il grande atlante del mondo

Hanno iniziato all’improvviso. Anja, mettiti di profilo, così le dicono. La fermano sulle scale, in mezzo al corridoio, mentre sta andando in bagno o si mette la giacca per tornare a casa. Così le dicono: Mettiti di profilo, e poi ridono, è un gioco tra loro.
Allora ride anche lei, perché è la prima volta che la coinvolgono in un gioco. Tutto quello che deve fare è ruotare su se stessa, raddrizzare bene la schiena, tirare in dentro la pancia, e quelle appaiono da sole. Sono piccole, in confronto a quelle delle ragazze che vede uscire dai licei o che incontra per strada, ma sono grandi per una bambina come lei. Si vedono. E tutt’a un tratto è diventata visibile anche lei.
È un gioco. Si gira, si raddrizza, il tutto dura tre secondi al massimo, il tempo che loro ridano, che facciano le loro scene: è come se seguissero un copione. Chiedere, ammirare, sghignazzare. Non sanno nemmeno perché, neanche capiscono il loro stesso gioco; devono farlo e basta, in qualche modo gli è stato fatto intendere. A una femmina dovete guardare questo, di una femmina vi deve interessare questo.

Anja lo sente, un leggero imbarazzo; ma che dovrebbe fare, non l’avevano mai guardata prima. Non aveva mai giocato prima. Che il gioco sia sulla sua pelle poco importa, non può saperlo e non possono saperlo loro. Le sarà chiaro in futuro, ma sarà successo di peggio, nel frattempo, per dare peso a risatine e versacci.
Ma intanto. Intanto il suo corpo cresce e va per conto suo, non è lei a controllarlo. Se lo ritrova sempre in mezzo, grande nella sua esistenza piccola, ingombrante nelle sue cose minime. È come se volesse correre velocemente in avanti, mentre lei no, lei vorrebbe restare lì. Lì, nella sua esistenza piccola, nella sua infanzia smentita dall’involucro. Nel mondo fuori ha le tette – non un seno, non un petto. Nel mondo dentro non c’è corpo.

valallart

Il mondo dentro può esistere solo nella stanza di Giulia. A volte la sogna, ma non ha pareti, è uno spazio aperto lanciato verso l’alto, verso un cielo con stelle tanto luminose da essere irreali per una bambina di città. La stanza di Giulia ha un letto in più in cui Anja dorme una volta a settimana, quando la mattina dopo non c’è scuola e si può fare tardi, rimanere a pancia in su a guardare le stelle finte, fosforescenti, che le salvano dal buio. Quello che non sa è che continuerà a sognarla, anche quando sarà adulta e non esisteranno più i giorni in cui non si va a scuola, anche quando lei e Giulia vivranno in due città diverse e non ci saranno più notti a escogitare scherzi che quasi mai mettono in pratica.
Tranne quella volta in cui si affacciano dalla tromba delle scale e sputano, e la saliva arriva giù, fino all’androne, davanti alla porta dell’ascensore. La più idiota delle loro idee, quella che mettono in atto. Lo sputo che sfida il vuoto e si schianta a terra.
Vengono beccate subito, e il perché della ramanzina lo capiscono, ma in fondo non lo approvano.

D’estate si ostinano a salire in terrazza, nonostante il sole a picco e i pochi spazi d’ombra; s’illudono che sia più fresco, trascinano su due sdraio e si abbronzano. Provano a stare ferme ma resistono poco, hanno caldo, sono allo stesso tempo oziose e insofferenti. Non trovano niente di meglio del cibo per sconfiggere la noia. Scendono in cucina e risalgono con quello che hanno trovato nel freezer, una torta gelato alla nocciola.
Tagliano due fette e le lasciano sotto il sole, le guardano sciogliersi, sono affascinate da quel lento disfarsi, l’inarrestabile crollo. Rimangono anche loro sotto il sole a sudare, vorrebbero diventare liquide e poter passare dalle fessure senza essere viste, affrontare il nuovo anno scolastico sotto forma di macchie d’umido, un’infiltrazione.
Quando la torta ha le sembianze di un piccolo lago, afferrano il piatto e la mangiano, col cucchiaio grattano la superficie fino a recuperare ogni goccia, poi leccano il fondo: la torta è sparita.

