astuzia e del tradimento. Se lo spirito della volpe penetra in un uomo, la sua razza è maledetta. La volpe è il dio degli scrittori”.
Forse Park Bong è uno scrittore, un vero scrittore, l’ultimo dei Burai-ha, e io sono in una delle sue storie. Forse anche lui sta cercando invano di ricordare il mio volto.
Testo Andrés Felipe Solano
Illustrazioni Bernardo Anichini
Traduzione Linda Farata