la creazione della razza umana

Mio fratello Rocco aveva accettato di farsi rinchiudere dentro una gabbia di cristallo di venti metri quadri, nudo, solo, senza null’altro se non del terriccio sparso per terra, tre alberi da frutto [1], alcuni cespugli, pietre di varie dimensioni, un rigagnolo che sgorgava da non si sa dove e finiva non si sa dove, delle casse da cui proveniva il canto di uno squadrone di ghiandaie, rami secchi accatastati sotto uno degli alberi, una famiglia di scoiattoli [2], due rane, un serpente non velenoso, un’iguana capace di mimetizzarsi cambiando colore e alcuni fornelli ben nascosti tra i cespugli, utili a mantenere costante la temperatura dell’habitat. L’organizzazione per cui lavorava mio fratello aveva installato queste gabbie di cristallo in alcune tra le principali piazze della nostra città.
Si trattava di una forma d’arte: “La Creazione della razza umana”.
Rocco aveva accettato di sopravvivere per due settimane dentro l’habitat, sotto gli occhi indiscreti dei passanti, senza aiuto esterno. I primi giorni erano stati facili, gli ultimi difficili. Rocco aveva scoperto a sue spese che nel rigagnolo non scorreva acqua, ma vodka. L’idea era di mettere in scena una rievocazione storica non accurata. Rocco doveva interpretare un Adamo appena piombato nel giardino dell’Eden e la vodka, secondo le intenzioni dell’organizzazione, avrebbe dovuto aiutarlo a rompere il ghiaccio nel nuovo ambiente, facendogli dimenticare la presenza di tutti quegli estranei con il naso schiacciato contro un vetro sempre più imbrattato di scritte sconce. Le cose si erano messe male il nono giorno, quando il serpente aveva morso la mano di Rocco.
La persona che aveva fornito il serpente, un fissato con i rettili amico di amici di un tipo che lavorava nell’organizzazione, si era confuso e aveva procurato un esemplare il cui morso provocava allucinazioni.
Non che i primi giorni fossero stati uno spasso, tra fame e ubriacatura costante, ma dopo il morso di serpente il comportamento di Rocco si era fatto bizzarro. Per la maggior parte del tempo Rocco se n’era rimasto accucciato accanto al rigagnolo, con lo sguardo perso nel vuoto, cantando canzoni dello “Zecchino D’oro”. I passanti avevano iniziato a prenderlo in giro, indicandolo con il dito e dicendo cose come:
“Ecco la scimmia umana”
“Che ridicolo”
“Sentite come canta male”
Gli rivolgevano ululati intimidatori. Come se si rivolgessero a una bestia delle terre selvagge. Non era stato un bel vedere e in certi momenti avevo pensato Povero Rocco, chi te l’ha fatto fare.
All’epoca non sapevo ancora che nella vita, per guadagnarsi la pagnotta, bisogna scendere a compromessi e fare cose che ti fanno male al cuore.
Per tutta la durata dell’esposizione, mi ero limitato a lanciare occhiate di incoraggiamento a Rocco.
Manca poco
Tieni duro
Sei il migliore
Di notte, quando non c’era nessuno, mi avvicinavo alla gabbia e cercavo di convincere mio fratello a resistere. Lui si limitava a fissarmi. I suoi occhi dicevano: Grazie.
Poi l’esposizione si era conclusa. Rocco era riuscito a sopravvivere per quindici giorni nutrendosi di terriccio e frutta e i tipi dell’organizzazione gli avevano detto che era stato bravo e che l’esperimento, ops, interpretazione, era andata meglio del previsto, e tutto ciò era stato possibile grazie al modo in cui Rocco era sopravvissuto, ops, aveva performato in “La Creazione della razza umana”.
La rievocazione storica non accurata aveva riscosso un grande successo. Ne avevano parlato anche in Tele. Quando i tipi dei giornali avevano chiesto a Rocco se quella a cui si era prestato fosse arte, lui li aveva guardati con il sopracciglio sollevato e facendo ballare la mano morsa dal serpente (che nel frattempo si era gonfiata ed era diventata blu) davanti al loro naso aveva chiesto: “Voi questa la chiamate arte?”.
E i tipi della tele avevano risposto: “Be’, sì”.
Rocco non aveva saputo come ribattere.
Aveva farfugliato: “Allora chiamatemi artista”.
E i tipi della Tele lo avevano applaudito, per lo più restando seri.