Silvia è la più carina della classe: ha capelli lunghi biondo cenere, occhi di un castano ambrato, un corpo esile modellato dalla danza classica. Le assegnano i ruoli da protagonista nelle recite, è in primo piano nelle foto, durante una gita un noto attore la vede passare e chiede alle maestre il consenso perché possa partecipare alle riprese di un suo sceneggiato; chiamano la madre, la risposta è sì.
Anja sente di invidiarla, percepisce distintamente il proprio corpo come un ostacolo, un fastidio che non solo le impedirà di fare le cose che vorrebbe, ma persino di desiderarle. Vuole esserci lei in quello sceneggiato, pensa che sarebbe più giusto, perché è la più brava a scrivere i temi, ha voti più alti, un miglior rendimento. Se lo meriterebbe.
L’attore è poco più in là, parla con qualcuno; Anja si allontana dal resto del gruppo, cerca di entrare nella sua visuale. Per un attimo le sembra che lui la guardi, si sforza di essere disinvolta, di fingere che siano gli stessi gesti di sempre: tutto quello che deve fare è ruotare su se stessa, raddrizzare bene la schiena, tirare in dentro la pancia. Si mette di profilo davanti all’attore.

Giulia dice che suo padre è magico. Certe mattine si sveglia e lo trova seduto al tavolo della cucina con la schiena dritta e gli occhi chiusi; quando la sente arrivare, le chiede di avvicinarsi, e lei sa quel che deve fare: gli poggia le mani sulle tempie e le tiene premute. Stanno così per qualche secondo mentre lui fa strani versi meditativi, poi annuncia: Vedo qualcosa nel secondo cassetto del bagno, Vai a controllare le tue ciabatte in camera, Fruga sotto il cuscino del divano. Giulia corre e trova un pacchetto di figurine, una tavoletta di cioccolato, un braccialetto. Sono le sue mattine preferite.
A volte succede quando c’è anche Anja. Giulia è generosa, non vuole tenere le cose belle per sé, insiste perché anche lei si avvicini e appoggi le mani sulle tempie del padre, ma Anja non vorrebbe farlo, non le piace toccare, non le piace avvicinarsi troppo agli adulti: ha paura che si arrabbino. Sono solo pochi secondi, non vuole deludere Giulia. Sente il contatto della sua pelle con quella fronte sudata, trema, aspetta il verdetto.
Quando ritrova il suo piccolo dono sotto il tavolino del terrazzo, si sente in colpa: non merita un regalo, non ha fatto nulla e non sa come ripagarlo. La risata di Giulia spazza via tutto. Per oggi le magie sono finite, possono fare colazione.

Un giorno Anja sta rientrando in classe, è nel lungo corridoio tappezzato di disegni; sente Giulia che la chiama, le chiede di aspettarla, è qualche passo indietro. Anja non si volta, non aspetta. Non sa perché lo fa, ma lo fa deliberatamente. Ha bisogno di ignorare, di ferire, di avere un potere. Forse è stanca di sentirsi legata a filo doppio a un’unica persona, forse ha paura, forse è un capriccio, forse non ha voglia di parlare, forse è stufa. Non lo capirà mai, nemmeno anni dopo, nemmeno quando saprà che voltarsi è pericoloso, è cercare un passato che l’altro non sa.
Giulia continua a chiamare, all’inizio divertita, poi sempre più nervosa, infine arrabbiata. In classe litigano, Giulia l’accusa di cattiveria, Anja nega tutto, dice di non aver sentito. Mente.
Non si parlano per mesi.

Mentre richiude il letto aggiuntivo, qualcosa va storto, una molla cede, una delle gambe le si richiude sul dito e il ferro le penetra la pelle. Giulia non se ne accorge subito, il dolore arriva qualche secondo dopo, e poi lo vede: un pezzo del polpastrello penzola, il sangue le cola giù verso il polso. Si spaventa, urla, si mette a correre ma non sa bene dove andare. Con lei c’è un’amica, quella che ora dorme in quel letto al posto di Anja, ma lei continua a correre in cerca di qualcosa.
La fermano, provano a calmarla, la portano via.
Mettere i punti è una tortura lentissima, Giulia piange, ormai esausta. Torna a casa col dito fasciato, una garza ingombrante che le impedisce di scrivere. Il giorno dopo i suoi genitori buttano via il letto di ferro, ne comprano uno nuovo.
Il dito non sarà mai più come prima, rimarrà più largo, sformato, con un solco visibile nel mezzo del polpastrello.

valallart 2

Da quando ha cambiato lavoro Anja non dorme. Le notti sono interminabili, spazi confusi in cui il tempo sembra retrocedere. Più lei aspetta, più le sembra di essere vicina alla sera precedente. Però non accende la luce, non si alza, non si mette a fare altro: rimane inchiodata al letto, con gli occhi chiusi.
Non è possibile non dormire, ora sto qui e di sicuro mi addormento, ora sto qui e senza accorgermene sarà domattina, avrò riposato.
È ancora questa la soluzione: negare la realtà, rifiutare ciò che non le piace. Stare altrove. Un tempo la veglia era diversa, era un desiderio.
Si gira su un fianco e porta le ginocchia al petto, le stringe al seno, cerca di tenersi caldo, ha letto che il tepore concilia il sonno. Passa le ore così, sveglia e in preda all’ansia, a darsi il peggio di sé. Ora il corpo non ha più fretta, non corre velocemente in avanti, sembra non voglia arrivare nemmeno al giorno dopo.
Quando si assopisce torna sempre quel sogno: lei che vaga di notte e all’improvviso trova Giulia, entrano in un piccolo giardino, si sdraiano a terra e guardano il cielo. Infine lei dice: Non sai quanto vorrei ritornare lì.

Giulia ha due figlie, le ha avute quand’era molto giovane: sono due bambine diverse dalla bambina che è stata lei, hanno un corpo asciutto e scattante, muscoli forti, nervi tesi. Vorrebbero correre tutto il giorno, andare in bici, stancarsi per strada; è una battaglia farle stare dentro, farle stare al caldo, sedute a fare i compiti o a guardare un cartone. Si stufano, borbottano, piangono.
Ripensa a com’era con Anja, quei pomeriggi lenti, stese per terra a registrare la propria voce per poi riascoltarla, incredule di come fosse diversa, oppure a cantare le canzoni di Battisti, un cd trovato in camera di sua madre. Lunghe ore soltanto a parlare, con l’unico desiderio di stare chiuse in uno spazio, loro due, e da lì non uscire, non autorizzarsi a scappare. Le mattine, i pomeriggi, le sere, le notti: non c’era tempo in cui Anja non fosse. Si chiede dove sia finita la quiete, che fine abbia fatto la calma; non le sembra di aver stancato sua madre quanto le sue figlie stancano lei.
Quando Anja la viene a trovare, la sera mettono le bambine a letto e se ne vanno in salotto, si siedono sul divano con la televisione a basso volume, ma non la guardano. Non se lo dicono, ma entrambe aspettano: che torni la lentezza, che torni il tempo perso.
Sentono rumori provenire dalla stanza, sentono risate, piccoli litigi. Si schiariscono la gola, impostano la loro voce più severa: Bimbe, basta, è ora di dormire.
Ma non riescono a essere serie, si guardano ridendo, senza farsi sentire.

Bimbe, basta, è ora di dormire.
E allora abbassavano la voce, spegnevano la lampada sul comodino.
C’erano le stelle fluorescenti sul soffitto, e le terre emerse dei loro corpi, sotto. Loro due nella stanza. Il grande atlante del mondo.

Testo Jessica La Fauci
Illustrazioni Valallart

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