Passarono le settimane. Nubi, sole, pioggia, grandine e simili.
Poi un giorno mio fratello Rocco venne in camera mia, si sedette sulla scrivania e disse: “Ti devo parlare”.
Disse: “Ho una proposta per te. Per noi. Per la nostra famiglia”.
Io guardai Rocco e dissi: “Sì, ma io devo studiare”.
Ed era vero. Stavo preparando l’esame di diritto penale. Presi il manuale dalla libreria e mi misi a sfogliarlo. Lessi un articolo ad alta voce, mi impappinai, poi lanciai il tomo per terra. Maledissi la memoria, maledissi il diritto penale, maledissi i criminali!
Rocco mi guardò. Disse che avrei potuto continuare a studiare, più tardi, ma adesso avrei fatto meglio ad ascoltarlo. In realtà, le sue parole furono: “Oggigiorno con una laurea in giurisprudenza non vai da nessuna parte”.
Disse: “Non con la tua faccia”.

Forse è il caso che dica qualcosa sul mio bel sorriso.
La storia comincia con il sottoscritto che va dal dentista per l’estrazione dei denti del giudizio. La storia prosegue con il sottoscritto che esce dall’ambulatorio con una paresi facciale permanente. Da quel giorno, non posso fare a meno di sorridere. Anche quando sono triste per un esame andato male o per il cuore infranto. La storia finisce con il sottoscritto chiamato da tutti Signor Sorriso [3].
Scossi la testa. “Be’, vieni al dunque”.
Rocco si spazzolò via della forfora dalle spalle. Disse: “Torno a fare arte”.
Lo guardai. “Intendi dire che torni a farti offendere”.
Lui sospirò e si guardò la punta dei piedi. “L’arte è qualcosa di importante. Questa volta mi pagano pure”, disse. “A proposito”. Piccola pausa. “Ho fatto in modo che ti dessero un lavoretto. Manutenzione gabbie. Non dovrai fare niente, solo pulire le scritte oscene dalle pareti di cristallo. E stare con me”.
Rimasi in silenzio. Rocco mi diede un pugno amichevole sul braccio e disse: “Del resto, l’hai fatto anche l’altra volta”.
“Non voglio che le persone ti trattino come l’ultima volta”.
Rocco mi strappò il manuale di mano, lo sfogliò, poi lo ripose su uno scaffale. Disse: “In effetti questa volta sarà molto diverso. Vedrai”.

la creazione

Venne fuori che dopo l’esposizione “La Creazione della razza umana”, l’organizzazione No Profit per cui “lavorava” mio fratello aveva ricevuto diverse proposte interessanti. Molti cittadini erano interessati a sborsare un bel po’ di grana per ospitare, presso la propria abitazione, la gabbia, pardon, l’esposizione artistica.
I tipi dell’organizzazione No Profit avevano detto: “Di quali donazioni stiamo parlando?”
Avevano ascoltato.
Poi avevano detto: “Assolutamente favorevoli. Continuare a produrre arte è la cosa più importante, per noi.”

E così la gabbia di cristallo adesso troneggiava nel giardino della villa ottocentesca in stile coloniale di un nobile decaduto, un nobile con le mani immerse nel commercio del caffè e delle regate nell’Adriatico. Uno con soldi a pacchi. E io avrei “lavorato” nel suo bellissimo parco, circondato da alberi di tutti i tipi, dal suono della natura.
Il giorno dell’inaugurazione giunse rapidamente.
La “Creazione della razza umana” era del tutto identica a quella in cui Rocco era sopravvissuto per quindici giorni la prima volta. Forse c’era un albero in più [4], ma, per il resto, il Giardino dell’Eden era uguale. Compreso il fiume di vodka. Compresi il serpente e la famiglia di scoiattoli.
Prima che Rocco entrasse nella gabbia, dissi: “Mi raccomando, fa attenzione. Ricorda la lezione imparata l’ultima volta”.
Rocco, già semi nudo e infreddolito, senza guardarmi disse: “Quale lezione? L’altra volta è stato divertente”. Si voltò e chiese: “Intendi occhio al fiume di vodka?”
Io risposi: “Intendo, più che altro, occhio al serpente velenoso”.
Rocco sbuffò, poi finì di svestirsi ed entrò nella gabbia.
I capoccia dell’organizzazione No Profit dissero: “Che l’esposizione abbia inizio”.
Tagliarono un nastro giallo. Il pubblico applaudì.
Mio fratello salutò i giornalisti, che stavano scattando un sacco di foto con i loro smartphone. C’erano anche delle persone comuni, che presero a insultare il mio fratellone fin da subito. Mi chiesi se non fossero pagate da qualcuno. Se non facessero parte anche loro dell’esposizione artistica.
Ad ogni modo, tutto cominciò com’era finito l’ultima volta. Rocco si ubriacò di vodka in meno di un’ora. Iniziò a inveire contro gli spettatori, che, di riflesso, imbrattarono di scritte la gabbia di cristallo e a urlare contro Rocco frasi offensive. Io mi misi a strofinare le scritte con un panno. Questa volta sarà tutta un’altra cosa un cavolo.
La prima giornata finì senza spargimenti di sangue. Forse, pensai, le persone si sarebbero stufate di invadere una proprietà privata per osservare Rocco dentro il Giardino dell’Eden.

Il secondo giorno arrivai di buon’ora nel giardino del nobile decaduto, con l’intento di pulire la gabbia di cristallo e tenere un po’ di compagnia a Rocco. Trovai il cancello della villa chiuso. Suonai e dovetti spiegare a una voce robotica chi ero e perché mi trovavo lì. Il cancello si aprì. Entrai.
Nessun facinoroso. Nessuno spettatore violento. Accanto alla gabbia di cristallo c’erano tre sdraio, un tavolino, e quattro persone. Tre erano sedute sulle sdraio, una era il maggiordomo. Stava sventolando un grande ventaglio rosso. Evidentemente, il nobile decaduto e la sua famiglia desideravano godere la loro opera d’arte godendo di assoluta privacy. Come dargli torto?
Mi avvicinai e salutai con un cenno del capo. Il nobile inforcò un monocolo dorato e disse: “Chi si vede”.
Io guardai Rocco, che si strinse nelle spalle. Chiesi: “In che senso?”
Il nobile disse: “Be’, ti aspettavamo qui un’ora fa. C’è un mucchio di lavoro da fare”.
Così dicendo, indicò la gabbia. Presi secchiello e panno di daino e mi misi a pulire tutto quel cristallo scintillante.

la creazione 2

Le ore passarono. Mi accorsi che il nobile, sua moglie e il maggiordomo se n’erano andati via. La figlia, invece, era lì, il naso schiacciato contro la gabbia. Ma non stava facendo boccacce contro Rocco. Stava sorridendo. Il suo fiato formava grandi fumetti bagnati nel cristallo.
Dissi: “Ehi. Così non è che mi aiuti granché”.
Ma quella niente. Come se non mi avesse sentito. Intanto Rocco si stava facendo i fatti suoi. Ossia: si stava abbeverando alla fonte della vodka.
Sentii delle voci provenire dalla villa:
“Secondo te, se gli buttiamo dentro gli avanzi del pranzo, li mangia? Non è che ce li butta indietro? Sarebbe sconveniente.”
Scossi la testa. Neanche un giorno, e Rocco aveva già cominciato a comportarsi come un perfetto animale domestico. Me ne andai a casa. Il bello del lavoro per un’organizzazione No Profit. Il brutto era che quella gente stava sfruttando mio fratello.

Il giorno seguente trovai un cuore di rossetto disegnato sul cristallo. Pulii via il cuore, sussurrai poche frasi di conforto a Rocco, poi sistemai l’impianto di illuminazione e me ne andai via.
Il terzo giorno il cuore era di nuovo lì. Mi avvicinai alla gabbia. Cercai di attirare l’attenzione di Rocco sbattendo il pugno contro il cristallo. Rocco barcollò nella mia direzione. Dissi: “Mi spieghi cosa sta succedendo?”
Indicai il cuore.
Rocco si strinse nelle spalle. Poi tornò alla sua fonte di vodka. Se non altro, il serpente non l’aveva morso.
Se non altro, ora mio fratello e il Giardino dell’Eden erano un bene privato, lontano dagli insulti delle persone comuni. Pulii il cuore di rossetto, poi salutai Rocco. Dissi: “Non esagerare con la vodka. Stai al caldo. Su, che non manca molto.”
L’indomani, accanto all’ormai immancabile cuore di rossetto, ce n’era uno di fango. Evidentemente realizzato da mio fratello Rocco. La figlia del nobile era lì, il naso contro il cristallo. I suoi genitori e il maggiordomo non c’erano. Rocco pure era lì, il naso contro il cristallo. Stava succedendo qualcosa, tra quei due. Mi avvicinai alla gabbia. “Ehi, sto interrompendo qualcosa?”.
Niente da fare. Rinunciai a pulire la gabbia. Mi rollai una sigaretta (sul posto di “lavoro” era rigorosamente vietato fumare, ma al diavolo! Un non-dipendente aveva anche i suoi diritti, no?), la fumai, poi salutai, non ricambiato, Rocco e la sua spasimante, e me ne andai a casa.

Il quinto giorno, la sorpresa. I due cuori erano al loro posto, un po’ sbafati ma riconoscibili. Dei nobili o del loro maggiordomo nessuna traccia. La figlia, però, c’era eccome. Mi stropicciai gli occhi. Era lì, non vicino alla gabbia di cristallo, bensì al suo interno. Doveva essersi calata dalla finestra della sua camera da letto, che affacciava proprio sull’installazione artistica. La ragazza era piena di graffi. Ero a conoscenza del fascino di mio fratello Rocco, ma lì si stava esagerando. Per introdursi nel Giardino dell’Eden, la figlia del nobile doveva aver corso dei rischi. Sembrava contenta. Ah, l’amore!
I due piccioncini se ne stavano uno accanto all’altra, stesi all’ombra di un albero. Cercai di richiamare la loro attenzione, senza riuscirci. Mi venne in mente che, forse, la gabbia era insonorizzata.
A quel punto arrivò il nobile decaduto. Sbucò fuori non so bene da dove. Si avvicinò con un sorriso innocente e mi diede una pacca sulla spalla. Poi vide sua figlia. Mi prese per il colletto.
Urlò: “Linda! Sei caduta dentro la gabbia!”
Si voltò verso di me e disse: “E lei cosa ci fa, lì?”.
Indicò sua figlia, poi me: “Come l’hai fatta entrare? E smettila di sorridere come un deficiente.”
Io provai a discolparmi. Dissi: “E io che c’entro?”.
Il nobile decaduto mollò la presa e iniziò a sbattere i palmi contro la parete della gabbia e a chiamare sua figlia, che per tutta risposta gli sorrise.
A discolpa di Rocco, c’è da dire che la figlia del nobile aveva davvero un bel sorriso autentico, una carrellata di denti aguzzi e bianchissimi.
Arrivò anche la moglie del nobile, che si unì al tentativo di buttare giù la gabbia a suon di schiaffi-da-nobile.
Arrivò anche il maggiordomo, che sorrise e disse: “Ah, i giovani… Ah, la spensieratezza…”
Rollai una sigaretta. La fumai.

Mi piacerebbe che la storia finisse così. Con Rocco e la bella figlia del nobile decaduto per sempre felici e contenti, lì, dentro l’esposizione, “La Creazione della razza umana”. Dentro quella riproposizione farlocca del Giardino dell’Eden.
Ma le cose andarono diversamente. Dopo aver fumato la sigaretta, mi addormentai su una sdraio. Fui svegliato da un ruggito meccanico. Sulle prime pensai di essere dentro un incubo. Un sogno popolato da leoni e altre bestie feroci. Poi, però, mi stropicciai gli occhi e vidi una scena agreste. Il nobile decaduto stava marciando alla massima velocità (che, per inciso, era molto contenuta) a bordo di una specie di ruspa, diretto contro la gabbia di cristallo.
Urlai: “Fermo, è pericoloso!”
Le mie parole finirono macinate dal rumore della ruspa.
“Non lo faccia! È arte”, tentai. “Si possono fare male!”
Ma il nobile niente, come tutti gli altri personaggi di questa storia, rimase sordo alle mie richieste. La terribile ruspa, scagliata alla sua massima velocità, impattò con la gabbia di cristallo, mandandola in mille pezzi.

La famiglia di scoiattoli fu la prima a sgattaiolare via. Passò da una crepa e sparì nella boscaglia che contornava il parco della villa. Poi fu il turno del serpente. Strisciò via sghembo e felice, o questa fu la mia impressione. Infine, da una crepa più grossa uscirono Rocco e la sua bella. Con le mani si coprivano le nudità. Il nobile decaduto urlò: “Fermi lì”.
Si portò una mano al pomo d’Adamo, disse: “Sei la mia opera d’arte. Ho pagato per averti. Non puoi andare via così.”
Ma, a quanto pare, non fui l’unico a restare inascoltato, in questa storia. Mio fratello Rocco e la figlia del nobile decaduto fuggirono nella boscaglia, lì dove erano scappati anche gli scoiattoli e il serpente.
Il nobile e il maggiordomo si lanciarono alla rincorsa, ma bastarono pochi metri e il nobile si dovette inginocchiare, le mani sul petto. Il maggiordomo si chinò su di lui. Disse: “Signore, state bene?”
Disse: “Ah, la vecchiaia.”
Il nobile non rispose. Un altro personaggio inascoltato, a quanto pare.
Mio fratello Rocco e la sua bella riuscirono a scappare. Si infiltrarono nel bosco e di lì chissà dove. In fuga per sempre, assieme agli scoiattoli, ai serpenti, a tutta quell’arte mandata in tanti piccoli pezzi appuntiti.

Da quella volta non ho più sentito Rocco. Nel frattempo, però, mi sono laureato. Adesso, il sorriso perennemente stampato sulla mia faccia non è più un problema. Le persone hanno iniziato a prendermi sul serio. Evviva.
Ma non è questo il punto. Nonostante quanto accaduto alla villa del nobile, la rappresentazione artistica “La Creazione della razza umana” ha continuato a mietere vittime, ops, accoliti. Per dire: ormai nella mia città si possono trovare numerose gabbie di cristallo popolate da giovani nullafacenti in cerca di una svolta inattesa. Del successo. Dell’amore.
Proprio come era successo a quel Rocco, tanto tempo fa.

[1] In realtà gli alberi erano quattro. Tra di essi c’era un “Sorbo degli uccellatori” nano, pianta dal tronco affusolato e dalla corteccia liscia, casa naturale per la piccola avifauna migratoria. Quanto ai suoi frutti, be’, meglio starci alla larga.
[2] Non è certo che si trattasse di una vera famiglia, ma si comportava come se lo fosse: i due cuccioli seguivano gli adulti e quando gli adulti squittivano in direzione dei cuccioli, quelli stavano zitti ad ascoltare. Il maschio adulto, un vero e proprio alpha, si muoveva sulle due zampe posteriori, il petto in fuori, e se provavi a fissare troppo a lungo l’esemplare che, a tutti gli effetti, doveva essere la sua dolce metà, lo scoiattolo alpha si lanciava come un missile contro la parete di cristallo, ci rimbalzava contro, ricaricava le batterie e si lanciava nuovamente, in quella che poteva sembrare un’aggressione o un velato tentativo di suicidio.
[3] Questa parte non è vera. Nessuno mi chiama così. Per tutti sono solo Alberto, grazie a Dio.
[4] O forse il “Sorbo degli uccellatori” era cresciuto e ora appariva come un vero e proprio albero, e non come una pianta. Nei terreni fertili, il “Sorbo degli uccellatori” può raggiungere i venti metri d’altezza, e i suoi frutti diventano grossi come palle dell’albero di Natale (questa parte è inventata: i frutti restano striminziti e terribili).

Testo Matteo Quaglia
Illustrazioni Luca Bastianelli

 

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